Assassinio Sul Nilo, Kenneth Branagh e la decostruzione del mito di Hercule Poirot

Dopo “Assassinio Sull’Orient Express", Branagh rilegge un altro classico del ciclo di Agatha Christie dedicato all’infallibile detective. Che non sembra poi così infallibile. Dal 10 febbraio in sala

Assassinio Sul Nilo

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Assassinio Sul Nilo è la seconda tappa di questa reinvenzione cui Kenneth Branagh (regia e protagonista) e Michael Green (sceneggiatore) hanno sottoposto il croccante universo dei romanzi gialli di Agatha Christie. Il film conferma le qualità, i limiti e le caratteristiche precipue del dispositivo di riscrittura dopo Assassino Sull’Orient Express. Nel quale, sebbene siano stati scelti del ciclo dei romanzi Poirot i due congegni narrativi più arguti e oliati, non è appunto la trama a importare davvero, la detection, vista la vicenda arcinota, bensì la costruzione e soprattutto la decostruzione del protagonista.

Infatti stavolta Poirot (sempre Branagh), nel prologo in bianco e nero che rappresenta l’aggiunta e l’infrazione più corposa al libro, lo ritroviamo imberbe soldatino (ovviamente ringiovanito in computer graphic) della Prima Guerra Mondiale – che Branagh riprende con un lungo carrello tra le trincee che pare, addirittura, citare Orizzonti Di Gloria di Kubrick). Diversamente dalla mattanza kubrickiana qui il cervello già affilatissimo del fantaccino che studia i venti e il volo degli uccelli escogita una trovata che trasforma una sicura missione suicida in un’incredibile vittoria con pochissimo spargimento di sangue. Quello che si sparge, però, è il sangue di Poirot, che resta sfigurato al volto per l’esplosione d’una mina, cui deve ovviare con la crescita dei famosi e lambiccati baffi che vengono saporitamente inquadrati più e più volte.

Assassinio Sul Nilo, quindi, è tutto giocato sul mascheramento, sulla ferita interiore ed esteriore che caratterizza il protagonista, che oltre al suo profilo immacolato ha perduto, tanto tempo fa, anche l’unica donna davvero amata. Il racconto costituisce una sorta di lungo approfondimento sia sui motivi e le emozioni che si agitano sotto la superficie apparentemente imperturbabile del detective, sia sullo scacco che la sua intelligenza finisce per subire di fronte a un nuovo caso – qui Branagh pare memore del trattamento cui in un film mirabile Billy Wilder sottopose Sherlock Holmes, cui toglieva la buccia e l’etichetta dell’investigatore infallibile.

Branagh invece a Poirot toglie, metaforicamente e letteralmente, i baffi, inseguendolo, una volta compiuto un salto di vent’anni, lungo le anse del Nilo sul quale, ospite d’un elegantissimo battello tutto vetrate – apparentemente trasparente e invece sentina di un moltiplicarsi di trame oscure e delitti – si sta svolgendo il party per celebrare le nozze d’una ricchissima ereditiera (Gal Gadot) con un bellimbusto spiantato (Armie Hammer) e però, pare, innamoratissimo. Intorno ai due s’agita un gruppo d’invitati non poco ambigui, tra parenti, amministratori delle fortune della donna, vecchie fiamme deluse, soprattutto la ex di lui (Emma Mackey), abbandonata quasi sull’altare, che li segue ossessivamente come una stalker, terrorizzandoli non poco. Fino a quando le paure non si materializzano nell’assassinio dell’ereditiera, del quale, naturalmente, tutti gli invitati sono sospettati, visto che avrebbero un valido movente.

In questo Assassinio Sul Nilo però, come anticipavamo, non sono tanto le svolte dell’intreccio a interessare, sebbene la trama, pur con qualche modifica, venga seguita attraverso fazzoletti macchiati di sangue, stole, pistole calibro 22, collane di perle che infallibilmente scompaiono e ricompaiono. Non è importante nemmeno la solita messinscena cosmopolita e scintillante di gente facoltosa e affettata oltre ogni immaginazione, con qualche spruzzata d’ammodernamento tematico che strizza l’occhio ai tempi nostri – omosessualità, razzismo, vagamente accennati. Neanche – purtroppo, è il difetto maggiore del film – conta l’ambientazione, in questo Egitto che sa troppo di studio e ricostruzione digitale, finto irreale artificioso fondale d’una vicenda che invece si vorrebbe carnale umana bruciante.

Conta invece lo smacco cui è sottoposto Poirot, che riuscirà pure a risolvere il caso come sempre, ma nel frattempo dà ampia dimostrazione della sua insipienza, del suo essere in balia di eventi che non controlla – come gli rinfaccia il personaggio intrepretato da Annette Benning –, gettato in mezzo ai quali non perde forse l’onore e la fama del suo talento da segugio, ma perde quasi tutto il resto, affetti, amicizie, certezze. Rispetto al romanzo il finale di Assassinio Sul Nilo è più cupo, più infelice, con legami inesorabilmente spezzati e una resa dei conti in cui il colpevole o i colpevoli dimostrano la consapevolezza di quel bruciante mistero che lascia un bel niente tra le mai che è l’amore. Una consapevolezza che si riverbera su Poirot, sempre meno convinto della giustezza della sua vita come l’ha condotta fino a quel momento – “dopo Katherine [la donna amata in gioventù, ndr] sono diventato qualunque cosa sono adesso”, dice con desolato disincanto – e forse per questo pronto a rischiare finalmente qualcosa.

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