Da dove veniamo e dove andiamo o dovremmo andare, sotto la guida delle Pussy Riot

Il progetto musicale a cui stanno lavorando, è qualcosa che indubbiamente merita attenzione, oggi più che mai


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Non fare lo stupido, non fare lo scemo: le vagina è da dove arrivi. Da dove arrivi? Dalla Vagina!

Partiamo da un assunto, le Pussy Riot, in nomen omen, non hanno peli sulla lingua.

Queste parole infatti le Pussy Riot intonavano nel ritornello di Straight Outta Vagina, brano di qualche anno fa nel quale Nadja Tolokonnikova, lei è l’indiscussa leader del collettivo russo, facendo il verso a quel Straight Outta Compton divenuto in qualche modo manifesto del gangasta rap della West Coast, Dr Dre, Eazy E e gli altri NWA in quel caso gli artefici, rivendicava la centralità delle donne nella storia dell’umanità, a partire da mere faccende anatomiche. E sempre una vagina è al centro anche del video del nuovo simbolo della band, Punish, canzone che vede la firma anche di un’altra femminista sui generis come la cantautrice svedese Tove Lo, quella di Disco Tits e Bikini Porn, per intendersi, video animato nel quale un Harvey Weinstein con il viso da maiale si trova a fare i conti con una nuova supereroina decisamente sessualizzata, con tanto di tutina in latex e anal plug sul comodino, la vagina in questione al centro di una fontana alla quale l’uomo col viso da maiale va a abbeverarsi, sacrilegamente attraverso un calice non troppo diverso da quello con cui i sacerdoti bevono il vino transustanziato nel sangue di Cristo.

La musica, in entrambi i casi, ma come del resto negli altri brani pubblicati sotto quel marchio, così come in quelli, penso a My Sex di Brooke Candy, nei quali le Pussy Riot risultano ospiti con un loro featuring, elettronica spinta, certo con spiragli aperti al pop, ma comunque senza troppi compromessi. 

Che le Pussy Riot siano una realtà piuttosto unica nel panorama internazionale non è certo una mia scoperta personale, direi, le prese di posizione nette contro il governo Putin, il conseguente arresto e il carcere duro per tre di loro, Nadja e Marija, un paio di anni di detenzione, arresti domiciliari per la la fuoriuscita Ekaterina, il successivo successo planetario, ma il lavoro che ora stanno facendo, la sola Nadja al centro della scena, è qualcosa che indubbiamente merita attenzione, oggi più che mai.

Pensare oggi, a quasi due anni dall’omicidio di George Floyd e al conseguente movimento internazionale chiamato Black Lives Matter, finito ovviamente in tutte le serie Tv americane, da quelle più sensibili come Grey’s Anatomy o Station 19, a quelle più muscolari come S.W.A.T., da noi ovviamente nessuna traccia nelle narrazioni artistiche, dalle canzoni al cinema, figuriamoci, pensare oggi a una canzone come I Can’t Breathe, primo brano in inglese della band russa, dedicato all’omicidio di Eric Garner da parte della polizia di New York, omicidio che ricalca pedissequamente quello di Floyd, anche in questo caso un poliziotto uccide soffocandolo nell’intento di immobilizzarlo un sospettato, pensare oggi a una canzone come I Can’t Breathe lascia senza fiato, scusate lo stupido gioco di parole, il video che vede le ragazze che vengono letteralmente sotterrato, mentre un tappeto cupo, elettronico accompagna le loro parole, è qualcosa di sorprendente, specie se si pensa alle prime esibizioni del collettivo, i passamontagna e gli abiti colorati, una approssimativa musica punk a accompagnare performance più attente alle provocazioni che all’arte. Arte che con gli anni si è in qualche modo affinata, perdendo solo in apparenza di ruvidezza e di irruenza, ma che in realtà ha semplicemente cambiato vestito sonoro, spostandosi da un rock primordiale verso l’elettronica, sempre a gamba tesa, i testi ancora una volta centrali e affilatissimi, e comunque lasciando aperte possibilità anche a brani più duri.

Che si tratti dell’inquietante incedere industrial di Organs, in realtà in russo, Nadja nuda dentro una vasca, coperta di sangue, o i ritmi carabici di Make America Great Again, feroce attacco al governo Trump, come la ballad a metà tra incedere etereo e l’enfasi da proclama di Police State o le atmosferiche nippo di 1937 o di Unicorn Freedom, che sia l’electroclash di Track About a Good Cop o le scosse asfittiche di Rage, fino alla dance vagamente alla Robert Miles di Knife, non disdegnando il grindcore di 1312 e il rock sintetico e bambinesco, una voce alla Yolandi Visser dei Die Antwoord, di Panic Attack, nel corso degli ultimi cinque o sei anni le Pussy Riot hanno molto lavorato sul fronte compositivo, la collaborazione prima con la rapper performer Brooke Candy, poi con Tom Morello, ex chitarrista dei Rage Against the Machine, insieme hanno tirato fuori il singolo Wheater Strike, fino a Hofmmanita, artista russa con la quale hanno inciso una sorta di prequel di Punish, sia come tematica che come video, anche lì compaiono uomini col viso da maiale, insieme ai poliziotti veri e propri feticci per le Pussy Riot, il titolo del brano è sintomaticamente Sexist, fino a Tove Lo, una vera innovatrice sul fronte del pop orientato al clubbing, oltre che femminista che da sempre lavora per il diritto al piacere e a una girl enpowerment dissacrante e liberatorio, nota è la sua vicinanza al movimento Free the Nipple e altrettanto noto il logo scelto per accompagnare le proprie produzioni, una vagina stilizzata che compare a sostituire le due O del suo nome d’arte, vagina stilizzata, va detto, che è anche il logo con cui si chiude il video di Punish, tutto torna, come in certi sonetti simmetrici e rassicuranti.

Del resto un brano come Straight Outta Vagina, da lì eravamo partiti, è decisamente ironico e scherzoso, nonostante parli in maniera esplicita di emancipazione e di emancipazione sessuale, il video che inizia con una Pussy Riot vestita da suora con passamontagna che impartisce a una bambina di passamontagna munita una comunione blasfema con un’ostia a forma di vulva per poi proseguire con un dissacrante balletto dentro dei bagni pubblici, la sfrontatezza che si fa decisamente spavalda, come una Girls Just Want to Have Fun di Cindy Lauper in chiave tripla X, o quantomeno più esplicita, al punto che osiamo dire che Straight Outta Vagina sia una specie di versione parallela e speculare, seppur più anatomica, del Map of Tasmania di Amanda Palmer, artista che quanto a provocazione e a femminismo, in effetti, va decisamente di pari passo con Nadja e socie.

Poi, tanto per non dare l’impressione che il fenomeno Pussy Riot sia qualcosa di squisitamente e esclusivamente pop, le loro ultime canzoni hanno potenziale da hit, negarlo sarebbe negare l’evidenza, resta il fatto che Nadja e Marjia, Ekaterina è uscita quasi subito dal gruppo, rinnegando in qualche modo il suo passato, dietro la cura che ora accompagna il loro aspetto, decisamente più patinato e occidentalizzato, parlo da occidentale, restano delle sovversive capaci di far incazzare un dittatore dal pugno di ferro come Putin, uno che stando al non detto, non è uso farsi scrupoli di far fuori, più o meno metaforicamente i propri avversari politici e non, il loro performare dentro la cattedrale ortodossa di Mosca, andando a intonare un inno blasfemo nel quale si chiede alla Madonna di far cadere il buon vecchio Vladimir costerà loro due anni di lavori forzati, due ragazze che scrivono in prevalenza brani contro le violenze della polizia o contro il sessismo del patriarcato, il fatto che il tutto ci venga proposto con vocine bambinesche, vedi appunto il caso di Yolandi Visser, non tragga in inganno. Perché, credo, vederla ora posare sexy su Instragram, parlo di Nadja, non troppo diversa dalla supereroina del video di Punish, un tatuaggio che richiama sempre a una vagina lì, in mezzo alla pancia, intorno all’ombelico, potrebbe far dimenticare di quando, appunto, prendeva manganellate dai poliziotti russi, non certo noti per andare per il sottile, o di quando si faceva filmare mentre prendeva parte a orge, il tutto mentre neanche ventiduenne era incinta, perché convinta che scandalizzare e disturbare fosse un modo incisivo per portare avanti istanze di protesta, il corpo come strumento artistico e politico, mica è un caso che uno dei loro slogan più riusciti recita “il sesso è bello, ma avete provato a fottere il sistema?”, come mica sarà un caso che anche le Femen, le attiviste che irrompono a seni scoperti, arrivino dalle medesime lande, si può essere incisive anche se si è diventate popstar, basta solo non perdere di vista la propria poetica, avere cioè ben chiaro in mente cosa si vuole veicolare.

Dico questo e lo dico oggi, certo usando l’uscita recente di Punish come scusa, uso sempre la musica come scusa per dire altro, direi che a questo punto posso anche fare a meno di spiegarlo ogni volta, perché mi meraviglia molto, quasi mi spiazza, vedere come di fronte a uno scenario come quello che due anni di pandemia hanno calcificato in Italia, le donne sempre più discriminate, perché quando si tratta di dover supportare figli in DAD è quasi sempre alle mamme che si pensa, perché quando si deve licenziare qualcuno è più facile che la scelta ricada sulle donne, storicamente più fragili lavorativamente parlando, perché anche sul fronte delle violenze, fisiche e psicologiche, l’aver passato così tanto tempo in casa spesso con i propri carnefici ha contribuito come mai prima a rendere invivibile vite già malconce di loro, ecco, di fronte a tutto questo non ci sia una artista che una che abbia deciso di alzare la voce, non dico assaltare una qualche cattedrale e inscenare una messa laica di protesta, né dico di fare qualcosa di riottoso, siamo sotto pandemia, è bene prendere tutte le precauzioni del caso, ma magari farsi sentire sì, anche artisticamente, alzare il tiro, accentrare l’attenzione, gridare. Me lo dico pensando che non necessariamente dall’ambito punk o situazionista dovrebbe arrivare questa voce, come ho detto, oggi le Pussy Riot sono a tutti gli effetti artiste pop, che collaborano con hitmaker come Tove Lo, quella che ha scritto per gente come Ellie Goulding, Katy Perry, Coldplay, Duran Duran e Maroon 5, mica per i Bad Religion o i Fugazi. Questo silenzio, per altro spalmato anche su tutte le altre tematiche dolenti, mi immalinconisce, spingendomi a una forma di rassegnata desolazione. E dire che almeno su quello tutti dovremmo convenire, è da una vagina che arriviamo tutti, Bianconi canterebbe che è lì che vuole tornare, parafrasando Woody Allen, ma andremmo in altra direzione, e che non ci sia nessuno che alzi la voce per chiedere che una volta da lì usciti si debba comunque continuare a portarle rispetto è davvero desolante.