Si esce dagli anni 80, esattamente come ci si è entrati

Vi invito a leggere questo articolo con attenzione per dimostrare che resto sempre il ghepardo di una volta

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“E lasciami appoggiare la testa sopra il tuo seno… ed un brivido mi increspa la pelle, mentre lasci cadere lo scialle, le tue calze colore di mare giù dal letto le vedo volare, e nell’ombra il profilo del corpo immaturo che hai. Così piccola come un pulcino, insicura mi vieni vicino, con quel modo di inventare l’amore che tu hai…”. Giorni fa mi è capitato di riascoltare, credo dopo non so più neanche io quanti anni All’improvviso l’incoscienza di Roberto Soffici. No, non voglio scrivere di guilty pleasure, anche se il pezzo in questione rientrerebbe a pieno titolo nella categoria. Né voglio raccontarvi che mio cognato Mauro, il marito di mia sorella, in gioventù ha suonato il piano nella sua band, come del resto aveva suonato nella band di Luciano Rossi, quello di Ammazzate oh, che io per altro ho sempre confuso con Stefano Rosso, quello di Una storia disonesta (“che bello, gli amici, una chitarra e uno spinello”), per la cronaca anche padre di Jesto e di TayioYamanouchi. Ve ne parlo perché ero lì che mi vedevo un vecchio video su YouTube, di quelli che presentano filmati d’epoca delle teche Rai. C’era un Gianni Boncompagni in completo chiaro, molto elegante, e lui, Roberto Soffici, con un improbabilissimo maglioncino a righe orizzontali, di quelli che oggi si userebbero per vestire in un qualche film sugli anni Ottanta uno sfigato, anche se il video è del 1977, quando lui, Roberto Soffici, comincia a cantare con la sua voce lieve una delle sue più clamorose hit (la più clamorosa, immagino, sia Ti voglio tanto bene). Inizia a cantare esattamente le parole con cui questo scritto è partito, e solo oggi, a cinquantadue anni, realizzo che è una storia a forte rischio pedofilia. Perché c’è un lui maturo, Soffici all’epoca aveva trentuno anni, anche se a vederlo gliene si potrebbe dare comodamente una quarantina, e lei è la titolare del “corpo immaturo”, quella “piccola come un pulcino”. La cosa, confesso, mi ha messo un filo a disagio. Non perché non ci siano altre canzoni che cantano l’amore e anche il sesso tra un uomo, nel 1977 a trentuno anni eri un adulto, non come oggi che sei un ragazzo fino ai cinquanta, e una ragazzina col corpo ancora immaturo, penso a Quanti anni hai? o a Gabri di Vasco o L’Aiuola di Gianluca Grignani, per dire, ma perché all’epoca, a memoria, nessuno si è soffermato su questo aspetto vagamente inquietante. Del resto all’epoca, giusto un anno prima, nel 1976, al Festival di Sanremo Sandro Giacobbe azzeccava la sua hit della vita, quella Gli occhi verde di tua madre scritta per lui da quei due mostri sacri che rispondono al nome di Daniele Pace e Oscar Avogadro, brano nel quale a essere oggetto del suo amore e del suo desiderio è la madre della sua ragazza, titolare appunto degli occhi verdi del titolo, primo caso di MILF, letteralmente, della nostra canzone popolare. Volessi ora dire che il disagio mi ha indotto a fermarmi in quella che potrei chiamare la conseguente ricerca in quel mondo che mi ricordavo leggero e aulico e che invece a questo punto mi è apparso torbido e pruriginoso. Così, per dire, mi sono ritrovato a vedere il video improbabilissimo di Ti voglio tanto bene, canzone che mi stava profondamente sul culo già in età immatura, per dirla con lo stesso Soffici, dove il nostro canta accompagnandosi con una inesistente, nella base, chitarra classica tenuta su senza neanche una cinta, aggirandosi tra campi da tennis e piscina, una ragazza a gambe incrociate in bikini seduta su una panchina bianca a ballare nelle prime scene, lui sempre con un maglioncino color pastello a rombi molto vintage che allora vintage non era, poi a cantare a un’altra ragazza in bikini su un’altra panchina, stavolta a bordo piscina, intenta a leggere un libro, e poi via verso la prima ragazza, nel mentre andata a sedersi su una sedia da mare.

Come direbbero oggi sui social, usando un’espressione che trovo forse ancora più agghiacciante dell’aver scoperto che da piccolo ascoltavo e canticchiavo il brano di un adulto che forzava la mano a una ragazzina, questi video e queste canzoni mi hanno acceso un ricordo, sempre attinente al mio passato, anche se parliamo degli anni Ottanta, nella sua parte centrale. Ero un ragazzino, come la protagonista di All’improvviso l’incoscienza, e passavo le giornate con un gruppo di amici in quello che era il mio nuovo quartiere, il centro storico di Ancona. Ci trovavamo spesso a giocare a calcio nei campetti di due parrocchie, San Francesco alle Scale e San Domenico, entrambi di puro cemento armato, e quando non giocavamo a calcio giocavamo a Subbuteo, che del calcio era surrogato, a rotazione a casa di qualcuno di noi. Uno di noi si chiamava, si chiama tuttora, Vincenzo, e noi, dando seguito a una tipica modalità anconetana, lo chiamavamo Pinocchio, per quel suo essere estremamente alto e magro. Da noi è sempre stato così, davamo soprannomi, spesso odiosi come questo, a tutti, alcuni davvero inquietanti. Ricordo perfettamente una volta che, da poco fidanzatomi con colei che ora è mia moglie, Marina, abbiamo incontrato per il corso dove si era soliti andare a fare le vasche, ditemi voi se non vi sto accendendo una serie di ricordi, un ragazzo più giovane di noi che era solito riempire i buchi nelle formazioni delle nostre squadre, quando qualcuno di noi era assente. Un ragazzo più piccolo, quindi destinato per natura a una sorta di benevolo nonnismo che noi, in virtù di una foltissima capigliatura, accompagnata da improbabili basettone, ancora intonse, chiamavamo bonariamente Donno Lupo, facendo gratuite illazioni sulla sua eterosessualità. Mentre quindi io passeggiavo con Marina per il corso, era sera, abbiamo incontrato il ragazzino in questione, con la sua fidanzatina, e io l’ho salutato esattamente come lo avrei salutato al campetto, magari dicendogli di darsi una mossa a entrare in campo, che oggi un Dio benigno gli avrebbe concesso di poter giocare con noi: “Ciao, Donno Lupo”. Farlo di fronte alla sua fidanzatina, ovviamente, mi ha fatto notare Marina, già all’epoca censore di ogni mia uscita politicamente scorretta e fuoriluogo, censore, converrete, non abilissimo nell’arginarmi, è stato un gesto deprecabile, ancor più perché fatto in malafede, in me era evidentemente chiaro l’idea di prenderlo per il culo. Tornando a noi che giochiamo a Subbuteo e a Pinocchio, Pinocchio abitava, credo ci abiti ancora, ci siamo persi di vista, seppur quando capita di incontrarci per caso, nella nostra città, c’è sempre grande affetto, e io non lo chiamo più Pinocchio da una vita, dietro la chiesa di San Domenico,  a pochi passi da Piazza Roma, che di Ancona non sarebbe tecnicamente la piazza centrale, quella è Piazza Cavour, ma nei fatti lo è eccome. Ora davanti casa sua sorge un palazzo costruito negli anni Novanta, la Corte di Appello di Ancona, all’epoca c’era uno di quei cantieri abbandonati da subito dopo che era stato abbattuto il palazzo pericolante causa terremoto del 1972, recintato da lamiere e che fungeva da immensa pattumiera, tutti quelli che abitavano nei pressi ci lanciavano l’immondizia, alcuni direttamente dalle finestre di casa. Proprio sotto casa sua c’era un meccanico, non ricordo il nome. Quello che però ricordo perfettamente è che il meccanico, all’epoca mi sembrava parecchio grande di età, ma immagino non avrà avuto neanche trent’anni, se Roberto Soffici può essere preso a modello per fare paragoni, aveva battezzato una certa porzione delle ragazze della zona, facendole innamorare con la sua aria da uomo vissuto, un meccanico, mica un impiegato del catasto, portandosene a letto una bella quantità. La cosa, confesso, mi metteva a sua volta a disagio, perché le poche volte che lo avevo sentito parlare mi era sembrato un emerito coglione, ma questo all’epoca non sapevo sarebbe poi stato un concetto da tenere nascosto, pena l’essere accusato di voler fare l’intellettualone, e perché avevo la netta sensazione, ero un ragazzino che non aveva avuto alcuna educazione sentimentale, men che meno sessuale, che un adulto che si portasse a letto mie coetanee non fosse esattamente nel recinto della legalità, o quantomeno dell’etica. Chiaramente, questo lo penso oggi, all’epoca ero ignaro di cosa parlasse All’improvviso l’incoscienza, e negli anni Ottanta, immagino, vado a memoria, le mie orecchie erano più propense a ascoltare roba tipo More Then I Can Bear dei Matt Bianco, Survivor di Mike Francis o Relax dei Frankie Goes To Hollywood, solo dopo avrei capito che almeno in quest’ultimo brano erano nascosti dettagli che avrebbero potuto mettere a repentaglio proprio quel baluardo di eterosessualità che provavo a mettere in dubbio agli occhi della fidanzatina di Donno Lupo. Nei fatti i miei preferiti, so di aver girato neanche troppo vagamente intorno al 1984, anche se probabilmente la faccenda del meccanico novello Nick Kamen in grado di far capitolare ai suoi piedi tutte le ragazze della zona di Pinocchio, erano altri: dai Culture Club di Victims, in quel caso la questione dell’orientamente sessuale non era coinvolto, attenzione, sto provando a continuare a ragionare come il me stesso ragazzino negli anni Ottanta, perché così sfacciatametne sbandierato, esattamente come nel caso dei Bronski Beat o dei Dead or Alice, a Duel dei Propaganda, non a caso sarà proprio questo brano che sceglierò come sigla quando, verso il finale del decennio, comincerò a lavorare in una radio privata, Radio Marche Ancona, per non dire degli Eurythmics di Annie Lennox e Dave Stewart, niente che possa rientrare nei Guilty Pleasure, direi, a occhio. Soffici, che invece credo ci rientri, l’ho conosciuto più per la curiosità di sapere, ancora giovanissimo, con chi avesse suonato mio cognato Mauro, mio cognato che per altro da giovane era la copia bianca, è evidente che oggi l’asticella del politicamente scorretto è particolarmente alta, del Lionel Richie all’epoca in vetta alle classifiche con le varie All Night Long e Hello, per non dire di We Are the World, scirtta con Michael Jackson e interpretata da mezzo mondo del pop americano, Prince autoescluso. È lui, Mauro, a avermi introdotto alla musica di Billie Joel, presente nel video di We Are The World con una barba folta alla Kenny Rogers, per altro incaricato di cantare un pezzo più lungo del suo del brano, e Stevie Wonder, lì a rimpallarsi le strofe con Bruce Springsteen, come di Al Jarreau, vedi sopra.

Ora, a questo punto, è ovvio che mentre scrivo mi sto rivedendo il video in questione, quel biscottino che mi apre ricordi a raffica, manco fossi Proust, da non confondere, questa la capisce solo chi c’era, con Alain Prost, sempre ai tempi a giocarsi i campionati con Gilles Villeneuve, uno dei primi eroi morti nella mia gioventù, ora, a questo punto potrei giocarmi la carta di Cindy Lauper, lì a cantare con tutta la carica di energia che ai tempi, immagino anche oggi, si portava dietro, la folta capigliatura giallo evidenziatore, striati di rosa, andando a citare la sua megahit Girls Jut Want to Have Fun, tornando all’inizio di questo racconto, a metà strada tra il pulcino di Soffici e le mie compagne di scuola passate sotto le grinfie del meccanico, magari lasciandomi andare a una piccola deviazione su come il mondo possa essere un posto strano, la famosa rivalità tra Cindy Lauper e Madonna, quasi un testa a testa, a un certo punto svanito nel nulla, Madonna a essere Madonna, la Lauper scomparsa dai monito, rivalità che potrebbe darmi agio di affrontare quella che a sua volta sembrava poter essere uno scontro tra titani, e scontro tra titani in effetti era, quello tra Michael Jackson e Prince, ahinoi accomunati non solo da un talento immenso, ma da un destino infame e una morte prematura, potrei fare questo, oppure potrei tornare su quel che è di moda sui social, e agganciarmi alle famose facce che Bob Dylan, evidentemente a disagio in mezzo a tutte quelle star del pop, lì nel video di We Are The World, sciorina una dopo l’altra. Disagio e spaesamento, al punto da diventare un meme e un gif, tornando anche in questo caso al mio disagio iniziale, quello nell’aver scoperto che All’improvviso l’incoscienza in realtà era una storia a rischio accusa di pedofilia. Oppure potrei attaccarmi a questo mio aver parlato di We Are The World per raccontare di quando ho visto il video My Name is Bob, cortometraggio di Donald Rice interpretato da un geniale Bob Geldof nei panni di se stesso. Un video, trovate anche quello su YouTube, anche se sto per spolierarvelo. Un Bob Geldof cinico, che inizialmente, a bordo di una limousine, al telefono, gioca con sarcasmo sul suo essere diventato famosissimo proprio per USA for Africa, gli chiedono se vuole fare qualcosa di benefico per un orfanotrofio in Romania e lui risponde che si occupa solo di Africa, finendo poi, questo non ve lo spoilero, è geniale, guardatevelo, per prendere parte a un concorso per imitatori, nel quale imita ovviamente Bob Geldog, perdendo. O magari spostarmi sul fronte britannico della faccenda, del resto Bob Geldof è irlandese, mica americano, e prima di organizzare il Live Aid, per questo temo verrà ricordato, se ne faccia una ragione lui, e stando al cortometraggio in questione credo se la sia già fatta, e quanti lo hanno amato più come cantante dei Boomtown Rats, o magari solista, The Great Song of indifference piaceva piuttosto anche a me, aveva scritto insieme a Midge Ure e interpretato, insieme a Midge Ure, Midge Ure che tanti anni dopo avrei conosciuto a Sanremo, grazie a Enrico Ruggeri e ai Decibel, proprio ai quei tempi intenti a dar fuoco al mondo del pop italiano, e dal meglio del pop e del rock britannico, riunito sotto il nome Band Aid, Do They Know It’s Christmas? il titolo del brano, rivedere questo di video, oltre che accendermi ricordi mi ha messo una malinconia immensa, pensando a quanto eravamo giovani e a come stiamo inesorabilmente invecchiando. Sorte che purtroppo non è toccata a una quantità impressionante di persone che hanno in qualche modo avuto a che fare con lui, Bob Geldof, e non mi riferisco ovviamente ai bambini cui gli aiuti di Live Aid sono arrivati parzialmente, nono sono né la Gabbanelli né Iacona, parlo della sua ex moglie, Paula Yates, poi messasi con Michael Hutchense, cantante e leader degli INXS, quest’ultimo morto in maniera misteriosa, impiccatosi non si sa bene se per un gioco erotico o per propria volontà, come sostenuto dai media, nel 1997, lei  morta tre anni dopo per overdose, anche lì, non si sa bene se volontariamente o meno, ex moglie dalla quale Bob ha avuto tre figlie, una delle quali, la più nota, Peaches, modella e conduttrice televisiva, morta a sua volta per overdose di eroina nel 2014 a venticinque anni. Una vera vita di merda, Bob Geldof, non troppo lontana da quella del personaggio di Pink, protagonista del film The Wall, ispirato all’omonimo album dei Pink Floyd e scritto da Roger Waters e diretto da Alan Parker. Tutta questa girandola di input solo per dimostrare che resto sempre il ghepardo di una volta, quello che provava disagio nel sentir parlare il meccanico sotto casa di Pinocchio, quello le cui parole avrebbe portato una delle mie coetanee del quartiere a seguirlo nel retro dell’officina, come in una canzone di Roberto Soffici, solo con un po’ meno poesia e un po’ più di grasso per ingranaggi addosso. Noi intellettualini, no, a noi non è mai piaciuto troppo sporcarci le mani e le coscienze, noi giocavamo a Subbuteo, poveri cuccioli.