Io vi odio voi romani

Quando in questi giorni di elezione del Presidente della Repubblica sento leggere nomi come Alfonso Signorini o Claudio Baglioni, mi immalinconisco

Camera dei Deputati - Elezione del Presidente della Repubblica


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Quando io e mia moglie studiavamo all’università, lei frequentando Economia e Commercio nella nostra città, Ancona, io senza frequentare Storia Moderna, a Bologna, mi capitava di andare a volte a iscriverla agli esami, lei e le amiche con la quale studiava, Antonella, Lida, non ricordo chi altra, i corsi erano divisi a lettere dell’alfabeto, A-L e M-Z. Andavo io per un motivo semplice, anzi, due.  Il primo, ero un giovane ragazzo piuttosto innamorato, e avrei fatto qualsiasi cosa per la mia ragazza. Il secondo, pratico, abitavo in centro, vicino a dove si trovava la sede dell’Università, all’epoca al Palazzo degli Anziani, antico municipio, oggi tornato al Comune, e andare presto a iscriverle senza neanche dover prendere la macchina e spostarmi, la zona del centro storico è sempre stata incasinata, anche prima dei parcheggi a pagamento, le strisce Blu e quelle Gialle, era cosa fattibile. Se in più ci mettete che sono da sempre insonne, quindi alzarmi presto non mi è mai costata fatica, ecco spiegato il tutto. Quello che a volte facevo, a ripensarci oggi la cosa non sembra poi così intelligente, era riempire fogli delle liste, con nomi fittizi. Perché i professori di certi esami si dividevano i fogli, il primo il titolare del corso, il secondo un assistente, faccio un esempio, o perché superato un certo numero di iscritti l’orale scivolava al giorno successivo, un giorno in più per prepararsi. Così eccomi la mattina presto, munito di due o tre penne di colori diversi, a scrivere nomi inventati per riempire fogli, parliamo di pochi nomi, ovviamente, il trucco non doveva poter essere svelato, facendo una sorta di strategia molto precisa, infallibile. Siccome però sono un inguaribile buffone, nel fare questo, nello scrivere cioè nomi fittizi, non mi limitavo mai a inventarne di sana pianta, se ci pensate non è poi così facile, a chiunque verrebbe di usare almeno i cognomi di qualcuno che conosce, andando a inventarne di particolarmente creativi. Cosa facevo? Semplice, prendevo nomi di cantanti che ammiravo o che comunque facevano parte del mio immaginario, la musica è sempre stata centrale per me, che all’epoca non scrivevo ancora ma già facevo programmi nella locale Radio Marche Ancona. Quindi ecco lì che la mattina dell’esame il professore si trovava a convocare a voce alta Giovanni Lennone, cioè John Lennon, Roberto Fabbro, cioè Roberto Smith dei Cure, e via discorrendo. Qualcosa di stupido di cui, fossi stato presente, avrei ovviamente riso solo io, un po’ come succede con le infinite citazioni di cui infarcisco da sempre i miei scritti, incomprensibili a chiunque non sia io.

Quando quindi in questi malsani giorni di elezione del tredicesimo Presidente della Repubblica sento il Presidente della Camera o la Presidente del Senato leggere nomi come Alfonso Signorini, Claudio Baglioni, o anche il mio amico Enrico Ruggeri, per non dire di Rocco Siffredi o altri nomi che comunque non sarebbero comunque mai eletti e neanche, immagino, vorrebbero esserlo, dovrei sorridere, ripensando ai miei giorni giovanili e al professore di Diritto Economico che chiama a gran voce Rodolfo Protrudi, italianizzazione del leader dei Fuzzotnes. Invece mi immalinconisco. La malinconia è uno stato d’animo piuttosto caratterizzante di questi tempi, parlo per me, non solo e non tanto per quel che ci sta capitando, parlo ovviamente della pandemia e di quello che la pandemia ha portato nel nostro vivere sociale, quanto piuttosto per come vedo stanno cambiando i rapporti interpersonali e quindi anche quelli sociali da ben prima della pandemia, ero o non ero il cantore dell’Apocalisse già da qualche anno?, per cui a sentire leggere “Massimo Giletti” o “Piero Angela”, confesso, non trovo davvero nulla da ridere, anche se a volte mi sono soffermato a pensare, come molti immagino, che cercare il nome del Presidente della Repubblica fuori dall’alveo della politica, mondo che di questa china decadente che mi immalinconisce è ovviamente massima espressione oggi, ancora più che il mondo dell’arte, di cui mi occupo per lavoro, potrebbe non essere poi sbagliato, penso che questa scherzosa dimostrazione di spensieratezza, in un periodo cupo come questo, sia solamente offensiva, qualcosa che meriterebbe forse una punizione corporale, o quantomeno qualcosa come essere ricoperto di pece e piume, da nudi, e essere mandati per le strade al pubblico ludibrio. Il problema non sono infatti i nomi fatti, ripeto, penso che a occhio buona parte di quei nomi sia decisamente più competente e rispettabile del novantanove per cento di chi si trova a decidere realmente il prossimo Presidente della Repubblica, quanto il fatto che questa classe politica non abbia vergogna a dare questo spettacolo, finire sui social come meme, come video virali, non che i cappi esibiti, le magliette con le scritte idiote, le mortadelle, talmente tanti sono i momenti di imbarazzo che mi tornano alla memoria che credo la situazione sia insanabile. Non voglio fare il populista e dire che arrivare impreparati all’elezione del Presidente della Repubblica sia vergognoso, è evidente che è una fase di enpasse e che la presenza di Mario Draghi, il più papabile per quel ruolo, a Palazzo Chigi, renda tutto complicato, molto complicato, ma la politica è anche questo, affrontare situazioni complicate e trovare soluzioni anche impensabili, farlo per tempo avrebbe sicuramente aiutato un paese che non sta esattamente in ottima forma.

Poi, ovvio, l’idea che ci sia un Renzi che per mettere una pezza a un parlamento che vota Rocco Siffredi, un parlamento eletto dai cittadini, vorrebbe far eleggere anche il Presidente della Repubblica direttamente dai cittadini rasenta davvero il ridicolo, ma ormai da anni ho smesso a cercare di capire colui che è stato capace di passare dal 40% al 4% nel giro di pochi mesi, e nonostante questo se ne sta sempre lì, come il Renato Zero che aveva annunciato il ritiro nel 1990, inamovibile.

Parliamo di populismo. Funziona un po’ come per il politicamente scorretto, credo. Siccome viviamo in un’epoca di polarizzazioni, dove non esistono più le sfumature, come se realmente il mondo fosse fatto di bianchi e neri e non prevalentemente di nuance di grigio, prendere posizioni o istanze che possano essere incasellate in un pensiero populista, come non aderire pedissequamente al politicamente corretto, equivale oggi a appoggiare le spalle al muro dell’esecuzione sommaria, alcuna possibilità di difendere le proprie idee. Mi spiego, se adesso io volessi usare uno stereotipo come quello che associa la politica a Roma, e quindi per traslato, ai romani, andrei immediatamente a finire ingaggiato nella pletora dei vetero-leghisti, quelli che prima di prendersi una fetta di quella medesima Roma, per altro in quel caso si giocava sì sulla presenza nella capitale del Palazzo, metaforico e non, ma anche su una differenza di approccio alla vita, anche quello uno stereotipo, che vuole i romani assai diversi da chi arriva dal nord, ampliando il discorso i romani in questo frangente diventano terroni, suona strano oggi che la Lega prende voti anche nel profondo sud, ma un tempo erano i terroni i nemici, poi sostituiti dagli extracomunitari. Quindi, torno a dire, se io, di Ancona, schedato nella questura della mia città come anarchico, provassi a azzardare la scorciatoia dell’associare quella pantomima di nomi improbabili letti con serietà nel Palazzo a Roma, le scorciatoie hanno il vantaggio e lo svantaggio di portare presto alla meta, ma anche di portare alla meta senza lasciare spazio a soste o giri panoramici, passerei per un proto-leghista in odor di nostalgia, fossimo stati un paio di anni fa, magari, anche per un pentastellato incapace di analizzare troppo la contemporaneità.

Mi sposto di lato. Perché in fondo il mondo nel quale abito, professionalmente, è quello della musica, l’ho scelto, mi ha scelto, e perché è la musica che uso per provare a decifrare l’oggi. Esiste una notissima canzone di ormai quarantatré anni fa, A voi romani, che a suo tempo fece scalpore al limite del rischio di linciaggio. Un pezzo per altro contenuto in un album d’esordio, quindi di un artista che ancora non ha le spalle larghe abbastanza per fregarsene dei giudizi esterni, affiancata in tracklist di quell’album d’esordio con una canzone che ne fa da compendio ma che, a dirla tutta, se possibili ha rischiato di peggiorare addirittura le cose, Milano e Vincenzo, quella poi divenuta nota come Vincenzo io ti ammazzerò. Parlo, non credo servirebbe dirlo, di Alberto Fortis, uno dei nostri più interessanti cantautori di tutti i tempi, sicuramente tra i più originali e unici, dovessi allestire un paragone mi sentirei di tirare in ballo un altro artista che è da ricondurre a Milano, ma qui veramente finire per passare non volendo per un adepto del culto di Alberto da Giussano, Enzo Jannacci. Tornando a Alberto Fortis, il suo omonimo disco d’esordio esce nel 1979, voluto da Mara Maionchi e prodotto da Alberto Salerno, e già saremmo di fronte a due pezzi novanta della discografia dell’epoca, Salerno autore di testi fondamentali e da questo momento produttore illuminato, a lui si dovranno poi grandi carriere come quella di Mango o di Tiziano Ferro, essere loro amico, oggi, mi rende decisamente un uomo fortunato e costantemente sorpreso, un album che vede al fianco del giovane musicista di Domodossola una squadra di lavoro impressionante, Claudio Fabi, papà di Niccolò, agli arrangiamenti, e tutta la PFM al gran completo, Mussida, Di Cioccio, Djivas e Premoli a suonare, loro che avevano portato il rock nella musica di De Andrè ora dimostravano che il cantautorato potesse in effetti convivere con una pulsione elettrica, anzi, ne fosse proprio parte integrante. Qualcosa di oggi assolutamente impensabile, parlo di questo tipo di collaborazioni.

Ma a scorrere a memoria la tracklist, appunto, A voi romani, Milano e Vincenzo, Il duomo di notte, In soffitta, La sedia di lillà, Nuda e senza seno, La pazienza, Sono contento di voi e L’amicizia, viene ancora oggi da sgranare gli occhi e far cadere la mascella per la meraviglia, come un gabber che si è calato troppe pasticche. Raramente, credo, un artista al suo esordio ha infilato così tante canzoni destinate a diventare classici, e non parlo solo di classici del suo repertorio, ma della storia della musica italiana, una di fianco all’altra, andando per altro a dimostrare una capacità di scrittura e di interpretazione notevolissime, poliedriche, sfaccettate, perché si passa dal dissing dissacrante e anche un pochino feroce della canzone dedicata a Vincenzo Micocci, per intendersi il discografico cui si deve, letteralmente, l’esplosione dei cantautori, reo in questo caso di aver tenuto per due anni Fortis bloccato contrattualmente senza mai pubblicarlo, colpa che il giovane cantautore poi allargherà alla figura retorica, sì di figura retorica si parla, dei romani, alla poesia malinconica, sempre la malinconia, di La sedia di lillà, un brano struggente che parla di suicidio, come all’inno d’amore per Milano, celebrata in ogni passaggio del disco e qui capace di dare il la a una vera e propria poesia in musica, poesia perché in grado di evocare immagini senza ricorrere alla narrazione, impressionismo canoro, nel brano Il duomo di notte, a ragione considerata una delle più belle canzoni italiane di sempre, non solo in Italia, l’incipit “Piroette di sabbia e le guglie del Duomo, differenze tra pietra e le voglie di un uomo” andrebbe incisa proprio sulla facciata del medesimo Duomo, credo, tanto sono immaginifiche.

Io credo che Alberto Fortis sia una eccellenza della nostra cultura, popolare, certo, ma cultura, che andrebbe trattato con tutta la cura con cui le cose preziose vanno trattate, un talento immenso che spesso si è trovato a ballare da solo, la discografia che lui stigmatizzava proprio al suo affacciarsi al mondo non sempre in grado di comprenderne la grandezza, e credo che anche queste canzoni taglienti, canzoni che sin da subito gli hanno causato qualche problema, poco conta che lo stesso Micocci abbia poi usato la frase Vincenzo io ti ammazzerò come titolo della sua autobiografia, o che più e più volte Alberto si sia trovato a dover spiegare quello che quelle canzoni, per altro in maniera chiaramente intellegibile a chiunque abbia un minimo di capacità di analisi, volevano dire, gli archetipi e gli stereotipi sono lì appunto per farne un uso più o meno creativo, non sono la personificazione di chi potrebbe essere ricondotto a essi, credo che queste canzoni siano ancora oggi perfette per raccontare un modo di affrontare il vivere civile totalmente sbagliato, basta avere voglia di andare oltre i campanilismi e decifrare cosa si intende per “romani” in quei brani, figuriamoci se a lui o a me, oggi, interessa di lanciarsi in una questione di campanilismo territoriale o robe simili.

Che poi la grandezza di Alberto non si è ovviamente mica fermato solo al suo esordio, nel corso di questi oltre quarant’anni ha tirato fuori tanta bella musica, io per dire impazzisco ogni volta che sento lo special di Qui la luna, qualcosa che, credo, sia equiparabile a una visione mistica, quelle dei santi, ma penso alla tripletta di album seguiti a quel disco così dirompente, Tra demonio e santità, La grande grotta e Fragole infinita, dentro talmente tante intuizioni geniali da valere una carriera, forse anche troppe, per l’Italia degli anni Ottanta, penso a Carta del cielo e Dentro il giardino, fino alle ultime produzioni,  laterale rispetto al mainstream, inspiegabilmente, ma sempre intessute e pensate con uno sguardo al mondo tutto, potentissimi.

Ecco, già solo per avermi dato modo di parlare di Alberto Fortis, uno dei primi artisti parte del mio pantheon a aver conosciuto, quando all’epoca ho avuto modo di lavorare al programma Stasera Niente MTV, con Ambra, dove lo invitammo a duettare con L’Aura, poi addirittura presente sul palco del Teatro Civico di Vercelli dove ho festeggiato il mio quarantesimo libro, onore che a ripensarci mi emoziona, avermene dato modo con la scusa di A voi romani, dovrebbe farmi guardare con uno sguardo un po’ meno di questura a quel che a Roma, sì, sta succedendo in queste ore, e nulla è più distante da me dell’idea di una Questura. In realtà, figuriamoci se mi tiro indietro rispetto a un dissing, a differenza di Alberto Fortis, io vi odio davvero a voi romani, io vi odio tutti quanti.