FKA twigs con Caprisongs ci canta che le giornate si allungano, ma poi tanto arriva la notte

Caprisongs è la consacrazione del ballo come via di espiazione dei mali, anche se di mali fisici si sta parlando, quindi più che di espiazione di guarigione si tratta

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Le giornate si allungano. Ce lo siamo detti, con mia moglie, uno dei pomeriggi scorsi. Lavoriamo entrambi a casa, del resto, possiamo dircelo di pomeriggio semplicemente aprendo una porta. Non ce lo saremmo del resto detto al telefono, non è una notizia che avrebbe meritato una telefonata, credo, neanche nel periodo prepandemico, durante il quale passavo al telefono almeno cinque, sei ore al giorno. Le giornate si allungano, certo, e il girare intorno al sole da parte della Terra sta comportando anche un cambio che in qualche modo impatta su di me, sul mio lavoro. No, non sono uno di quei tipi strani che in base alla luminosità delle giornate ha significativi cambi d’umore, e se anche così è, a mia insaputa, credo di riuscire a gestire la cosa piuttosto bene, al punto da non accorgermene. Parlo di questioni pratiche, tecniche. Quando la mattina mi alzo, parliamo delle sei e quaranta, durante i giorni scolastici, dire lavorativi per chi fa il mio lavoro è surreale, di luce ce n’è pochina, siamo a Milano, a nord-ovest, qui il sole tramonta qualche minuto dopo che a Ancona, per dire, ma sorge, immagino, lievemente dopo, ci fosse ancora L’Almanacco del giorno dopo ve lo saprei comunicare con più precisione. La mattina, comunque, c’è buio. Per questo, quindi, nel momento in cui mi appresto a preparare le colazioni per i gemelli, dopo aver fatto io colazione e aver fatto la doccia, parliamo circa delle sette e venti, qualche minuto prima, ho modo di vedere l’alba, o qualcosa che all’alba assomiglia, dal mio balcone affacciato verso est. Quando è bel tempo, e ultimamente è bel tempo, non come quando siamo tornati dalle vacanze passate in Ancona, una bufera di neve a accompagnarci da Senigallia fin quasi a Parma, si vede questo rosa acceso, tendente al rosso, che colora la base del cielo, oltre i palazzi e le strade che dal balcone si vedono, i camini dei palazzi a irradiare il cielo col fumo grigio, qualche raro aereo all’orizzonte, Sirio sempre ben visibile, rosa che presto lascia lo spazio al celeste pallido, tendente al grigio, del cielo milanese. Dall’altra parte del mio appartamento, affacciato sui monti, in lontananza, quando è bel tempo vedo distintamente i profili delle varie montagne, in questi giorni del tutto prive di neve. Ma non è questo l’impatto significativo delle giornate che si allungano sulla mia vita e il mio lavoro. Questo avviene più tardi, in mattinata, quando dopo aver accompagnato i gemelli a scuola, al momento ci va solo Chiara, Francesco è per l’ennesima volta in DAD, costretto nella sua stanza in quarantena cautelativa causa due positivi in classe, seconda quarantena cautelativa nel giro di due mesi, considerando le vacanze di Natale di mezzo, seconda quarantena cautelativa a distanza di sette giorni scolastici dalla precedente, della serie che tornare a scuola in presenza era cosa buona e giusta, i tamponi, le corse in farmacia per farli, poi la notizia che qualcun altro, assente il giorno dei tamponi, era positivo, la quarantena e la DAD, con tutte le rotture del caso, comunque, quando dopo aver accompagnato i gemelli a scuola torno a casa, fatta qualche altra faccenda, magari un po’ di spesa, sistemato qualche documento, al momento di mettermi al computer a scrivere, questo è la parte fondante del mio mestiere, o un cd sullo stereo, o una serie o un film da vedere sul tablet, lì sul tavolo della sala, lo studio divenuto in pianta stabile ufficio di Marina, mia moglie, ancora in smart working full time, devo fare i conti col fatto che i raggi del sole arrivano con angolature differenti in sala, costringendomi quotidianamente, quasi, a prenderci le misure. Se infatti d’estate il sole arriva in sala dalla porta finestra del già citato balcone rivolto a est, d’inverno, adesso, ci arriva dalla seconda porta finestra del medesimo balcone, lievemente spostata verso sud, su quel balcone si affacciano anche altre due porte finestre, delle camere dei ragazzi, così, tanto per farvi entrare mentalmente in casa mia. Questo fatto, i raggi del sole che entrano in sala dalla porta finestra rivolta a sud-est, mi complica un pochino la vita, perché noi abbiamo il tavolo della sala esattamente davanti a quella porta finestra, giusto spostato mezzo metro verso la parete, fatto che mi costringe a lavorare costantemente con le tapparelle elettriche, così da non rimanere accecato come Icaro o da non riuscire più prosaicamente a scrivere, anche se sono talmente abile che in effetti potrei scrivere anche al buio. Lo faccio spesso, in realtà, di scrivere al buio, perché la sera, quando appunto il sole scompare, non sto qui a dirvi quando, vivete anche voi nel mondo, ve ne sarete fatti un’idea, faccio sempre fatica a accendere le luci. Non credo, ma non ci scommetterei, che questo sia un retaggio del mio essere stato cresciuto negli anni della crisi energetica, quando appunto si doveva in qualche modo contingentare l’utilizzo della luce in casa, o magari una più semplice eredità del mio essere figlio di una famiglia piccolo borghese, i soldi da trattare con cura e la luce costa, spegni quella luce quando esci dalla stanza ripetuto come un mantra da mia madre, fatto che comunque mi fa stare in perfetta linea con l’attualità, i venerdì per il futuro, Greta Thumberg, quella storia lì, a me dà proprio urto ai nervi che ci siano troppe luci accese, sono come un vampiro, forse, anche se ai vampiri dà fastidio la luce del sole, e io invece adoro la luce del sole, vivrei ai Caraibi, fosse possibile, lì a tirare cubetti di ghiaccio del mio daiquiri ai delfini, sono fotofobico, ma solo rispetto alla luce artificiale, in casa ormai solo quella al led. Così succede che io scriva al buio, senza vedere letteralmente una singola lettera della tastiera, alla cieca, lo so fare, lo sto facendo anche adesso, per dire, così, per fare il cazzone, come uno che impenni con la moto in una strada isolata, senza spettatori, anche se poi ve lo sto dicendo, quindi io sto sì impennando, ma mi sto filmando pensando a voi, scrivo al buio, senza neanche guardare troppo lo schermo, so cosa digito e so quindi di non stare facendo errori, in genere ne faccio pochi e, si sarà notato, non sono poi troppo propenso a rileggermi. A quel punto, in genere, irrompe in scena mia moglie, la quale invece odia stare al buio, fosse per lei terrebbe le luci accese anche mentre guardiamo la tv, poco importa che la rifrazione delle luci ci impedirebbe di vedere bene sullo schermo, lei vuole luce, sempre e ovunque, irrompe in scena e inizia a sbraitare, “è sempre tutto buio, che cavolo stai sempre al buio” e via a accendere le luci, io lì a bruciare come un vampiro ai primi raggi del sole, gli occhi feriti dal cambio di luce, tecnicamente si chiama effetto Black Hole, quello che, usciti da una galleria in autostrada, per dire, ci impedisce di tornare subito a vedere, coi rischi del caso, me lo spiegò una vita fa il nostro amico Ante, che ai tempi studiava a ingegneria, mentre sfrecciavamo a bordo della mia Ford Fiesta color verde zizza (la zizza è la cimice, dalle mie parti, non la tetta, che genericamente è rosa, con al limite un rosa tendente a un marroncino chiaro del capezzolo, a seconda dei casi) verso Martinsicuro, in quella che sarebbe stata l’ultima esibizione degli Epicentro, la mia band punk di cui vi ho fino allo sfinimento raccontato le gesta, sono giusto trent’anni che li abbiamo fondati, io, Roberto Bartola, Emanuele Gissi, Michele Prosperi, il nostro amico Giacomo Curzi e l’altro nostro amico Massi Di Prenda testimoni dei fatti, e Giacomo anche coautore con me della nostra unica hit, Pentiganò. La ricordo, questa faccenda dell’effetto Black Hole, perché ero stato, proprio a causa di Giacomo, la cui mamma, la professoressa Lodi, nota in tutta Ancona per la sua bravura nell’insegnare latino presso il Liceo Scientifico Savoia, scrivendo, ora, ho appena invertito la t con la f, lo dico così, per mettervi a conoscenza di un mio raro errore, errore subito aggiustato, è chiaro, dicevo che la mamma di Giacomo era una grande appassionata di fantascienza, e ci aveva portato, a fine anni Settanta, io e Giacomo siamo amici dai tempi dell’asilo, con Roberto l’amicizia è nata dal fatto che lui abitava sotto casa mia, gli altri conosciuti da più grandi, la mamma di Giacomo, dicevo, ci ha portato a vedere Guerre Stellari, proprio mentre nasceva in Inghilterra il punk che con gli Epicentro avremmo provato a tenere in vita anche negli anni Novanta, sponda marchigiana, e poi a Giacomo avevano regalato un gioco da tavola ispirato proprio a quella saga, all’epoca composta di soli tre film, i Buchi Neri, i Black Hole, appunto, sorta di trappola mortale per i giocatori, come la Prigione in Monopoli. Ante, va detto, era un ragazzo del nostro gruppo, uno dei gregari, quindi non figure centrali del medesimo gruppo, noto per una sua certa pesantezza, di quelli che se puoi eviti di far sedere a fianco a te mentre guidi in autostrada, il fatto che mentre stavamo sfrecciando per andare a fare una esibizione punkeggiante, che si sarebbe dimostrata fatale, lui stesse lì a parlarmi di effetti ottici studiati all’università credo vi sarà sufficiente a farvene un’idea. Quella sarebbe stata anche la nostra sola esibizione fuori regione, altri tempi quelli, senza social e senza internet, tutto a muoversi sul passaparola.

Che io vi abbia portato dal sole che la mattina arriva dritto dritto sul mio computer, d’inverno, computer che sta in sala, sul tavolo della sala, perché la pandemia ha portato il mio studio a diventare l’ufficio di mia moglie, al fatto che io, sempre per mia moglie, stavolta protagonista di incursioni stile guastatrice nella medesima sala, la sera, lì a accendere le luci mentre io scrivo al buio, il tutto passando per Ante, gregario del mio gruppo di amici anni 90, a spiegarmi dell’effetto Black Hole mentre andiamo a chiudere prematuramente la carriera degli Epicentro, band punk anconetana di cui sono stato chitarrista, nel 2022 ricorre il trentennale della sua nascita, ecco, tutto questo dimostra come in fondo io sia un affabulatore, essendo solo in sala, in questo momento, mi ritrovo a dirmelo senza contraddittorio, pacche sulle mie stesse spalle date dalle mie stesse mani, e anche che, a furia di stare solo in sala a scrivere, solo in sala non nel senso che scrivo solamente in sala, ma che sto in solitudine in sala, e la solitudine, quando vivi con altre cinque, spesso sei persone, mia moglie, i nostri quattro figli e spesso, quasi sempre, mia suocera, potrebbe anche essere un bene prezioso, non in questo caso, perché a tratti rimpiango quando oltre a scrivere mi capitava anche di incontrare qualche anima viva, per lavoro, seppur io guardi a un futuro in cui mia moglie non lavorerà tutto il tempo in casa con dispiacere, in fondo su trentaquattro anni che stiamo insieme questi ultimi due anni sono indubbiamente stati gli anni in cui siamo stati più tempo assieme, e noi stiamo bene assieme, questi due anni lo hanno, fosse stato necessario, ulteriormente dimostrato, comunque, che io vi abbia portato dal sole che la mattina arriva dritto dritto sul mio computer, d’inverno, computer che sta in sala, sul tavolo della sala, perché la pandemia ha portato il mio studio a diventare l’ufficio di mia moglie, al fatto che io, sempre per mia moglie, stavolta protagonista di incursioni stile guastatrice nella medesima sala, la sera, lì a accendere le luci mentre io scrivo al buio, il tutto passando per Ante, gregario del mio gruppo di amici anni 90, a spiegarmi dell’effetto Black Hole mentre andiamo a chiudere prematuramente la carriera degli Epicentro, band punk anconetana di cui sono stato chitarrista, nel 2022 ricorre il trentennale della sua nascita, ecco, tutto questo dimostra come in fondo io sia un grande affabulatore e soprattutto io non abbia un cazzo da fare, anche questa eredità immeritata della pandemia, le lunghe ore della giornata, lunghe anche quando le giornate non si erano allungate, ovviamente, da passare prevalentemente a scrivere, a leggere, a ascoltare e sentire, come prima, quindi, ma senza la socialità fisica che prima c’era, l’uscire di casa per andare a incontrare gente, il fare riunioni, anche inutili, quasi sempre inutili, in presenza, partecipare a eventi, pochi, certo, li ho sempre schivati, insomma, fare cose, incontrare gente, tutto ormai lontano ricordo.

Le giornate si allungano. Ce lo siamo detti, con mia moglie, uno dei pomeriggi scorsi. Lavoriamo entrambi a casa, del resto, possiamo dircelo di pomeriggio semplicemente aprendo una porta. Questo abbiamo fatto, sono andato verso lo studio, ho aperto la porta e ho detto “le giornate si allungano”, sorridendole. Lei ha ricambiato, dicendo “Vero”. So che messa giù così vi sarete fatti l’idea che la nostra coppia non sia esattamente simmetrica, almeno a livello di comunicazione verbale, io un logorroico impenitente, sono minuti e minuti che sto qui a parlarvi a partire dal fatto che le giornate si sono allungate, lei a chiudere in una sola parola, il dono della sintesi che evidentemente io non ho, ma nei fatti Marina parla molto più di me, o almeno quanto me, infatti io non sto parlando, qui, sto scrivendo, anzi, Marina è decisamente più propensa al dialogo di me, seppur il mio essere misantropo è più una posa che una reale caratteristica personale. Ne parlavamo giorni fa a tavola, durante le feste, coi nostri figli, Lucia, la grande, a sostenere che io sia decisamente meno socievole di mia moglie, lei più votata a incontrare gente, a circondarsi di gente, io più interessato, lei non ha usato questa parola, che avrebbe dato al tutto un tono ulteriormente critico, a farmi ascoltare, cioè a catturare l’attenzione altrui per trasformare gli altri in una specie di uditorio, di pubblico, innegabile che almeno di fronte a un pubblico io non sia timido, o introverso. Ecco, Lucia, che studia letteratura alla Statale, e quindi si sta appassionando di linguaggio, ha provato a giocare la carta proprio delle sfumature verbali, io estroverso ma poco socievole, questa la tesi, ma questo argomento, temo, è anche meno interessante di come io sia entrato a conoscenza della teoria del Black Hole, chissà che fine ha fatto Ante?, mi chiederei se non fosse stato così gregario e pesante, e forse anche se in effetti io non fossi un filo asociale, vallo a sapere, passo oltre.

Le giornate si allungano.

È quello che deve aver pensato anche FKA twigs, cantautrice e molto altro inglese che è appena tornata sulle scene con un lavoro nuovo di zecca, Caprisongs, un album che nei fatti viene presentato come un mixtape ma che è a tutti gli affetti un album. FKA twigs deve aver pensato che le giornate si allungano perché, nonostante il periodo cupo che si è trovata a vivere negli ultimi anni, prima una dolorosa separazione amorosa e poi una assai più dolorosa, almeno fisicamente, malattia, fibromi uterini che le sono stati rimossi chirurgicamente, ma che l’hanno martoriata per mesi, periodo cupo che era confluito con tutta l’arte di cui FKA twigs è capace, e è davvero capace come poche di sustanziare la vita in opere, la nostra, e nonostante il periodo non esattamente felicissimo che l’umanità tutta sta vivendo, è vero che FKA twigs è inglese e gli inglesi hanno affrontato la pandemia con tutta la spavalderia di cui sono capaci, e sono davvero capaci come pochi a affrontare le disavventure, gli inglesi, nonostante tutto questo Caprisongs appare come una vera e propria botta di vita, certo con le sfumature artpop cui FKA twigs ci ha abituati, le sue sovrastrutture intellettuali, la sua volontà ferrea di affrontare anche un formato ormai modaiolo e canonico come la canzone urban, RnB, e trasformarlo in qualcosa di diverso, di suo, ma comunque incontrovertibilmente una botta di vita. Più leggero del solito, quindi, più vitale e danzereccio, verrebbe quasi da dire più allegro. Negli ultimi mesi, se siete tra quanti la seguono su Instagram ben lo sapete, se non lo siete, male, correte a seguirla, FKA twigs ci ha deliziato con tanti suoi passi di danza, lap dance, performace assolutamente fisiche, quindi Caprisongs è la consacrazione del ballo come via di espiazione dei mali, anche se di mali fisici si sta parlando, quindi più che di espiazione di guarigione si tratta. Prodotto dalla stessa artista insieme a nomi che si tengono a debita distanza dal mainstream, penso a Arca o a El Guincho, così come gente che nel mainstream ci sguazza, penso a Mike Dean o Cirkut, il nuovo lavoro di FKA twigs è un continuo andare a prendere concettualmente il pop per farne opera d’arte a se stante, prova ne è il singolo Tears in the Club, in compagnia del blockbuster The Weeknd, assolutamente conturbante. Come succede quando si ha un brutto virus, so che davvero stiamo per non poterne più di questa parola, ma tant’è, Caprisongs è pensato e suonato e cantato per far uscire fuori tutte le tossine nel solo modo che conosciamo, sudando. Ovviamente il tutto suona molto meno convenzionale di quanto l’essere comunque una popstar internazionale potrebbe far immaginare, avantpop più che pop, mai come questo disco richiama alla mente la parola postmodernismo, viva Dio. Perché è sì vero che giornate si allungano, ve lo scrivo tenendo ancora le tapparelle abbassate per non farmi ferire lo sguardo dai raggi del sole, ma la notte è sempre lì pronta a riprendersi la scena avvolgendoci tutti nel buio, questo FKA twigs, lì a danzare sul palo della lap dance, lo sa benissimo.

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