Takeaway, l’ultima interpretazione di Libero De Rienzo in un film a tesi sul doping

Renzo Carbonero racconta la vicenda di una marciatrice e del suo compagno allenatore, disposti a tutto pur di vincere. Perché nello sport "esiste una sola morale: il podio"

Takeaway

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Takeaway si segnala prima di tutto perché è l’ultimo film che vede come protagonista Libero De Rienzo, l’attore napoletano tragicamente scomparso a soli 44 anni pochi mesi fa. Un interprete appartato e impegnato, che con il suo stile sornione, ironico e generoso e grazie ad alcuni ruoli iconici – tra tutti il logorroico Bart del generazionale Santa Maradona, l’emozionante Giancarlo Siani di Fortapàsc, il buffo ricercatore superprecario e giocatore incallito della trilogia Smetto Quando Voglio, senza dimenticare l’unica sua coraggiosa, sperimentale incursione nella regia, Sangue. La Morte Non Esiste – ha lasciato nel cinema italiano degli ultimi vent’anni una traccia molto più forte di quanto si potesse sulle prime immaginare, nel segno di una originalità e indipendenza di scelte non comuni.

In Takeaway interpreta Johnny, un ex allenatore di atletica radiato dalla federazione per essere ricorso a sostanze dopanti per i suoi assistiti. La sua nuova compagna Maria (Carlotta Antonelli) è una marciatrice di talento, e i due non hanno molti dubbi che per emergere la strada sia la stessa, per cui ricorrono a una vecchia conoscenza di Johnny, un chimico che ha sintetizzato una nuova sostanza che fa improvvisamente impennare le prestazioni della ragazza.

L’aspetto più interessante di Takeaway non è tanto nella struttura del racconto, abbastanza esile e schematica, sul mondo del doping, ma nell’ambientazione in un Nord Italia di montagna, con cui il regista Renzo Carbonero, dopo il precedente Resina, torna ad indagare luoghi e comunità normalmente poco visibili nel cinema italiano. È un mondo ai margini e marginalizzato, nel quale infatti i genitori di Maria (Paolo Calabresi e Anna Ferruzzo) gestiscono con poche illusioni un albergo paurosamente spettrale, senza ormai più clienti. E in questa sorta di orizzonte privo di prospettive, ecco che le ambizioni di un’atleta con qualche carta da giocarsi, si trasformano immediatamente nel progetto che, a qualunque costo, tutti sono disposti a seguire. Infatti sono i genitori, ben consapevoli di ciò che stanno facendo, a dare alla figlia la consistente somma necessaria per acquistare i medicinali proibiti.

Libero De Rienzo tratteggia un personaggio apparentemente sconfitto, dimesso ma in realtà mosso sotterraneamente da una voglia di riscatto che non guarda in faccia a nessuno, nemmeno la sua compagna sulla cui salute e condizione emotiva l’uso del doping ha conseguenze squassanti. Ma, come dice qualcuno a un certo punto, “Esiste solo una morale: il podio”. Ed è su questa unica nota insistita che la narrazione di Takeaway procede, cercando semmai una qualche ambiguità nei silenzi, nell’atmosfera sospesa e appartata della montagna, nel passo sbilenco e periclitante di quello sport singolarissimo che è la marcia, apparentemente tranquillo e confortevole, e invece così faticoso, capace di mettere a dura prova l’equilibrio psicofisico di un essere umano.

Takeaway però purtroppo non riesce ad andare oltre la sua struttura lineare da film a tesi sul doping, senza un adeguato scavo psicologico dei personaggi, con anche la sensazione di un finale brusco e monco, non esattamente coerente con la storia come s’è sviluppata sino a quel momento. Un’opera che della marcia sembra assorbire quella lentezza e introversione espressiva che diventano le cifre del racconto imbastito da Resinaro, fatalmente acerbo.

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