America Latina, il terzo film dei fratelli D’Innocenzo è un generoso ma netto passo falso

Una storia familiare a metà tra referto clinico di un’ossessione e film horror. Stile visivo prezioso, Elio Germano impressionante. Ma come apologo sulla miserabilità dell’essere umano il film non funziona mai

America Latina

INTERAZIONI: 60

Nella carriera dei giovani e talentuosi fratelli Damiano e Fabio D’Innocenzo, già il loro notevole secondo film Favolacce testimoniava il desiderio di spingersi oltre il realismo apparentemente integrale dell’esordio La Terra Dell’Abbastanza, nella direzione di una narrazione in cui il ritratto di borgata andasse a braccetto con una trasfigurazione del dettato di partenza, scavando dietro e oltre la semplice fotografia descrittiva di ambienti e persone.

Uno spostamento insomma da una rappresentazione esteriore e oggettiva a un’altra più intima e soggettiva, sempre radicata nella descrizione di luoghi e comunità umane di provincia connotate e riconoscibili, ma con l’ambizione di porre in luce una verità più profonda, oscura e sotterranea, ottenuta mettendo insieme uno sguardo indagatore con vocazione antropologica all’uso di un meccanismo narrativo fedele al cinema di genere.

La loro terza prova America Latina, passata in concorso tra molte perplessità all’ultima Mostra di Venezia compie un ulteriore passo in avanti, verso una messinscena iperrealista, survoltata, vistosamente allucinata e allucinatoria. Il criptico titolo da un lato richiama la provincia laziale che in qualche modo fa da teatro alla vicenda, dall’altro occhieggia all’America favolosa dei generi cinematografici, con l’incontro tra le due parole a evocare forse dittature sudamericane e una violenza atroce e inspiegabile che è al cuore e al fondo di un racconto che assomiglia a un thriller, anzi a un film dell’orrore.

Il protagonista di America Latina è Massimo (Elio Germano), dentista di provincia con vita agiata, bella casa, splendida famiglia composta da moglie e due figlie, con l’unico cruccio di un padre anaffettivo (Massimo Wertmuller) e un caro amico un po’ insistente che ha bisogno di soldi. Il suo equilibrio emotivo evidentemente fragile si rompe quando Massimo compie una scioccante scoperta nascosta nello scantinato di casa, tanto disordinato, sporco e incoerente quanto invece è ordinata e linda la sua vita di superfice nella villona borghese con piscina.

America Latina procede lungo il filo di una dialettica abbastanza prevedibile tra la luce e la chiarezza della buccia esteriore dell’esistenza del protagonista e il magma ribollente che si agita nel sotterraneo della sua vita interiore, in cui lo spazio fisico funziona come una metafora fin troppo scoperta di un disagio psichico. D’altronde è proprio questo elemento a essere richiamato in maniera persino didascalica dalla locandina del film, in cui nel primissimo piano della testa completamente rasata di Massimo si apre una impressionante crepa, un buco che conduce direttamente alla sua sconcertante intimità.

Il trailer di America Latina, con la locandina che “entra” letteralmente nel cervello malato del protagonista

I fratelli D’Innocenzo mettono da parte il naturalismo e gettano lo spettatore in un incubo estremo e spiazzante. Un’ipotesi di cinema intrigante e rischiosa, che purtroppo cozza contro la gracilità dell’assunto e soprattutto l’esilità dell’architettura narrativa. America Latina vorrebbe illuminare qualche più sconvolgente verità circa l’autentica natura dell’animo umano – ovviamente sconsolante –, e però per farlo invece di partire dal dettato concreto di una vicenda specifica di alcuni individui descritti nei loro gesti e psicologie, andando cioè dal caso particolare verso l’universale, compie esattamente il percorso inverso.

Muovendosi cioè dal partito preso di un mondo del quale si dà per assodato che sia prossimo al collasso e all’apocalisse, e in cui la storia del Massimo di turno serve solo a confermare strumentalmente il dato immodificabile di partenza, che è un pregiudizio, non qualcosa che gli snodi del racconto riescono a dimostrare. Un cinema quindi che può essere raccapricciante, terrificante, visto il tono della vicenda, ma mai spiazzante né sorprendente, perché la tesi sconfortante è esposta sin dal prologo, e ripetuta mortiferamente senza mai una variazione dall’inizio alla fine. Sempre le stesse note, stesse atmosfere, stile, espressioni degli attori.

Il film non si preoccupa di spiegare allo spettatore chi sia Massimo – la sceneggiatura gli assegna il lavoro di dentista solo perché è un mestiere che consente di indugiare su dettagli truculenti e altamente simbolici –, né tantomeno chi siano le eteree figurine virginali che compongono la sua famiglia, ridotte a poco più d’una proiezione delle ossessioni del protagonista. D’altro canto il lato in ombra e nascosto che Massimo scopre nel seminterrato è utile sì per dare forma concreta e visibile al suo tormento, ma sempre rimanendo nei confini di una vicenda senza evoluzione, puro referto clinico di una vita malata e bloccata.

Elio Germano è a suo modo bravissimo, ma monocorde, chiuso dentro il tormento di un ruolo sempre uguale, senza progressione o motivazioni che vadano oltre il complesso rapporto col padre, anch’esso però risolto in una sola sequenza piuttosto sbrigativa. I D’Innocenzo non mostrano curiosità per i piccoli dettagli quotidiani, quelli che contano veramente quando si vuole indagare la vita e la psicologia di un uomo, e descrivono una realtà uniformemente distorta e slabbrata.

Non sorprende perciò che sotto il profilo visivo America Latina sia di una preziosità sfiancante, che invece di puntare sull’esattezza delle notazioni e la puntualità dello sguardo, opta per uno stile sempre al massimo volume. Il film insegue cromatismi acidi soprattutto verdi e rossi e primissimi piani, a volte sbilenchi, spesso fuori fuoco – come l’identità del protagonista –, con l’illusione che basti porsi a una distanza millimetrica dai personaggi per penetrare nei loro più reconditi e inconfessabili malesseri.

Duole dirlo, ma America Latina è un’opera, per quanto generosa, esteticamente sbagliata, che nell’ispirazione ricorda il cinema di Lanthimos e di quel genere di artisti i quali, certi di aver capito tutto della natura umana, si sentono in diritto di spiegarla allo spettatore in dei bignami deprimenti e piuttosto prevedibili sulla miserabilità del mondo. Dove però Lanthimos predilige uno stile inflessibile, raggelato ed entomologico, i D’Innocenzo si gettano con febbrile, e un po’ ingenuo entusiasmo nel sottoscala dell’anima (e della carne) del loro uomo qualunque, componendo una radiografia ripetitiva e sopra le righe di un’ossessione patologica. I due fratelli, inoltre, commettono anche l’errore di non essere coerenti fino in fondo, scegliendo un finale didascalico e cronachistico in cui allo spettatore viene chiarita ogni cosa, togliendo così al film anche quella patina di ambiguità che ne costituiva la cifra saliente.