Io, la pandemia, gli hipster e Francesca Michielin che dirige l’orchestra a Sanremo

Lei, la aspirante polistrumentista ora dirige l’orchestra al Festival della Canzone Italiana di Sanremo, davanti a un manipolo di poveri diplomati al Conservatorio, gente che quegli studi li ha fatti e li ha finiti, professionisti

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Notoriamente non ne becco una. E immancabilmente arriva sempre qualcuno a farmelo notare, con puntiglio, pignoleria e anche quella immancabile dose di vena polemica che caratterizza così tanto questi tempi anomali.

Notoriamente non ne becco una perché non ho la capacità di capire cosa piace alla gente comune, quella che determina, in parte, il successo o meno di una canzone, un artista, quel che è. Non so capire dove gira il fumo, spesso non lo capisco neanche quando ormai il fumo si è tramutato in nebbia, avvolgendo tutto, e a dirla tutta vivo bene così. Non scommetto, non gioco in borsa, non faccio profezie, non è necessario che io sappia capire in anticipo quel che sta per succedere. Del resto non è il successo che mi interessa, almeno non quando parlo di critica musicale, non è del pubblico che mi occupo, ma delle opere artistiche, opere artistiche che per loro natura spesso non trovano riscontro nel pubblico, non hanno successo, non diventano popolari. Non che l’una cosa escluda in automatico l’altra, sia chiaro, è che si parla proprio di faccende che non si muovono sullo stesso territorio. Di successo mi occupo quando scrivo biografie di star, questo sì, e in quel caso, raramente, qualcosa l’ho azzeccato, penso al mio libro su Lady Gaga, nel 2010, il primo al mondo dedicato alla cantautrice americana di origini italiane, me anche in quel caso ero mosso più da come la sua musica mi appariva decisamente degna di attenzione.

Quando però scrivo di musica, pratico la critica musicale, in sostanza, e nello scriverne, nello scrivere di canzoni e anche di chi le canzoni le interpreta, le scrive, le produce, ecco, quando scrivo di musica e mi lascio andare, sono fatto di carne anche io, a qualche previsione, messa lì, nero su bianco, col mio solito piglio radicale, quasi apocalittico, in genere canno di brutto. Non ne azzecco una. Applico il mio metro di giudizio, quello del critico musicale, al mercato, e ovviamente sbaglio, perché il mercato non si basa sugli stessi valori della critica, è spesso in antitesi con essa, e prendo granchi come neanche un pescatore russo affacciato sul fiordo di Vadsoe. Ho previsto, nel tempo, una imminente scomparsa di Marco Mengoni, il fallimento dei Maneskin a Eurovision, il fragoroso flop dell’ultima Emma Marrone. Ah, no, scusate, quest’ultima l’ho azzeccata, ma era voler vincere facile. Non so prevedere il futuro ma a volte mi ostino a farlo, e siccome non ci becco quasi mai, ecco che arrivano le armate della notte a farmelo notare, come se nella vita il mio ruolo fosse quello di leggere le carte. Del resto spesso la medesima tipologia di persone usa i numeri per provare a scardinare le mie analisi, come se fosse di quello che mi occupo, ci sta che chi solo ai numeri riesce a guardare si trovi impossibilitato a capire chi ai numeri non guarda proprio.

Torno quindi a dire, notoriamente non ne becco una, ma quando ormai quasi due anni fa ho azzardato che almeno un vantaggio la pandemia da Covid19, forse all’epoca la chiamavamo ancora Coronavirus, cioè la sparizione dalla circolazione degli hipster, pur essendo quella una brutta battuta atta a stemperare la tensione, un giocarsi la carta del politicamente scorretto, del cattivo di turno per nascondere, anche, una qualche ansia, un qualche timore, beh, ci ho preso con la precisione di un Guglielmo Tell lì a tendere la corda della propria balestra, la mela appoggiata sulla testa del figlio.

Proviamo a tornare indietro nel tempo. Un esercizio che ci troviamo spesso a fare, anche involontariamente, pensiamo a quando veniamo assaliti dai ricordi, magari stimolati da certe odori, certi sapori, vedi alla voce Proust, certe canzoni che non sentivamo da secoli, o pensiamo a quando ci si ritrova con gente che abbiamo frequentato in determinati periodi del nostro passato, le scuole, certe vacanze, inutile io stia qui a stilare un elenco, proviamo a tornare indietro nel tempo non lasciando, però, spazio a quelle distorsioni che in genere in queste occasioni si generano automaticamente, tipo che chiunque proviamo a ricordare, avendocelo di fronte, ce lo ricordiamo per come è adesso, o comunque proiettando l’oggi sullo ieri, torniamo davvero con la memoria a prima che la pandemia scoppiasse, provando a fare piazza pulita da quel che è successo dopo. Ricorderete tutti, più o meno lucidamente, che il mondo, il mondo in cui ci trovavamo a vivere nella più totale inconsapevolezza di quello che ci stava aspettando, lì, dietro l’angolo, povera ingenuità, era un posto singolarmente naif, pieno di gente buffa, vestita coi pantaloni a mezza caviglia, con maglioncini a rombi arrivati dritti dritti dagli anni Settanta, e con delle lunghe e ben curate barbe, pesso a corredo di occhiali dalle montature nere e spesse.

Gli hipster, appunto.

Erano spuntati qualche anno prima, non saprei dire esattamente da dove, ricordo solo che a un certo punto erano ovunque, a parlare di certi film d’essai, di certa musica discutibile, un nome su tutti, Mumford & Sons, ma pensare a quel mix di pop e folk mi fa ancora sanguinare le orecchie, a bere tisane allo zenzero sgranocchiando pasticcini vegani.

Quella che era la loro cultura di riferimento, Dio mi perdoni per aver usato la parola cultura a sproposito, guardata con rispetto invece che col legittimo scherno, in qualche modo adottata come giustificazione intellettuale del dilagare dell’indie, ognuno ha le classifiche che si merita, inspiegabilmente la sciatteria di quello che di lì a breve avrebbe abdicato per dar vita alla Repubblica dell’ItPop. Una piccola rivoluzione pacifica, verrebbe da dire, non fosse che il pacifismo è una cosa seria, e che l’essere semplicemente smidollati non ha nulla a che fare col pacifismo medesimo, in questo caso si tratta di pensare che la vita sia in effetti un lungo susseguirsi di apericene e presentazioni di romanzi di autrici giapponesi, senza scossoni, senza contraddizioni, anche, ma soprattutto senza lotta. Ritrovarmi qui a citare Mussolini con la sua “quando il gioco si fa duro” sarebbe quantomeno improvvido, meglio semmai optare per un Norman Mailer minore, quello de I duri non ballano, del resto Pubblicità per me stesso è uno dei classici che ho più a lungo studiato, quando anni fa ho deciso di dedicarmi alla scrittura, e l’immagine di un hipster che si muove a caso sulle note dei Mogwai o dei The National mi perseguiterà fin nella tomba, temo, certe musiche non si ballano, caspita, sia come sia che di fronte a un cataclisma gli hipster fossero destinati a scomparire per primi mi sembrava più che evidente, l’estinzione della loro specie prossima e autoindotta, al punto che l’ho scritto nero su bianco, fregandomene ancora una volta di ipotetici attacchi da parte degli hispter medesimi, chi avrebbe mai paura di un manipolo di nerd con la barba lunga?, e dei mobilissimi odiatori a caso.

Solo che poi ci sono rimasto male. Non perché io ambissi ancora una volta a non azzeccare la mia previsione, ci sono abituato ma le eccezioni servono proprio a confermare le regole, né perché in fondo io abbia mai nutrito una qualche simpatia per questa genia di persone, li avrei serenamente presi a calci nel culo uno per uno, loro e le loro Clark, i loro capelli pettinati con la riga da una parte, i loro cavolo di risvoltini, il fatto è che come per l’apocalisse predetta e avveratasi del mondo della musica, speravo che anche la sparizione dall’orizzonte ottico degli hipster avvenisse per motivi inerenti al loro meritarsi di scomparire, non per questa maledetta pandemia. Ambivo, cioè, a un mondo giusto, nel quale a azione corrisponde reazione, il caos pronto a intervenire solo laddove necessario, invece eccomi qui a contemplare le macerie ancora fumanti, sotto le quali sono però rimasti sepolti anche i buoni, gli innocenti, lì a fianco dei cattivi, e degli hipster, appunto, le lunghe barbe impiastricciate di polvere.

È in questi momenti, lo confesso, che la mia radicalità vacilla, tutti i miei principi lì lì per scivolare nel baratro, il mio incaparbirmi a combattere le mie battaglie sul punto di evaporare sotto i raggi implacabili di un sole che, come nei Teletubbies, ha la faccia di un bambino biondino che mi dice, serafico, “sei proprio un coglione a credere nella determinismo del destino”. La reazione, spontanea, è il credere che forse tutte le mie convinzioni siano frutto di una sorta di autoconvincimento, come un matto che crede di conoscere la verità ma è solo un matto, al punto che la tentazione di ricredermi, o almeno di provarci, è forte, fortissima, in fondo, diciamolo, la pandemia ci ha tutti quanti messi alla prova, non dico rammolliti, non sono un hipster, nonostante la barba lunga, ma quantomeno indotti a praticare il dubbio, a rivedere le nostre scale di valori, riconsiderare certe scelte fatte in passato che credevamo ferree. Quindi mi decido, mi guardo a uno specchio metaforico dicendomi “da oggi sarò buono, propositivo, ottimista”, e decido di fare questo grande passo subito, senza tergiversare, perché quando si prendono certe decisioni è bene non mettere neanche un minuto tra noi stessi e il primo passo, fanculo i tentennamenti.

“Da oggi,” mi dico, “parlerò bene di chiunque. Anzi, vado oltre, controllo Twitter e quello che sia il trend topic, in campo musicale, del momento ne scriverò serenamente, in maniera accondiscendente, forse sfiorerò anche l’esaltazione.”

Così faccio. Apro Twitter e vedo che in cima ai trend topic c’è il nome di Francesca Michielin. Strano, penso, oggi ci sono gli ascolti dei brani di Sanremo, in Rai, ascolto che ho disertato come anche l’anno scorso, non vedrei i miei colleghi con piacere in tempo di pace, figuriamoci oggi che siamo sotto pandemia, tutti in uno spazio chiuso, le mascherine, le facce sotto quelle mascherine. Poi scorro i Tweet in tendenza e scopro che Francesca Michielin è lì, in trend topic, proprio perché è coinvolta nel Festival, sarà lei a dirigere l’orchestra per il brano di Emma, leggo. Francesca Michielin Direttrice d’orchestra. Lei, la polistrumentista che nei fatti suona a stento il piano, ma come ci tengono a far sapere in maniera risentita i suoi fan e il suo staff, sta studiando al conservatorio, come se iscriversi a Medicina equivalesse a potersi dire cardiochirurgo. Lei, la aspirante polistrumentista ora dirige l’orchestra al Festival della Canzone Italiana di Sanremo, davanti a un manipolo di poveri diplomati al Conservatorio, gente che quegli studi li ha fatti e li ha finiti, professionisti. Il direttore d’orchestra, per la cronaca, oltre che dirigere quei professionisti, ricorderete il casino quando l’orchestra contestò le partiture scritte da Morgan ai tempi del duetto con Bugo sul brano di Endrigo, deve anche redigere le partiture, appunto, deve saperlo fare.

Leggo quindi il nome Francesca Michielin e la notizia che le faranno dirigere l’orchestra a Sanremo, lì con la bacchetta in mano di fronte a Emma e ai musicisti e capisco che no, in fondo la pandemia non mi ha così tanto cambiato, non ce la posso fare a far finta di niente, e che no, non erano gli hipster a dover scomparire dall’orizzonte ottico, piuttosto i cialtroni che muovono la macchina musicale.