The Tender Bar, George Clooney dirige un film d’impalpabile, dolcissima malinconia

Su Prime Video la nuova regia di Clooney. Che parte dal memoir di J.R. Moehringer e racconta un’America anni Settanta appartata e provinciale. Una storia che si regge su atmosfere e personaggi. Ben Affleck al meglio

The Tender Bar

INTERAZIONI: 8

È da un po’ che George Clooney pare essere uscito fuori dal flusso del cinema mainstream. Superata ormai la boa dei sessant’anni, le sue apparizioni cinematografiche si sono fatte sempre più rare – l’ultimo film non suo in cui ha recitato è addirittura del 2016, Money Monster – e le sue ultime regie sembrano assai poco preoccupate di inseguire i trend del momento, dal gioco alla fratelli Coen di Suburbicon, che recuperava una loro vecchia sceneggiatura, a The Midnight Sky, opera certa poco ispirata, e però lontana dalle mode, con la sua distopia in cadenze di melodramma cupo e pessimista.

Restituisce un forte sapore di voluta inattualità anche il suo nuovo film, uscito direttamente su Prime Video, The Tender Bar, nel quale è solo regista, che partendo dal memoir autobiografico Il Bar delle Grandi Speranze di J.R. Moehringer (Premio Pulitzer, noto soprattutto per aver collaborato con André Agassi per la stesura del bestseller Open) ricostruisce gli anni di formazione dell’autore, volgendo lo sguardo a degli anni Settanta avvolti dentro una soffusa malinconia.

È una vicenda quasi priva di sussulti quella di The Tender Bar. Il coming-of-age del protagonista, nel passaggio dall’infanzia del JR bambino (l’esordiente, efficace Daniel Ranieri) alla prima maturità degli anni dell’università e dei primi lavori (col volto del Tye Sheridan di Ready Player One) è sviluppato attraverso un tono ovattato, rallentato, con una fotografia pastosa e un montaggio che evita qualunque esasperazione. Non che non ci siano elementi drammatici, a partire dal padre di JR completamente assente, un disc-jockey ubriacone e manesco (Max Martini) che il bambino insegue avidamente ascoltandolo alla radio (ironia della sorte il suo nome d’arte è “The Voice” e questo resta per JR, praticamente per tutta la vita).

È soprattutto nella descrizione del microcosmo della contea di Manhasset, Long Island, della famiglia di provenienza e del bar del titolo, il Dickens, gestito dallo zio Charlie (un ruolo perfetto per Ben Affleck) che The Tender Bar trova la sua vera cifra. Raccontando non tanto una vicenda incardinata su svolte e colpi di scena, bensì sulla definizione dei personaggi e la costruzione di un’atmosfera che per lo spettatore è emotivamente nutriente. A partire dalla madre di JR, Dorothy (Lily Rabe), con le sue delusioni per un rapporto nato male, i sogni di riscatto per un figlio che vuole laureato a Yale, la mancanza di un lavoro stabile che la costringe a tornare nella turbolenta e sovrappopolata casa di famiglia, che è “un susseguirsi di cugine e zie con un contorno di risate e lacrime”.

Poi c’è il vecchio capofamiglia tratteggiato con impagabile umorismo sottotraccia da Christopher Lloyd: burbero, a tratti buffonescamente maleducato, ma anche un uomo colto che sa pensare con la propria testa – l’episodio in cui, mancando il padre di JR, è lui ad accompagnarlo alla riunione genitori e figli della scuola, è esemplare del tono del film, dello sguardo di divertita e complice delicatezza che Clooney rivolge su persone semplici di cui intende mostrare sempre il risvolto umano.

E poi, vero centro emotivo di The Tender Bar, c’è zio Charlie. Con il suo bar di avventori eccentrici ma empatici, la sua passione per la letteratura – che trasferisce a JR, il quale sin da bambino sogna di fare lo scrittore, come puntualmente accadrà –, le esilaranti lezioni di vita in “scienze maschili” impartite a un ragazzino che non ha occhi che per lui – in sostanza darsi da fare, possedere un lavoro e un’automobile. Non accade molto altro a ben vedere nel film – le peripezie più complicate di JR sono quelle affettive, per un amore contrastato con una ragazza (Briana Middleton) di ceto molto superiore al suo che lo fa soffire per tutti gli anni dell’università. Ma anche le pene d’amore avvengono nel segno di una modalità di narrazione senza strepiti e scene madri, preferendo mettere in luce gli aspetti paradossali della vita, un’avventura che, questo pare essere il tono del racconto, va accettata per quello che è.

C’è qualcosa di singolare in questo film dall’aria sommessa, al quale non si può non voler bene, nonostante la sua esibita esilità – che è piaciuta pochissimo ai recensori di lingua inglese. The Tender Bar pare ostinatamente attento ad evitare di dare lezioni su alcunché. E invece, con la sua aria nostalgica e apparentemente svagata, priva di ottimismi di maniera, alla fine riesce a dirci qualcosa di essenziale sul senso dell’esistenza. Anche se tutto quello che racconta è una piccola comunità di tipi bizzarri ma non troppo raccolti dentro un chiassoso appartamento e un bar di Long Island nel quale vorremmo tutti andarci a bere un bicchiere.

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