Il 10 gennaio di sei anni fa David Bowie non era più

Lo sbigottimento era duplice perché da poche ore ascoltavamo l'ultimo capolavoro, davvero superbo, Blackstar


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Sei anni fa come oggi, 10 gennaio, il mondo si destava sbattendo contro un trauma: il Maggiore Tom era partito per non tornare più portandosi via i suoi vestiti, le sue mutazioni, la sua fame di sapere, su tutto, a qualsiasi latitudine. David Bowie non era più. Ma non bastava, lo sbigottimento era duplice perché da poche ore ascoltavamo l’ultimo capolavoro, davvero superbo, quel Blackstar che introduceva ancora un modo diverso di far musica, un jazz imprendibile dalle inflessioni elettroniche però suonato sul serio, da musicisti veri. Forse voleva dirci che, nell’incombente trionfo delle macchine, l’uomo sarebbe rimasto decisivo almeno se c’era da scuotere un cuore. Dopo di lui, Iggy Pop avrebbe fatto qualcosa di simile, e altrettanto notevole, con “Free”; poi altri ancora, Bowie si era congedato a modo suo, era sparito lasciando una scia indelebile.
E il suo addio si rivelava in totale aderenza alla vita. Scioccante e provocatorio, arte nell’arte. Nessuno sapeva, nessuno poteva sospettare che lo splendido The Next Day, annunciato nel giorno del suo sessantaseiesimo compleanno, tre anni prima, fosse già minato da un malessere impalpabile destinato a scoppiare in un cancro al fegato. Il ritorno, a dieci anni di latitanza controllata dopo l’attacco coronarico in concerto nel 2003 e tante piccole epifanie, mai definitive. Tracce di sé, continuando comunque a produrre e a consumare e ad ispirare arte. Poi, nel giro di 48 ore, la definitiva apparizione per subito sbiadire, sorta di resurrezione alla rovescia: quel video, lui come Lazarus, fasciato di bende, prossimo alla fine e nessuno capisce che allude proprio alla sua morte, sta recitando la sua morte; tutto sarà chiaro poche ore dopo, realizzando oltretutto che Lazarus arriva come anticipo di un musical destinato a consacrare l’assenza; scoprendo in aggiunta che tutto il disco, Blackstar, tratta della fine imminente, le liriche sono la cronaca traslucida della malattia che prende il sopravvento: un testamento spirituale all’insaputa di tutti: chi sa, chi vive con David il dramma delle cure, delle cliniche, delle strade alternative, del peggioramento, si conta sulle dita di una mano, neanche quanti suonano con lui sospettano, neanche quelli che lo vedono alla prima di Lazarus, in teatro, nemmeno un mese prima. Lui manda mail in cui saluta gli amici più cari ma senza lasciar trapelare niente: ancora una volta, capiranno a cose fatte.
E il 10 gennaio, dopo aver fatto davvero tutto quel che doveva fare, Bowie si arrende, a modo suo. Con una eutanasia in una clinica di New York, secondo sospetti mai provati ma neppure smentiti. Il 10 gennaio del 2016 David Bowie viene a mancare per moltiplicarsi in un gioco di assenze. Nessuno come lui dopo la morte ha continuato a vivere: retrospettive, dischi inediti, o ritrovati, o persi, raccolte, biografie. Di poche ore fa la notizia della cessione dagli eredi alla Warner Chappel dell’intero corpus dell’artista per 250 milioni di dollari: ancora una volta, in coerenza con quello che per primo quotò in Borsa se stesso, ottimo a fare soldi come a produrre musica ma mai schiavo delle logiche di sistema: s’impone l’autonomia del pensiero, di scelta, la produzione bulimica, quel perenne agitato reinventarsi, la sfida alle mode proponendo versioni personali già proiettate oltre, restano gli album clamorosi alternati a quelli controversi, involuti, gli scarti, i periodi, i ritorni, non c’è ambito che David Bowie non abbia coperto. Sempre con l’occhio lungo e nel suo caso non è il luogo comune dell’artista che non si ripete, che guarda avanti: fu il primo anche a capire come avrebbe funzionato la Rete e quali guasti avrebbe recato all’umanità. Il suo modo di creare veniva di conseguenza. Non era come gli altri, ma le stranezze, gli eccessi e anche qualche svarione non c’entrano, qui si parla di uno che, al di là dello specifico musicale, nutriva una curiosità onnivora, un bisogno di cultura perfino umile, un istinto di confrontarsi col mondo mai venuto meno. E ha preparato la sua leggenda dal primo giorno all’ultimo, davvero.
David Bowie stava dissolvendosi: ha deciso di celebrare nella fine il suo ultimo compleanno, il sessantanovesimo. La stella nera era lui, che adesso brilla da un nonluogo. La luce dell’assenza, il bagliore dell’astro dissolto ma che non smette di irradiare l’idea di sé. Cascato sulla terra, mostra vivente, alieno, furbo, alfiere impenitente di una cultura pop che tanto pop non è più e per merito suo, di quelli come lui, capaci di confondere le sponde tra “alta” e “bassa”. E che sia cultura, quella prodotta da David Bowie, in senso globale, non lo nega più nessuno anzi se ne rimarca la complessità sottotraccia, l’intrico di allusioni tra i suoni e le parole e i costumi e i significati, un frullatore di suggestioni difficili, insospettabili ma lui le frequentava tutte e poi le faceva esplodere in mille direzioni, mille curiosità e contaminazioni. E questo è più vero di tutti per Lazarus che se n’era andato, era morto nel 2003 anni fa, poi è risorto, ma è rimorto troppo presto, ma solo per non morire mai. All’aurora della vecchiaia. Ecco perché era appesantito nell’ultimo video. Stava cantando la sua dissoluzione. Nessuno tra i mortali lo sapeva, il mondo non lo sapeva, e mai segreto ha tenuto tanto, l’uomo che aveva fatto di se stesso una mostra permanente ha vissuto i suoi ultimi anni avvolto da una cortina impenetrabile di latitanza, ha mantenuto fino all’ultimo la sua condizione, infine si è precipitato morendo sul cuscino della sua arte. Di fatto, se n’è andato in scena, però non come Moliére. Lui ha creato la sua scena, ha portato il teatro in ospedale.
Chissà se tutto questo è delirio di onnipotenza, gioco crudele del bambino di 69 anni o soltanto la disperazione di un artista. Ma quanto dolore nel congedarsi così, recitando la morte che viene, consegnandola all’eternità per poter dire infine: ecco, anche l’ultima prodezza è perfetta, non ne vedrò il clamore ma so di aver fatto bene, di aver chiuso bene, adesso posso proprio riposare.