Il colore del sangue e del perché vorrei passeggiare in spiaggia con Fossati

Vi spiego perchè ho pensato a Ivano Fossati e al suo ritiro quando ho visto le macchie di sangue sul marciapiede sotto casa mia


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Nel marciapiede sotto casa mia ci sono due grandi macchie di sangue. Sono scure, una volta asciugato il sangue è diventato nero fondo sul nero stinto del marciapiede, ma io so che è sangue. Nonostante abiti al settimo piano, se mi affaccio le distinguo, anche se giorno dopo giorno le macchie tendono a confondersi con le altre macchie di sporco che, inevitabilmente, si aggiungono. La mattina, quando accompagno i gemelli a scuola, vedo sempre le scie lasciate da qualche balordo che nella notte ha pisciato contro le pareti dei palazzi. Sono più scure del sangue, le pisciate dei balordi, di un nero fondo che sembra indelebile, ma che invece passa più velocemente del sangue.

Il sangue, quello che sta sul marciapiede sotto casa mia, era rosso acceso. Fossi uno che ha studiato medicina saprei dire se venoso o arterioso, a memoria, una memoria che cerca invano di recuperare informazioni prese dall’aver visto tutte le puntate di E.R.- Medici in prima linea e Grey’s Anatomy, oltre che Doctor House, The Good Doctor, The Resident e la prima stagione, bellissima, di New Amsterdam, vorrei proprio capire che aspetta Netflix a tirare fuori le altre due, ma del resto ancora sto aspettando da oltre un anno la settima e ottava stagione di When Calls the Heart, maledetti, a memoria, comunque, direi che è sangue arterioso, ben sapendo che è più pericoloso perdere sangue arterioso che sangue venoso.

Il fatto è che giorni fa c’è stato un brutto incidente. Non è del tutto vero, o almeno, è piuttosto impreciso, quello che ho scritto. Avrei dovuto dire, qualche notte fa, perché il brutto incidente è avvenuto dopo la mezzanotte di sabato sera. Io e mia moglie eravamo andati a dormire, stanchi, dopo una cena con amici, e, almeno nel mio caso, già stanco pensando alla gita fuoriporta che avremmo fatto l’indomani, stanchezza che si sarebbe cumulata a stanchezza dovuta, finalmente, a un barlume di ripartenza, in settimana avevo fatto riunioni in presenza, le prime da quasi due anni, incontrato artisti che non vedevo da una vita, da Il Volo al mio amico Red Canzian, poi ne parlerò, ricominciato a organizzare progetti, insomma, ero spossato e sapevo che non mi sarei riposato abbastanza nella notte. Il tempo di chiudere la luce e provare a prendere sonno, soffro di insonnia e quando sono stanco fatico ancora di più a prendere sonno, la testa che gira a mille nei miei pensieri vorticosi e visionari, quando sento mia figlia grande, Lucia, che urla. Non urla, a dire il vero, si lamenta, con la voce rotta dal pianto. Faccio per alzarmi, di scatto, quando sento bussare alla nostra porta, il tempo che l’ultimo nocchìo, non so se si dica così, è irrilevante, si abbatte sul legno della porta che sono lì che apro. È mio figlio Tommaso, che dice, “C’è stato un incidente di sotto”. Mi affretto verso la sala, dove c’è una delle porte finestra che danno sul balcone aperte, con mia figlia che, sconvolta, si porta le mani alla faccia, dicendo, la voce sempre più flebile, “Lo hanno ammazzato”.

La faccio breve, saprei come tirarla per le lunghe, ma non è un articolo di cronaca, questo, sotto casa mia, dove ora si trovano le macchie stinte di sangue, c’era un ragazzo steso in terra, la testa sul marciapiede, il corpo scomposto sull’asfalto, poco più in là una macchina, distrutta, sotto cui si vedeva il resto di una moto. Una calca di gente che si muoveva agitata intorno. Nel mentre anche mia moglie e mia suocera si sono affacciati, mia figlia e mio figlio scomposti, nei loro modi, l’una le mani alla faccia, a singhiozzare, l’altro atterrito, bianco come un lenzuolo, silenzioso. Corro in camera, mi vesto e scendo, per capire se posso fare qualcosa, dare una mano. Non ci sono ambulanze, non c’è polizia, il traffico fermo, per quella strana forma di curiosità morbosa che ben ci ha regalato Ballard, quella che del resto causa gli ingorghi in autostrada. Una volta sceso, con quel senso di apprensione e angoscia che ben si può applicare alla consapevolezza di saper di andare incontro alla vista di un ragazzo, da sopra avrei detto si trattasse di un ragazzo, la moto e la tarda ora forse mi hanno aiutato in questo, morto in strada. In realtà la scena è stata diversa da quella che mi sarei aspettato. Nel mentre era arrivato un ragazzo che sapeva cosa fare. Quando mi ero affacciato, da sopra, avevo sentito delle voci provenire dal palazzo di fronte a quello dove abitato, che gridavano di non spostarlo, di non toccarlo. Immagino che anche loro, come me e mia moglie, abbiano visto tutte quelle serie TV ambientate in ospedale. Invece una volta sceso c’era un tipo, non saprei dirne l’età, che stava parlando col ragazzo, aiutandolo a mettere meglio le gambe. Il fatto che il ferito parlasse e muovesse le gambe, a occhio, mi è parso un ottimo segno, tanto più che pensavo fosse morto. Le macchie di sangue, rosso acceso, mi hanno colpito molto, ma sono subito stato distratto dai ragazzi che evidentemente erano alla guida di una delle due auto, quella che vedevo in strada, sopra la moto. Uno era agitato, ma non dell’agitazione di chi sa di aver quasi ammazzato qualcuno, più dell’agitazione di chi sa di aver commesso qualcosa di illegale. Un altro, infatti, parlottando, cercava di calmarlo, sottovoce. Più agitata di tutti era una ragazza, mi sembra anche lei proveniente dal palazzo di fronte al mio, a Milano i rapporti di vicinato sono sempre molto vaghi, specie se abiti in una zona universitaria che consente un grande turn over tra i condomini. Correva avanti e dietro, cercando di calmare tutti, e nel farlo era talmente agitata da creare una chiara agitazione ulteriore. Io mi sono aggirato tra i presenti come se fossimo dentro un film, io il killer che torna sulla scena del crimine, il volto semicoperto, muovendomi al ralenti. Ho cercato di assimilare più informazioni possibili, non saprei dire neanche perché. Ho visto la seconda auto, e poi mia figlia, tornato su, mi ha spiegato che al semaforo c’è stato uno scontro tra due auto, una passata col rosso, e una delle due è poi andata a carambolare, lei non ha usato ovviamente questa parola desueta, che sono andato a pescare dentro una memoria fatta di 90° Minuto, contro la moto, facendo schizzare il ragazzo di qualche metro all’indietro.

Dopo qualche minuto, capito che nulla che io potessi fare c’era, nel mentre si era formato un capannello di persone e qualcuno ha detto “sta arrivando un’ambulanza”, sono tornato su, per tranquillizzare i miei figli, convinti che il ragazzo, in effetti di ragazzo si trattava, il viso vagamente devastato dall’aver colpito il marciapiede, la pelle abrasa, a occhio, fosse morto. Riaffacciatomi al balcone, dove in effetti si trovava il resto della mia famiglia, gemelli esclusi, loro erano a letto a dormire, abbiamo visto arrivare l’ambulanza, la ragazza sempre agitata che  ha cominciato scompostamente a far fare manovre astruse alle auto in coda per farla avvicinare. La mattina seguente, perché a un certo punto ho detto a tutti di andare a dormire, patriarcalmente incarnando il ruolo di capofamiglia, ho visto in terra i segni della polizia, quei numeri e angoli fatti col gesso sull’asfalto di cui non ho mai capito il significato, il numero più alto era il 44, per la cronaca. Cancellato male, infatti è ancora visibile a distanza di giorni, il sangue, come se qualcuno avesse provato a tirarci sopra dell’acqua, allo scopo di lavarlo, ignaro che l’acqua, metaforicamente o meno, non lava via il sangue, ci hanno scritto su libri, poesie, canzoni.

Tornato a letto non ho preso sonno. Mia figlia, salutandomi, ha detto che ha pensato a Carlo, un suo amico morto questa estate proprio in un incidente simile, il casco schizzato via, la testa che sbatte sul marciapiede. Non conoscevo Carlo, ma sono un padre di famiglia, e ho, immagino non certo entrato in mia dotazione nel diventare padre, ma acuito dall’avere dei figli che vivono di vita propria, una sorta di angoscia nel non poter avere il controllo di sapere sempre dove sono, cosa fanno, nel poterli proteggere dai pericoli che, è evidente, la moto è stata colpita da una macchina che ha preso una strana traiettoria dopo averne colpita un’altra, quella che tecnicamente potremmo chiamare “grande sfiga”, non dipendono solo dal loro modo di comportarsi. Un discorso complesso, che spero nulla abbia a che fare con una visione egoriferita del mondo, più quell’angoscia che a volte si prova di fronte all’ineluttabilità del destino, roba cui non bisognerebbe pensare di notte, dopo una cena tra amici.

Quello che invece, la mattina seguente, guardando dal settimo piano quelle macchie di sangue, ho pensato, è stato il nome Ivano Fossati. Ivano Fossati che, giunto al sessantesimo compleanno decide di ritirarsi, almeno da quella parte della sua attività che prevede il fare dischi, fare tour, scrivere con costanza per altri. Una scelta inconsueta, la sua, quasi ingiustificabile. Sei uno dei massimi cantautori italiani, perché mai dovresti lasciarci soli? Una scelta dovuta proprio a qualcosa come quello che stavo vedendo dal mio balcone, il sangue in terra, i segni di gesso destinati a scomparire alla prima pioggia. Quando infatti Fossati ha comunicato alla TV, da Fazio, che si sarebbe ritirato, lo ha fatto alla sua maniera, da Fossati. Ha detto che si ritirava perché voleva andare a passeggiare in spiaggia, e fin qui, niente di strano, chiunque immagino vorrebbe andare a passeggiare in spiaggia. Io sicuramente, anche perché, a differenza di Fossati, non vivo in una città col mare, quindi è una aspirazione destinata a infrangersi con la contingenza. Lui, però, ha detto altro, non ricordo con che esatte parole, ho grande ammirazione per lui ma anche scarsa memoria. Ha detto qualcosa che suonava come “non voglio più dover stare a pensare con che parole racconterei quello che vedo, che mi capita, che sento. Voglio riprendere a vivere, senza star sempre a ricondurre tutto alle canzoni.” Lui, ovviamente, lo ha detto molto meglio di me, dosando le parole con maestria, come quando scriveva canzoni.

Ho pensato che capivo benissimo questa sensazione, pur non essendo Fossati. Anche a me capita spesso di pensare, quando succede qualcosa, come potrei raccontarlo. Non per cinismo, intendiamoci, non mi capita sempre e non è una mia urgenza farlo, più, immagino, come forma di salvaguardia, di protezione di me stesso. Succede qualcosa e sapere che posso raccontarla, metterla dentro parole che sono io a scegliere, una dopo l’altra, mi rassicura, mi rasserena. Poi ci sarà anche una forma di narcisismo che non so decifrare, e che onestamente non mi interessa decifrare. So che guardando quelle macchie ho pensato a come avrei potuto raccontare questa storia, come avrei messo questa storia dentro un mio scritto, a cosa lo avrei poi condotto, questo scritto, lo faccio sempre di partire da un determinato fatto per arrivare a un altro sulla carta impossibile da ricondurre al primo, se non grazie a questo mio strano modo di procedere tra i fatti della vita. E infatti siamo qui, a questo punto, nell’incertezza, ovviamente apparente, più da parte vostra che mia, di capire dove sto andando a parare, se sarà una forzatura o avverrà tutto con naturalezza, se uno sbatterà con la mano sulla coscia dicendo “guarda te questo dove è finito!” o invece sospirerà ripetendosi a mente “che coglione!”, temo più la seconda.

Il fatto è che questo mio ragionare su cosa mi avrebbe potuto far raccontare il mio guardare dal settimo piano quelle macchie di sangue mi porta a pensare proprio al non volerne parlare, al potermi permettere di guardare delle macchie di sangue, in terra, frutto di un incidente che fortunatamente non è stato mortale, senza per questo dovermi alambiccare a ragionare d’altro, lasciando fuori della porta il cinismo, certo, e soprattutto rivendicando un per altro non negato da nessuno diritto a vivere la vita da semplice passante, vedi a volte a cosa ti porta il raccontartela un po’ troppo. Essere in sostanza un Ivano Fossati che passeggia lungo i mari del mondo, come del resto potrebbe aver scritto lui stesso dentro una sua canzone.

Chissà se l’acqua del mare avrebbe già cancellato quelle macchie dal marciapiede, mi chiedo, a riprova che ho ancora un po’ di strada da fare, il sale a erodere quello che la sola acqua non riesce a lavar via.