Boys boys boys Don’t Cry, elegia per Green Gartside degli Scritti Politti

Gli Scritti Politti hanno dato vita a una loro versione del postmoderno, quando ancora di postmoderno, almeno in musica, nessuno parlava

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Mhmmm, temo che dagli anni 80, in effetti, una volta rientrati si esca a fatica. Almeno per chi, come chi scrive, cioè per me, in quegli anni era un ragazzo che si stava affacciando al mondo, provando a prenderne le misure e a prendere le misure di quello che sarebbe stato il suo percorso dentro quel mondo.

Lungi da me, adesso, mettermi a fare una apologia di quel decennio e della sua musica, figuriamoci, qualcosa che, se mai la volessi fare, intitolerei senza dubbio “Boys Boys Boys Don’t Cry”, perché in quanto a titoli, signora mia, non me la mette in culo nessuno, e notare come la scelta dei due brani citati, evidentemente atti a indicare i due opposti paletti del contesto nel quale intenderei muovermi, racchiudano esattamente il lasso di tempo che mi vede entrare alle scuole medie e compiere la maggiore età, Boys, questo il titolo del brano di Sabrina Salerno solitamente ricordato come Boys Boys Boys, la storia della musica è piena di brani il cui tema portante del testo viene confuso per il titolo, su tutti Volare di Domenico Modugno, in realtà intitolato Nel blu dipinto di blu, Boys di Sabrina Salerno è del 1987, mentre Boys Don’t Cry dei The Cure, brano eponimo dell’album Boys Don’t Cry, è del 1980, sta lì, preciso preciso.

Quello che il parlare degli anni 80, giusto ieri citavo tutta una serie di eventi e artisti e canzoni che proprio degli anni 80 sono manifesto, e questo mio parlare mi ha spinto ovviamente a fare dei ragionamenti, ragionamenti che, già lo sapete, sarà mio preciso impegno ora riportarvi, con tutte le giravolte e deviazioni che i miei ragionamenti sono soliti comportare, prima dentro la mia testa e poi su carta, virtuale, quindi, temo, nella vostra, di testa.

Lasciamo stare tutto quel che concerne l’universo cecchettiano. So che gli anni 80, per noi, sono stati prevalentemente quello, da Sandy Marton a, appunto, Sabrina Salerno e affini, ma non è di questo che voglio parlare. Come non voglio parlare del fenomeno della new wave o del cosiddetto post-punk, lo ha già fatto assai meglio di quanto io potrei mai fare Simon Reynolds, conosco me stesso e non vorrei mai mettermi in condizioni di sembrare uno che ce l’ha corto, sono cresciuto negli anni 80, appunto, a certi dettagli continuo a dare un certo peso.

Quello di cui vorrei parlare, oggi, è di un artista che all’epoca ho molto amato, pur non capendo esattamente perché, e che poi ho scoperto ha in qualche modo incarnato una modalità che evidentemente era già insita in me di guardare le cose, e che anche oggi è il solo modo che conosco per muovermi, sperimentare, scoprire, vivere, non pormi limiti e cercare sempre quella che, incomprensibilmente, Hell Raton continua a chiamare a X Factor, contaminazione. L’artista in questione si chiama Paul Julian Strohmeyer, ma ha scelto di presentarsi al mondo come Green Gartside, dal 1977 alla guida di una band dal nome buffo, Scritti Politti. Un nome, Scritti Politti, che leggenda vuole attinge a piene mani da due contesti sulla carta distantissimi tra loro, gli Scritti politici di Antonio Gramsci, il fondatore del Partito Comunista Italiano, e Tutti Frutti, brano iconico del primo rock ‘n’ roll, portato al successo mondiale da Little Richard, autore della parte musicale e aiutato nel testo, vagamente nonsense, da Dorothy LaBostrie, brano del 1955, data di nascita di Green Gartside, ma questo, immagino, sia semplicemente un caso. Che un artista decida di ideare il proprio nome, o meglio il nome della propria band, partendo da questi due estremi, poi magari qualcuno potrà anche allestire tutta una struttura teorica su come gli Scritti politici di Gramsci non siano poi così distanti dal rock ‘n’ roll dei primi anni, quelli selvaggi dell’invenzione dei giovani iconizzata da Jon Savage, ma qui tendiamo a continuare a guardare le cose per come sono in effetti andate, non a riscriverle ex post, che un artista decida di ideare il nome della propria band partendo da questi due estremi mi è parso, sul momento, curioso, dove per “sul momento” non intendo ovviamente nella seconda metà degli anni 80, quando cioè ho sentito per la prima volta qualcuno, immagino un dj in radio o uno dei ragazzi di Deejay Television, pronunciare il loro nome, intendo quando poi ho iniziato a studiare la storia della musica pop, scoprendo l’origine di quel nome sulle prime ritenute semplicemente bizzarro, ma a ben vedere è proprio tutta la musica degli Scritti Politti a essere bizzarra, piena di contaminazioni che partono da punti diametralmente opposti, incontrandosi in un mezzo che, in teoria, neanche esisteva prima.

Gli Scritti Politti, infatti, hanno dato vita a una loro versione del postmoderno, quando ancora di postmoderno, almeno in musica, nessuno parlava. Partiti come band militante, sulla falsa riga dei Soft Cell di roberwyattiana memoria, penso al loro esordio Skank Bloc Bologna, dove il capoluogo emiliano viene visto quasi come una eldorado per la resistenza al capitalismo e a quello che proprio poco dopo il Roberto D’Agostino oggi noto per Dagospia avrebbe identificato come edonismo reaganiano, per altro in netto anticipo sui tempi, spigolosa nel testo come nei suoni, perfettamente in linea col post-punk, sono approdati agli anni 80, quegli anni 80, intenzionati a scombinare le carte nella tavola del pop. Forti della voce lieve e raffinata di Gartside, gli Scritti Politti hanno infatti infilato un terzetto di album di sofisticato pop in odor di soul bianco, erano anche gli anni in cui pure sul fronte northern il soul e l’impegno politico si incontravano, vedi alla voce Jam, Style Council e poi Paul Weller. Dopo un esordio importante come Songs to Remember, uscito nel 1982, dove il  la gioca da padrona il suol con richiami al reggae e alla new wave in alcuni brani, come il pezzo d’apertura Asylums in Jerusalem, vertice artistico indubbiamente nel gospel quasi pre-dub di Faithless, e nella hit The Sweetest Girl, con l’unico cenno al passato dichiaratamente impegnato in quella Jacques Deridda che sorprende anche per le sonorità vagamente countreggianti, il successo mondiale arriva con Cupid & Psyche 85, uscito tre anni dopo. Stavolta a tirare la volata in classifica, sia in UK che in USA, come nel resto d’Europa, i singoli Wood Beez (Pray Like Aretha Franklin) e Absolute, più vicini alle sonorità in salsa soul bianco dell’album d’esordio, mentre col nuovo lavoro è il funk a spingere di più, Perfect Way e Don’t Work That Hard su tutte, il falsetto sempre in primo piano, le macchine tipiche degli anni 80, Jacko sullo sfondo, a fianco a un testo di Marx, a illuminare la strada. Certo, tra le righe si potrebbe leggere anche un certo impegno filosofico e filologico in alcuni passaggi del testo di A Little Knowledge, dove si parla di conoscenza laddove ci si aspetterebbe si dovesse parlare di amore, cantato da chi in effetti in un brano zuccheroso come The Sweetest Girl tirava in ballo il voler stare dalla parte dei più deboli (l’anello debole della catena), indicando nella politica motivo di orgoglio, ma nell’insieme quello che di Green Gartside colpisce, subito dopo una voce educata e usata come pochi è la sua capacità di usare le parole senza paura di incorrere in artifici letterali, tanto per citare con spregio la ridicola motivazione usata dal Club Tenco per premiare, strameritatamente, un altro autore che in quegli anni sperimentava di brutto, Enrico Ruggeri. La mia conoscenza del gruppo, credo, non ricordo con precisione, sarebbe arrivata probabilmente col successivo lavoro, Provision, del 1988, odiato dallo stesso Gartside, forse il lavoro più pop di tutti, con dentro quella Oh Patty (Don’t Feel Sorry for Loverboy) che così tanto spesso passava nelle nostre radio. Un lavoro che sembra impensabile se si parte da Skank Bloc Bologna come punto di partenza, ma che vedrà ben undici anni dopo lo stesso Gartside spostare la storia dalle parti del Bronx, New York, a giocare con le istanze del rap e la filosofia dell’hip-hop nel mai abbastanza acclamato Anomie & Bohemie, del 1999 (in questo caso, va detto, Green arriverà sul luogo del crimine con un certo ritardo, penso a Malcolm McLaren che già nel 1982, mentre gli Scritti Politti tiravano fuori l’esordio Songs to Rembember sbarcava sul mercato col rap di Buffalo Gals, non sempre si può essere pionieri). Album, questo, che vede la collaborazione tra gli altri di Me’Shell Ndegéocello al basso, come di Wendy Melvoin alle chitarre, sì, la Wendy di Wendy and Lisa, Waterfall è un altro pezzo di quei tempi che mi mandava fuori di testa, soprattutto il video, e anche dei Revolution al fianco di Prince, Mos Def a duettare con lui nel remix di Tinseltown to the Boogiedown, del resto gli Scritti Politti hanno sempre avuto collaboratori illustrissimi, per altro provenienti da mondi lontanissimi tra loro, dal Robert Wyatt presente in The Sweetest Girl a Marcus Miller al basso sul secondo e terzo album, passando per Robert Quine alle chitarre e Steve Ferrone alla batteria, con addirittura Miles Davis a impreziosire con la tromba alcune tracce, proprio quella Oh Patty (Don’t Feel Sorry for Loverboy) su tutte, talmente fan di Gartside da arrivare a coverizzare Perfect Way per il suo Tutu, sorte già capitata, in altri versanti, ai Madness con The Sweetes Girl, a riprova della credibilità non solo intellettuale ma anche musicale di cui Green Gartside godeva e, spero, ancora gode. Sorta di Elvis Costello con un po’ meno cazzimma e una voce decisamente più lieve, o di.

In molti, succede sempre così, si sono poi abbeverati alla fontana di Gart Greenside, penso ai Prefab Sprout, agli Aztec Camera, tanto per fare un paio di nomi,  ma potrei citare anche gli Heaven 17 e tanti altri, compresa la perla Kylie Minogue, per sua stessa ammissione, epoca Body Language, in qualche modo autorelegatosi in esilio, il passaggio da una casa occupata, come ai tempi di Leeds, quando in città the next big think era lui e la Gang of Four, o di Camden, dove i The Against, questo il nome del primo nucleo della band, sarebbero diventati gli Scritti Politti, a una abitazione familiare è in parte ascoltabile nell’ultimo lavoro del gruppo, in realtà fatto in solitaria da Green stesso, White Bread, Black Beer, lavoro nel quale il nostro torna a occuparsi di pop, anche se in chiave vagamente più folk, e ripone la parola al centro dell’azione, dove del resto è sempre rimasta, anche quando i suoni delle sue canzoni si sono fatti più decisamente eighties.

Qual è la morale di questa storia, sempre che sia una storia che è stata raccontata per cristallizzare una qualche morale (sì, è una storia che è stata raccontata una qualche morale, ovvio, mica faccio le domande retoriche così, tanto per farle)?

Che è possibile coniugare militanza con leggerezza, giocare coi generi senza perdere in credibilità, tenere uno a fianco all’altro alto e basso, dove l’alto è Miles Davis e il basso Shabba Ranks (non l’ho neanche citato, ma a un certo punto gli Scritti Politti collaboreranno anche con lui, in una improbabile cover di She’s Woman dei Beatles, nel 1991), o volendo il basso il pop e l’alto il soul, o l’alto l’intitolare un brano a Deridda, ci pensate, un filosofo decostruzionista cui viene dedicato un brano, e il basso il parlare d’amore su una base di synth con tanto di batteria elettronica a scandire il tempo, fate pure voi la vostra scelta, questo erano gli Scritti Politti di Grant Gartside.

Ma anche che è possibile sperimentare sempre e comunque un linguaggio nuovo, la scrittura colta su una melodia pop, e al tempo stesso l’inseguire dei canoni modaioli, fare il verso a Michael Jackson questo in fondo è, finendo per diventare talmente iconici dall’essere citati da un’icona come la minipopstar Kylie Minogue come modello ispirativo, tanto quanto coverizzati dai Madness, campioni mondiali di ska come dallo stesso Miles Davis, in Tatu.

E soprattutto che gli anni 80 saranno stati vacui e pieni di plastica, parlo di musica, non solo di ambiente, ma talmente tanto è il lascito interessante che ci siamo trovati in corredo da non dovercene proprio lamentare, a meno che non siamo Manuel Agnelli, quello che poi piange per il primo bimbominkia che passa da X Factor.