Ripristino del sistema

Se le cose dovessero di colpo prendere la giusta china e si potesse tornare davvero a ripartire, queste mie parole potrebbero essere brandite come clave contro di me

Photo by Giuseppe Milo (wikimedia)


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Tornare a passare un Natale nella mia città, o meglio, nella città nella quale sono nato e diventato un adulto, salvo poi andarmene altrove, è stata una gioia. Un piccolo ripristino della versione precedente, come quelle che si fanno nei PC da quattro soldi, quelli che prevalentemente uso io, in pratica poco più di una macchina da scrivere abilitata a farmi navigare in rete, quando subentra un qualche problema, ci metti su le mani e fai tornare la macchina a subito prima che il problema entrasse in gioco, perdendo giusto qualche dettaglio dell’ultima ora, spesso irrilevante. Sempre meglio che perdere tutto, questo il non detto.

Che poi io, per ragioni legate a quarantene cautelative, impossibilità di fare le scale, cautele e anche paure, non è necessario io appioppi i giusti corrispettivi ai singoli componenti della mia famiglia di origine, non è rilevante, che poi io abbia passato le feste strette, la vigilia, Natale e Santo Stefano, suppergiù con la stessa porzione di famiglia con cui vivo per il resto dell’anno a Milano, l’aggiunta della famiglia di mia cognata a ingrandire il gruppo, non rende meno alto il tasso di emozione per giorni che, in genere, da adulti, finiscono troppo spesso per rivelarsi come una lunga sequela di discorsi già fatti, di abbuffate, volendo anche di noia.

Quest’anno c’era anche la variabile magica e malinconica dell’ultimo anno nelle nostre vite, almeno nelle nostre vite di genitori, parlo per me e mia moglie Marina, in cui Babbo Natale è venuto a portare i doni e un pizzico di fantasia ai nostri bambini. Non so, ci sono cose che non si possono e non si devono dire esplicitamente, se davvero i gemelli, dieci anni già compiuti, credano ancora che il tipo vestito di rosso, con barba bianca posticcia e occhiali da sole che ogni anno arriva poco prima che si cominci la cena della vigilia a portare i doni sia davvero Babbo Natale, un elfo suo aiutante, o un nostro conoscente, quest’anno era Catalin, il ragazzo che abita al piano sopra la casa di mia suocera, in passato è stato mio padre, Massi Di Prenda, mio caro amico di gioventù oltre che uno dei più validi batteristi rock di tutto il centro Italia, se non sbaglio un anno anche mio cognato, non lo so e non lo voglio sapere, perché anche fingere di credere alle fiabe, penso, a tratti possa dimostrarsi salvifico, ET che fa volare la bicicletta di Elliot, lì dentro il portapacchi, Patrick Swayze che appare a Demi Moore, l’amore tra Bruce Willis e Milla Jovovich che alla fine del Quinto elemento salva l’umanità.

Questa faccenda dei figli che crescono, diventano ragazzi, diventano poi adulti, è una questione difficile da gestire, lo confesso, non perché indichi inesorabilmente che sto invecchiando, ho sempre faticato a accettare di essere chiamato ragazzo, anche quando ero ragazzo, figuriamoci adesso che sono a tutti gli effetti un uomo di mezza età, i capelli tendenti al bianco, le mattine passate a gestire gli acciacchi e i dolori alle articolazioni, come un Ibrahimovic che non vuole smettere di giocare a pallone, quanto piuttosto perché la sensazione che il loro crescere, diventare giovani adulti, implicherà per loro una lunga sequela di rotture di palle, di problemi, di dolori grandi e piccoli ci pone di fronte al nostro non essere dotati di superpoteri, non poterli proteggere, curare, nella versione milanese del termine, prendersi cura, siamo umani e la vita ce lo attesta senza percentuali rilevanti di errore. Credo sia anche per questo che ci commuoviamo vedendo certi film natalizi, come certe animazioni per il grande schermo rivolte ai più piccoli, perché in fondo rimpiangiamo la semplice elementarità di quando potevamo credere senza passare per folli che a portare i regali a tutti i bambini del mondo, nello stesso momento, fosse un signore panciuto vestito di rosso, un signore che assomiglia incredibilmente al ragazzo che abita al piano di sopra.

Ma non volevo spingere sul pedale della malinconia, l’ho fatto, consapevolmente, certo, complice una nebbiolina che viene dal mare che oggi avvolge la mia città natale, si sappia che sono cresciuto nella nebbia assai prima di partire per Milano e che anzi, a Milano, di nebbia, non ne ho praticamente quasi mai vista, volevo piuttosto provare a ipotizzare, le parole e il lavorarci consentono a volte quelli che un tempo si chiamavano voli pindarici, sogni immaginifici, lanciarsi in parabole che arrivano molto in alto salvo poi andarsi a infilare sotto il sette, non fosse che mi dimostrerei più vecchio di quanto non sia potrei citare le foglie morte di Mariolino Corso, seppure la mia generazione non lo abbia praticamente visto giocare, Corso, ritiratosi nel mio Genoa nel 1975 dopo aver dato lustro all’Inter negli anni precedenti, io all’epoca avevo neanche sei anni compiuti, dovendo pensare a punizioni millimetriche non posso che pensare a Platini, a Maradona, rimanendo all’Italia, Dio mi salvi dal concetto di patria, potrei dire Palanca, forte anche nei calci d’angolo diretti, volevo quindi piuttosto ipotizzare che tipo di futuro ci attende lì, dietro l’angolo, la curva dell’autostrada A14 che dopo averci mostrato a sinistra il castello di Gradara, tra colline morbide e accoglienti, ci pone di fronte al cartello che attesta la fine delle Marche e l’inizio dell’Emilia Romagna, un ultimo sguardo nello specchietto retrovisore per ricordarsi del passato e tutto quello che ci aspetta davanti è solo il divenire.

Volessi di colpo deviare su quanto scritto fin qui, sterzare in maniera radicale, come quando durante un inseguimento dentro un film chi scappa imbocca una stradina sterrata, sperando che gli inseguitori non se ne accorgano, proseguendo la propria corsa sulla via principale, dovrei abbandonare quel manto nebbioso di malinconia, lasciare che la magia esca di scena in maniera definitiva, era in effetti il ragazzo del piano di sopra Babbo Natale, bambini, e confrontarmi con la narrazione generale, la parola narrazione ha ormai da tempo soppiantato la più cool e milanesissima parola storytelling. La narrazione, intendendo con questo il modo con cui i media istituzionali, mainstream, ci stanno raccontando l’oggi, stolidi accompagnatori del sistema più che guardiani della verità in senso assoluto, ci ha da mesi, ormai quasi anni, visto che la somma tra 2020 e 2021 porta a un numero plurale, posti di fronte a un continuo variare di informazioni, in maniera assolutamente non scientifica, quanto piuttosto fiedistica: i tamponi sono affidabili, i tamponi sono inaffidabili, i vaccini immunizzano al 100%, i vaccini non immunizzano ma tengono al riparo dai sintomi più deleteri, il Green Pass è fondamentale per arginare il contagio, il Green Pass, il Super Green Pass è una sorta di leva con la quale convincere i riottosi a vaccinarsi, pena l’esclusione dalla vita sociale, le varianti, lo screening, i molecolari, gli antigenici, il CTS, le ATS, l’ASUR, i decreti, le quarantene, le quarantene cautelative, il T0 e il T5, i falsi positivi, i falsi negativi, i Drive Rough, tutto e il contrario di tutto, contando sulla nostra paura, immagino, paura che i media stessi alimentano, e anche su un senso civico mai come in questi tempi forte e vivido, questo continuo cambiare le carte in tavola, del resto, a fortificare i dubbi dei dubbiosi, come le credenze antiilluministe dei complottisti di ogni genere e specie, quelli raccolti generalmente e autoraccoltisi sotto il nome d’arte di No Vax, anche se il vaccino, a occhio e croce, è solo uno dei loro cavalli di battaglia, la scienza tutta divenuta per loro incredibile, le battaglie contro il sistema, le multinazionali del farmaco, battaglie sostenute dentro multinazionali quali Facebook o Youtube, va detto, Amazon Prime e Netlfix sintonizzate sullo sfondo, le ricerche approssimative fatte su Google, eletto a laboratorio di ricerca assoluto, gente che fino a ieri faticava a capire perché le percentuali rimanessero invariate con l’aumentare dei numeri presi in considerazione e che oggi, di colpo, pretende di saperne di farmaceutica, chimica e studi di genetica, dimentichi, immagino, che fino a prima della pandemia il principale problema di chi di farmaci si occupava, la tanto vituperata e osannata comunità scientifica, fosse quello di impedire all’uomo della strada di autoprescriversi cure a base di antibiotico, ricorderete forse le campagne di sensibilizzazione a riguardo, una minoranza affatto silenziosa, anzi, sbraitante, fastidiosa, come certe zanzare del tutto intenzionata a toglierci il sangue e il sonno, la tranquillità. Non dico questo, racconto questo, per alimentare la polarizzazione divenuta ormai imperante, io stesso ho smesso di litigare sui social, dove per anni ho praticato l’arte del Fight Club, lo so che sto contravvenendo alla prima regola del medesimo, lo so, perché essere uno dei tanti quando ho sempre ambito a una mia unicità mi immalinconiva assai più del veder crescere i bambini, svanire la magia del Natale e quelle cose lì, dico questo come semplice e mero fatto di cronaca, io che dei fatti me ne sono sempre sbattuto, guarda te come mi sono ridotto.

Ecco, la faccenda del ripristino del sistema mi sembra, tra le immagini evocate fin qui, la più interessante, quella più plausibile, o almeno più coerente alla mia visione del mondo, e quindi alla mia ipotesi di futuro. L’essere tornato dopo un anno di assenza, le feste del 2020 le ho passate come tutti, o come tutti avrebbero dovuto, a casa mia, nello specifico a Milano, l’impossibilità di lasciare la regione di residenza, il divieto di assembramenti, ricorderete tutti, a passare il Natale in Ancona, la mia terra, la mia famiglia di origine, i miei amici di quando ero giovane, il mare, mi spinge a chiedermi e di chiedermelo in quella forma di chiedersi le cose a voce alta che nel mio caso corrisponde allo scrivere, quando finalmente ritorneremo a qualcosa che si avvicini alla normalità, intendendo con questo la normalità per come la conoscevamo prima del 2020, nel settore dello spettacolo e dell’intrattenimento. Dire che il mondo della musica dal vivo sia ancora imballato è solo voler usare i guanti vellutati della bonomia per descrivere un corpo agonizzante prossimo alla morte. I grandi eventi non sono mai ripartiti, e in tutta onestà pensare che ripartiranno con tutte le incognite del caso, le zone colorate, le restrizioni, i decreti leggi pronti e via, è faccenda da ingenui, se non veri e propri coglioni, spiace per chi di live ci campa, in parte rientro nella categoria, e per quanti continuano a abboccare alle prevendite forse un po’ troppo generose verso il futuro allestite. Gli eventi intermedi rimandati, per ora a tempo, ma comunque imballati anche loro, posticipati per l’ennesima volta, per chi davvero fatica a tirare a campare saltati per sempre. I piccoli lì a boccheggiare già in tempi di pace, figuriamoci ora, con tutte le paure del caso a influire sulla voglia di sfilarsi dai piedi le ciabatte, andare alla ricerca di locali sempre troppo piccoli, impegnarsi per un settore che di suo sembra abbandonato a un destino infame. La discografia, nel mentre, quella che sciorina numeri da capogiro, ben sapendo che sta mostrando blocchi di pirite placcati in oro, mentre smantella le stanze di famiglia, accompagnando all’uscita i titolari dei propri repertori, le vecchie glorie, si affida a quella musica usa e getta che un tempo avrebbero pubblicato quasi con vergogna, ricordo sempre il poster di Frank Zappa che campeggiava, forse campeggia ancora, alle spalle di uno dei presidenti delle major, lì come promemoria di quello che la discografia era stata, speravo, invece usato come paravento per poter macellare il tutto senza ritegno, oggi Frank Zappa si sarebbe dovuto produrre da sé, fuori dal sistema e destinato a una vita di merda, è chiaro. Ancora oggi, anno Domini 2022, il Festival di Sanremo guardato come la sola speranza possibile, non a caso ci andranno tutti i blockbuster del 2021, i Sangiovanni, gli Rkomi, i Blanco, alla faccia delle miriadi di dischi di platino posticci, di una fama che comprende solo una microporzione generazionale, le radio con la loro emorragia di ascolti ancora coccolate, Spotify addirittura osannata, non sia mai che ci caghi infilandoci in una playlist che ci permettera milioni di stream che ci porteranno migliaia di euro, forse, chissà.

Uno scenario non troppo diverso da quello passato, a dirla tutta, ero o non ero la Cassandra del mondo musicale, quello che prediceva apocalissi mentre tutto sembrava scorrere benissimo? La sola differenza data dalla pandemia, una accelerazione verso la fine dovuta a un fattore esterno, non solo all’incuria e incapacità di chi è stato incautamente messo alla guida delle varie sezioni del sistema, differenza che comporta la fine di tutti, non solo degli immeritevoli, la mano di nero guantata del destino non fa distinzioni poetiche, ahinoi.

Uno scenario mesto, non malinconico, che mi fa letteralmente rimpiangere il passato, altrettanto mesto, certo, ma che lasciava presagire possibilità di salvezze, non collettive ma parcellizzate, una specie di bomba intelligente che uccidesse le persone ma salvasse almeno le cose, sacche di resistenza lì, sui monti. Lo dico consapevole di giocare coi paradossi, quindi gratis, e consapevole che, se come tutti ci auguriamo, le cose dovessero di colpo prendere la giusta china e quindi finalmente si potesse tornare davvero a ripartire queste mie parole potrebbero essere brandite come clave contro di me, le scimmie adoranti del monolito nero di 2001 Odissea nello spazio a farmi a pezzi, ma vorrei tanto poter tornare a lamentarmi della miopia dei discografici, lì in genuflessione di fronte a Daniel Ek o a rincorrere l’ultimo bimbominkia dotato di autotune, vorrei poter perculare chi finge di aver fatto sold out al solo scopo di veder poi il proprio show passare su Canale 5 in prima serata, pronto a incamerare ascolti degni di una replica notturna di Un giorno in pretura, vorrei riprendere a smascherare, con leggerezza e anche un pizzico di strafottenza, i tanti conflitti di interessi che animano questo settore funestato da troppi peracottari. Vorrei, lo dico e lo sottoscrivo nel dirlo, potermi di nuovo fare un selfie con Lorenzo Suraci e Ferdinando Salzano, e pubblicarlo sui social sapendo che presto mi tornerà accompagnato da emoticon e un florilegio di punti esclamativi su Whatsapp, l’incapacità di cogliere l’ironia, questa sì fonte di malinconia degna di un compositore talentuoso di bossanova. Ridatemi tutto questo, santo Dio, e ridatemi anche il Natale di quando ero bambino, le merende con pane e Nutella, gli shitstorm dei fan di Emma, le blastate delle Pausini, ripristinate il sistema.