Donne che urlano contro gli orsi

Ci vorrebbero queste donne determinate anche nel mondo della musica, proprio come Kate della serie workin’moms


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In questi giorni sto seriamente trovandomi in difficoltà per quel che riguarda le serie tv. So che detta così fa un po’ ridere, perché usare la parola difficoltà associata a un momento di svago potrebbe indurre qualcuno a inveire nei miei confronti con giri di parole che ruotano intorno al concetto di “non ha un cavolo cui pensare”, ma se di lavoro ti occupi di scrittura e per di più di scrittura applicata alla comunicazione, converrete, spero, le serie tv sono oggi parte integrante del panorama ottico, non se ne può mica fare a meno. Quindi sì, sono uno che impiega parte del suo tempo, quello che catalogo come tempo lavorativo, a guardare serie tv, così come a stare sui social o leggere libri, anche romanzi, e in questi giorni sono in difficoltà perché ho praticamente visto quasi tutte le serie che in qualche modo mi interessava vedere. O quantomeno, ho visto quasi tutte le serie che penso mi intessi vedere, perché so che ce ne saranno altre di cui neanche ho sentito parlare che potrebbero o dovrebbero interessarmi alla medesima maniera, solo che in questo caso il sacratico “so di non sapere” non mi è di alcun aiuto, continuo a non avere altre serie tv da guardare, e quelle che potrei/dovrei guardare ma non conoscono sono per me praticamente inaccessibili, come un muscolo del corpo che ancora nessun trainer ci ha fatto scoprire.

Non ho neanche serie che guardo con mia moglie, quelle, cioè, che guardiamo in quello che non indico come il mio tempo lavorativo, seppur io sposi in pieno la frase genericamente attribuita a Joseph Conrad, quella riguardo lo star lavorando anche mentre si guarda fuori dalla finestra, roba tipo Gray’s Anatomy, Station 19, When Calls the Heart, Good Doctor o affini (sì, abbiamo una certa passione per i medical). Al punto che, spinti un po’ dalla disperazione, disperazione anche di non aver più trovato New Amsterdam stagione 2 e 3 su Mediaset Infinity, maledetti, e in attesa di vederci le ultime cinque puntate di La casa di carta 5, che confesso a mia moglie non è affatto piaciuta, è stata tutto il tempo a guardare foto sui social mentre le varie sparatorie scorrevano in tv, ho provato a buttare lì con una certa ritrosia una serie arrivata ormai alla quinta stagione, da tempo lì, nella mia lista di Netflix. Una serie che, però, non ho mai avuto cuore di proporre perché tocca un tema che a mia moglie Marina, immagino, potrebbe in qualche modo causare malumore. La serie in questione si intitola Workin’ Moms, è stata ideata e è interpretata da Catherine Reitman insieme a altre bravissime colleghe, e parla, il titolo è abbastanza chiaro, in questo caso, di un gruppo di donne che, dopo aver partorito, torna al lavoro. Una serie divertente, questo è indubbio, ma che ha delle sfumature malinconiche, a volte proprio tristi, che suppongo agli occhi di mia moglie, quattro figli e un lavoro a tempo pieno presso una multinazionale, possono suonare a tratti dolorose.

Per questo, avendo io solo letto qualche articolo che ne parlava, ho proposto la serie con mille cautele, anticipando e continuando a ripetere per tutto il primo episodio un mantra che suonava all’incirca così “se non ci piace la molliamo subito, tanto ce ne sono altre mille”. Certo, il fatto che la prima scena iniziasse con tre delle quattro protagoniste, Kate, Ann e Frankie, poi è ovvio che ci sono i relativi mariti e compagne, una, Frankie, è lesbica, e altri personaggi minori, parenti, colleghi e amici, ma quattro sono le protagoniste vere e proprie, queste tre più Jenny, il fatto che la prima scena iniziasse con tre delle quattro protagoniste lì a palparsi i seni, seni martoriati e ciancicati, questo dicevano, dall’allattamento, avrebbe potuto far passare queste mie parole come una sorta di “metto le mani avanti”, come quando tua moglie ti chiede come è quella persona, donna, con la quale devi passare del tempo, e tu dici che è “normale” o al limite “carina”, mentre in realtà è Charlize Theron, e tu passi immediatamente per uno che ha qualcosa da nascondere, ma non è certo una scena in cui si intravedono tre paia di tette a potermi indurre a mettere le mani avanti verso una serie, non scherziamo, il mio star qui a sottolinearlo non è una excusatio non petita, quanto un modo per alleggerire il discorso, una boutade, insomma, ci siamo capiti. Sia come sia, il primo episodio appare decisamente interessante, tette o non tette, e andiamo avanti col secondo, col terzo e col quarto. Sono episodi brevi, ventitré minuti, fatto questo che in realtà depone a sfavore della serie, destinata nonostante le cinque stagioni a finire troppo presto. Tempo due, tre giorni, in pratica, e ci ritroviamo invischiati nella trama, ne diventiamo fan. Catherine Reitman, e con lei Kate Foster, il personaggio che ha scritto, essendo la creatrice della serie, e interpreta, essendone una delle protagoniste, è decisamente una donna prodigiosa, ha ben presente come sia la vita di una mamma che lavora, e, lo dico da uomo e lo dico da uomo che pratica smart Workin’ dal 2005, gli uomini escono da questa serie a pezzi, come delle complete merdine quali, in effetti, spesso siamo, specie nel mondo del lavoro e specie nel relazionarci con le donne. Non serve, credo, dire che la serie è nata da esperienze personali della Reitman, non a caso anche produttrice della serie e col marito, Philip Sterberg, coinvolto come attore, proprio nel ruolo del marito di Nathan, il marito di Kate Foster, dalla Reitman interpretata.

Anche se si è attrici, produttrici, creatrici di serie tv di successo, parte di una famiglia hollywoodiana, padre e fratello di Catherine sono registi di blockbuster, su tutti Ghostbusters, si finisce per fare i conti con le difficoltà di essere donne che lavorano. Non se ne esce. Attenzione, non sto facendo quello che fa il femminista, mia moglie non legge mai quello che scrivo, è una donna che lavora a tempo pieno e è madre di quattro figli, non ha tempo per leggere i miei voli pindarici, potrei star qui a dire esattamente il contrario di quanto ho scritto e non lo verrebbe mai a sapere, non ho interesse alcuno a vendermi per qualcosa che non sono, sto semplicemente constatando un dato di fatto, perfettamente fotografato da Workin’ Moms, seppur con i paradossi e le libertà narrative che una serie ovviamente deve concedersi. Che io da sempre mi stia battendo contro le discriminazioni, lavorative e artistiche, nei confronti delle artiste donne, questo è il mio campo di azione, quello nel quale ho una qualche autorevolezza, qualcuno che mi legga e quindi, metaforicamente, stia a sentire quel che ho da dire, è credo un dato assodato, non è stato certo Workin’ Moms a avermi aperto gli occhi.

Del resto, non credo sia necessario specificarlo, ma lo faccio lo stesso, il fatto che io abbia già denotato mia moglie Marina come una lavoratrice a tempo pieno, in una multinazionale, madre di quattro figli, può serenamente suggestionare quanto io sappia riguardo quel che il mondo del lavoro è per le donne, e l’essere dentro una multinazionale è comunque qualcosa di assolutamente più sostenibile di quanto so accadere in contesti più piccoli e più provinciali, sono un cinquantaduenne con amiche e amici miei coetanei che ovviamente tendono a condividere le proprie esperienze personali e professionali. Quindi Workin’ Moms è una serie che è diventata una delle “nostre” serie, dove quel nostre sta per di mia moglie e mia, di quelle che riusciamo a vederci sempre in tarda sera, non prima delle ventidue e trenta, ventitré, quando cioè ci si riesce a rilassare finito tutto quel che c’è da fare prima in casa, i figli ormai a letto e noi a poter staccare per qualche minuto la spina.

Non è ovviamente per mettervi a conoscenza di cosa vada in scena dentro il nostro televisore a tarda sera, prima di andare a dormire, che sto scrivendo queste parole. Non credo vi interessi, me lo auguro per voi, e anche fosse, non credo mi interessi mettervene a conoscenza, così, tanto per. Sto raccontando questa situazione perché credo che innanzitutto chiunque sia dotato di un minimo di senso della contemporaneità o alla contemporaneità guardi comunque con interesse dovrebbe assolutamente guardare Workin’ Moms, perfetta fotografia dell’oggi, e poi perché a un certo punto, sia che sia donna che uomo, o uno dei generi non binari che dovrei probabilmente coscienziosamente indicare non ho ancora capito bene come, sia che sia genitore che non lo sia (con tutte le sfumature del caso, vorrei/non vorrei/ non posso/ non mi interessa/ sto per/ etc etc), a tal riguardo suggerisco la lettura dell’ultimo libro uscito in Italia di Rick Moody, uno dei più rilevanti e talentuosi scrittori americani, “La lunga impresa. Storia del mio matrimonio”, riguardo l’avere figli in età adulta ci si interroga, con tutta la variabili di risposte possibili. Comunque sia, proprio in uno dei primi episodi, dei primi episodi della prima stagione, c’è una scena, una scena che suppongo volesse colpire lo spettatore, ma anche divertirlo, che nei fatti mi ha commosso fino alle lacrime. Lo so, sono un uomo di mezza età che ha scollinato e comincia a commuoversi con troppa facilità, metteteci anche l’ultimo anno e mezzo, il fatto che i miei figli piccoli, i gemelli, hanno da poco cominciato il loro ultimo anno di scuole elementari, l’adolescenza lì a un passo, che la più grande, Lucia, frequenta l’università, una donna, che il mediano, Tommaso, usa il mio rasoio per farsi la barba (almeno qualcuno lo usa, verrebbe da dire), sto diventando sensibile e per non vanificare anni e anni durante i quali ho interpretato il ruolo di quello “cattivo”, del “temibile Monina”, del tasso del miele pronto a scagliarsi contro il sistema e i Big ora sarò costretto a scrivere un pezzo violentissimo nel quale distruggo la carriera di un qualche cantante che, comunque, meriterebbe che la sua carriera venisse distrutta, ma mi sono davvero commosso fino alle lacrime, e vorrei raccontarvi la scena nel dettaglio, non è uno spoiler, perché è una scena apparentemente avulsa dalla trama e perché, comunque, anche fosse uno spoiler è un spoiler di un episodio uscito nel 2017, mica potete star qui a rompermi le palle se spoilero qualcosa che ha tutti questi anni.

Kate Foster, il personaggio interpretato da Catherine Reitman è tornata al lavoro. É una PR di grande successo, con un passato ai vertici di una azienda di pubbliche relazioni che, di colpo, si trova un arrogante e arrivista giovane uomo lì a provare a sfilarle la poltrona da sotto il sedere. Tornare al lavoro è sicuramente appagante, perché uno è anche il lavoro che fa, ma è al tempo stesso frustrante, una vera fucina di sensi di colpa, compresa la costante consapevolezza che nel mentre c’è una tata a seguire fasi fondamentali della vita di tuo figlio, come la prima parola o i primi passi. Metteteci pure una certa depressione post partum, in realtà più presente in un’altra delle protagoniste, e avete davanti il quadro. Kate sta al parco, facendo jogging con la carrozzina con dentro suo figlio. Kate corre e a un certo punto si trova davanti, di colpo, un gigantesco orso bruno che sta rovistando dentro un cestino della spazzatura del parco. Un orso davvero enorme, che si volta verso Kate e suo figlio, e emette un verso profondo, spaventoso, carico di cattivi presagi. La serie è ambientata a Toronto, in Canada, immagino che a Toronto possa capitare di incrociare un orso mentre si corre al parco. Non fosse che siamo in uno dei primi episodi di una serie che prevede cinque stagioni, la sesta in via di lavorazione, una serie per altro leggera, in apparenza, con chiari intenti anche comici, sarebbe da pensare a una tragedia imminente, l’orso che fa a pezzi madre e figlio nel giro di pochi secondi, due unghiate e qualche morso.

Quel che succede è invece di una potenza unica, il gesto che mi ha commosso, appunto. Kate si mette davanti al passeggino, ponendo se stessa tra il figlio e l’orso e lo affronta, urlando con una forza ancora più spaventosa dell’orso stesso. Un urlo che è la quintessenza di quello che è lo spirito della mamma, e so che qualcuno poi verrà a rompere le palle dicendo che la donna non è donna in quanto madre e altre facezie, ma di questo si sta parlando, qui e nella serie in questione, cercate di non essere taleban*. L’orso, ovviamente, di fronte a una umana donna, una femmina che difende il proprio cucciolo, non può far altro che girarsi e lasciare la scena, la coda metaforicamente tra le gambe (gli orsi non hanno code abbastanza significative). Non ho mai incrociato orsi in libertà in vita mia. Né li ha incrociati mia moglie. Ma ho visto tante volte nei venti e passa anni che hanno visto mia moglie e me nei panni dei genitori, mia moglie urlare in quel modo, a volte letteralmente, altre allegoricamente. Sono un padre molto presente, anche per quella faccenda dello smart working, certo, un padre, attenzione, non un “mammo”, termine che ritengo degno di un processo in direttissima per diffamazione, anzi, degno di un mondo nel quale i padri se ne stiano davvero in poltrona a non fare una beata fava, come da certe vecchie pubblicità o certi libri delle elementari, altro che emancipazione e uguaglianza, ma so perfettamente che una scena del genere è credibile solo in quel preciso modo lì. Donna che urla contro orso, orso che scappa.

Decidete poi voi a cosa applicare questa verità, che si tratti del governo, delle aziende, o più pragmaticamente del mondo della musica. Quel mondo della musica nel quale le donne sono così poco presenti tra le uscite discografiche e di conseguenza nelle classifiche come nei cartelloni dei festival, nel quale in discografia non c’è più neanche un dirigente donna, o che al Festival di Sanremo non c’è mai stata una direttrice artistica donna, mai, neanche uno. Basterebbe provare a lasciare un po’ di spazio, non per pietismo o per dar seguito alle comunque necessarie quote rosa, ma perché di artiste talentuose ce ne sono eccome, e stando a quel che si è visto quando si è lasciato modo di agire anche di dirigenti, vedi Caterina Caselli o Mara Maionchi, toh, anche Maria De Filippi, sicuramente non lascerebbero la propria creatura in balia di un orso, per quanto feroce non c’è orso capace di ribattere a un urlo di una donna.