Sull’Isola Di Bergman, il bisogno di emanciparsi dai maestri (e anche dal cinema)

Il nuovo film di Mia Hansen-Løve è una riflessione sulla creatività, sul potere della settima arte, sul rapporto controverso tra realtà e finzione. Un film in parte irrisolto, ma intrigante ed enigmatico

Sull’Isola Di Bergman

INTERAZIONI: 156

Due brevi episodi di Sull’Isola Di Bergman (Bergman Island, 2021), il nuovo film di Mia Hansen-Løve passato in concorso all’ultimo festival di Cannes, possono aiutare a entrare dentro il meccanismo di un’opera elusiva e stratificata, che si svolge tutta nell’isola di Fårö, nel mar Baltico, un luogo leggendario per i cinefili perché Ingmar Bergman, dopo avervi girato all’inizio degli anni Sessanta Come In Uno Specchio, la scelse per passarvi l’ultima fase della sua vita.

La prima scena cui faccio riferimento è quella in cui alla coppia di cineasti Chris e Tony (Vicky Krieps e Tim Roth), compagni anche nella vita, che soggiornano in cerca d’ispirazione nell’abitazione che fu di Bergman, l’affittuaria mostra il letto nel quale dormiranno. Sottolinea loro che si tratta di quello usato dal regista in Scene Da Un Matrimonio: “Un film – aggiunge – che ha fatto divorziare milioni di persone”. La seconda scena invece è posta a metà del racconto. Chris sta cercando la casa che fece da location a Come In Uno Specchio e non trovandola, chiede informazioni a dei passanti. Questi però non solo non sanno nulla di quel film, ma hanno l’aria di non aver mai sentito parlare in vita loro di Bergman.

Sull’Isola Di Bergman cioè, è da un lato un’opera ossequiosamente cinefila, che intende rendere omaggio a una delle più prestigiose figure della storia della settima arte, rammentando agli spettatori di oggi quanto potesse essere incisiva nel Novecento la potenza simbolica del vero cinema d’autore, quando un film era capace di influenzare la società, addirittura di cambiare la vita delle persone. E questo elemento nel film di Mia Hansen-Løve, che pure cerca di tenere a bada nostalgie eccessivamente feticiste, la si percepisce immediatamente nel rispetto quasi religioso, nell’emozione autentica che pervade Chris e Tony quando si muovono rispettosamente tra i luoghi cari al maestro. E dello stesso tenore è la dedizione affettuosa degli abitanti dell’isola che tutelano la memoria del regista – il “Bergman safari” alla scoperta delle location delle sue pellicole, dove il solo fatto di essere apparso magari in pochissimi fotogrammi d’un suo capolavoro, può consegnare un anonimo oggetto all’immortalità.

Dall’altro lato quelle persone all’oscuro di tutto paiono volerci ricordare come al di fuori del cinema ci sia un vasto mondo che continua ad esistere in maniera del tutto indipendente dal filtro che la macchina da presa frappone tra lo sguardo e la realtà. E forse da quel mondo di finzione bisogna, dopo averne tratto tutti gli insegnamenti possibili, anche sapersi emancipare. Sull’Isola Di Bergman è un film che sottolinea lucidamente il valore esemplare sul piano dell’educazione tanto sentimentale che intellettuale dell’opera di un artista eccezionale. Però poi ci mette anche in guardia dai rischi insiti nel confondere il piano della realtà con quello della reinvenzione cinematografica.

Che è però esattamente ciò che fa Chris, quando racconta a Tony l’abbozzo di sceneggiatura cui sta lavorando, incentrata sul ritorno di fiamma tra due vecchi amanti (Mia Wasikowska e Anders Danielsen Lie) che si ritrovano al matrimonio di una comune amica. Una vicenda che Sull’Isola Di Bergman visualizza, attraverso una lunga deviazione che diventa il film (inventato da Chris) nel film (di Mia Hansen-Løve).

I due piani poi addirittura si sovrappongono in una ulteriore dimensione dai contorni volutamente ambigui, in cui i personaggi della storia immaginaria di Chris diventano figure reali con cui lei interagisce nella sua vita sull’isola. È una intuizione non perfettamente a fuoco, da cui la regista non sa trarre forse tutte le conseguenze, ma è senza dubbio l’aspetto più intrigante di Sull’Isola Di Bergman, perché regala al racconto una vertigine di senso, lo nutre di una spiazzante consistenza onirica, enigmatica. Il film di Mia Hansen-Løve, cioè, si svolge contemporaneamente su di un piano inventato e concreto, che non consente allo spettatore di capire dove finisca il cinema e cominci la realtà, e viceversa.

Ed è certo questa una dimensione che attiene alla capacità degli autentici artisti di plasmare a loro piacimento mondi narrativi in cui verità e maschera, realtà e finzione s’impastano fino a trovare una forma che risponde non alle leggi della logica ma a quelle dell’estetica. Eppure c’è anche qualcosa di ingannevole e deludente in questa facoltà immaginativa che dà vita a qualcosa che s’illude d’essere realtà, mentre invece non ne è che una pallida e mistificante copia. Un po’ come quel modellino in scala del teatro stabile di Stoccolma che vede Chris, nel quale c’è anche il pupazzetto di Bergman, posto nel punto d’osservazione privilegiato del “deus ex machina” che col suo sguardo domina il palcoscenico.

Solo che, appunto, si tratta di una percezione falsata perché, lungi dall’esserne il burattinaio, anche il grande maestro è solo un fantoccio all’interno di un piccolo mondo di marionette. Un mondo beninteso affascinante, come affascinante è il cinema, l’arte più di tutte capace di avvincere lo spettatore al punto da sembrare reale. Solo che, per quanto perfetto e seducente, quel mondo non è che un altro sogno. E dai sogni, per quanto belli possano essere, sarà comunque il caso di svegliarsi. Persino quando si tratta dei sogni (e del cinema) di Ingmar Bergman.

Continua a leggere su optimagazine.com