“Isabelle Huppert può ben aspirare al titolo di più grande attrice vivente” ha scritto Variety parlando di Le cose che verranno (L’avenir, 2016), il quinto film di Mia Hansen-Løve, regista assai apprezzata dalla critica transalpina (compagna di Olivier Assayas), che ha vinto l’Orso d’argento a Berlino l’anno scorso.
Affermazione impegnativa ma condivisibile, pensando anche al quasi contemporaneo Elle di Paul Verhoeven, con cui Le cose che verranno costituisce quasi un dittico. Certo, sono due storie di temperatura diversa: un thriller torbido, quasi sadomasochistico, e un compassato racconto di intellettuali parigini di sinistra. Accomunate però dai personaggi interpretati da Isabelle Huppert. Più fredda ed enigmatica la protagonista di Elle, più commossa e commovente la Nathalie del film della Hansen-Løve. Ma fatte della medesima pasta esistenziale: due sessantenni, colte sul limitare d’una maturità prossima al declino, cui accadono quasi le stesse cose, una relazione finita, il rapporto controverso con una madre anziana, madri a loro volta e nonne.
Le cose che verranno comincia dal prologo in cui la coppia di docenti di filosofia Nathalie e Heinz (André Marcon) visita la tomba di Chateaubriand. Poi un salto di diversi anni: ritroviamo i coniugi nell’elegante appartamento parigino impreziosito da una biblioteca sterminata, assistiamo alle lezioni in classe o en plein air di Nathalie che cita Pascal e Rousseau.
L’unica macchia a questa confortevole esistenza è rappresentata dalle telefonate della madre di Nathalie, Yvette (Édith Scob), ex modella sconvolta da crisi di panico connesse al terrore della solitudine e dell’invecchiamento. È una macchia destinata ad allargarsi, perché il marito le annuncia di volerla lasciare per un’altra donna. I due, in verità, sembrano preoccuparsi più della spartizione dei libri. Ma la crepa s’è aperta. Dolorosa ed entusiasmante. Perché tra senso d’abbandono e riassaporata libertà, Nathalie si confronta con occhi nuovi e qualche smarrimento col mondo circostante.
Che, scopre, sta cambiando. Il suo editore le annuncia di voler chiudere la collana di classici della filosofia per ragioni di mercato. Intanto l’allievo prediletto Fabien (Roman Kolinka, pare uscito fuori da un film di Robert Bresson), invece di inseguire la carriera accademica, si ritira nella Francia rurale in una comune anarchica, nel segno d’una militanza che rifiuta il mondo così com’è. Sembrano queste le scelte offerte a Nathalie: da un lato accettare lo spirito del tempo, l’avvenire scandito dalle insindacabili leggi dell’economia. Dall’altro, mettersi di traverso a quello spirito, rifiutandolo platealmente. Soluzione che Nathalie, dopo l’impegno politico di gioventù, sa già essere fallimentare.
Che volto potranno avere allora Le cose che verranno? Nathalie per tutta la vita ha insegnato ai suoi allievi a pensare con la propria testa. Ora deve fare lo stesso: fabbricarsi una vita a modo suo, sulla base però non di ideali astratti (rivoluzionari), bensì delle concrete carte che le restano. Che sono quelle d’una donna sessantenne, che può ancora vivere passioni, ma non proiettarle sull’orizzonte lungo e fiducioso della giovinezza, obbligata invece a guardarle con in bocca il sapore dolceamaro della fine, che il prologo già rammentava.
È vero, l’urgenza delle domande esistenziali de Le cose che verranno viene un po’ stemperata dalla scelta di ambientare la storia in un accogliente spaccato colto e benestante. Però, anche grazie all’interpretazione di Isabelle Huppert e alla sintassi libera del racconto, senza psicologismi né la gabbia d’una sceneggiatura tutta cause effetti e spiegazioni, il film di Mia Hansen-Løve trova, come la protagonista, la sua voce. E nel finale sommesso, dolce e malinconico, la “scelta” di Nathalie, non altisonante né semplicistica, suona personale e veritiera. Le cose che verranno è un film come l’avrebbe potuto fare forse Eric Rohmer. Pacato ma non placato. Urgente.