DonnaCirco, il ritorno del disco femminista che non è mai uscito

Un lavoro collettivo, tutto al femminile, dove dodici artiste si mettono al servizio del progetto, andando a mettere in scena una canzone a testa


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Tanti anni fa ho letto un gran bel romanzo ascrivibile al genere cyberpunk da titolo Visioni rock. In originale si intitolava Glimpses, cioè “visioni”, la parola rock, immagino, aggiunta dall’editore, Fanucci, o magari dai due curatori della prestigiosa collana presso cui è uscito, AvantPop, Mattia Carratello e Luca Briasco i loro nomi, al solo scopo di specificare come dentro quel libro si parlasse di musica. E di musica in effetti si parla, e anche molto, con competenza e passione, ma soprattutto con un grande padronanza della forma romanzo, l’autore del libro in questione è uno dei massimi esponenti del genere cyberpunk, Lewis Shiner, e nella sua carriera ha pubblicato pochi libri, tutti assolutamente da leggere, e con uno stile che si discosta un po’ da quello oscuro e vagamente bladerunneriano dei suoi più illustri colleghi, i soliti William Gibson, Bruce Sterling, John Shirley, finendo piuttosto in un luogo vagamente ovattato, fatto di rimandi a quel passato che chiunque ami il rock e non sia ormai intorno ai settanta, facciamo anche ottanta, rimpiange con quella caratteristica nostalgia di chi sente la mancanza di qualcosa di cui ha solamente sentito parlare. La storia infatti, non la spoilero tutta perché vi invito, ovviamente, a andare a recuperarlo, nel caso non lo abbiate già letto, narra le vicende di Roy Shackleford, riparatore di stereo, figlio dei fiori andato sopravvissuto al ‘68, che proprio nel momento in cui l’ascesa alla Casa Bianca di Bush sembra definitivamente chiudere con un passato fatto di ideali e di sogni scopre di avere un singolare potere, quello cioè di poter viaggiare nel tempo e andare quindi a far completare le grandi opere rock divenute leggendarie proprio perché mai terminate e pubblicate. Chi, diciamocelo francamente, amante del rock non si è domandato a più riprese cosa sarebbe potuto esistere se i Beatles non si fossero sciolti, se Hendrix e Morrison non avessero incontrato la morte giovanissimi, se Brian Wilson non fosse improvvisamente rimasto incastrato dentro la sua testa. Ecco, a quest’ultima domanda, in parte, risposta è arrivata anche dalla vita reale, quando nel 2004 il geniale artista in questione ha pubblicato una versione ovviamente rivista e solo sua di Smile, l’album perduto dei Beach Boys iniziato nel 1966 e lasciato a metà nel 1967, troppe le difficoltà tecniche nel realizzarlo allora, ricordiamo che i Beach Boys erano giganteschi e innovatori, al punto che i Beatles stessi azzardarono e osarono tanto, penso a lavori come Sgt Pepper’s Lonely Hearts Club Band, vera e propria risposta dei quattro di Liverpool al capolavoro Pet Sounds, e il White Album, proprio per dimostrare di non essere da meno, e anche qualche scazzo di troppo con Mike Love, che dei Beach Boys era la voce (affermazione discutibile, lo so, i Beach Boys erano la band delle voci per antonomasia, ma se Brian era l’autore principale Mike era la voce, diamo a Cesare quel che è di Cesare). Insomma, sapere cosa sarebbe potuto accadere, ascoltare l’inascoltato ma in qualche modo mitizzato, ipotizzato, chiunque ami la musica ha vissuto anche di questi sogni, di queste assenze, di questi “chissà come sarebbe stato”.

Ora, so che quel che sto per dire è incredibile, nel senso che nel dirlo sono poco credibile io, non che sia incredibile la notizia che, in qualche modo, andrò a veicolare, sono poco credibile io nel mettermi dentro questo discorso. So, cioè, che nessuno crederà veramente che io, cinquantadue anni, abbia aspettato con chissà quale apprensione e pulsione l’arrivo di un disco che, tecnicamente, è stato inciso la prima volta nel 1974 e mai è stato pubblicato. Un disco che, dopo aver rivisto parzialmente la luce in digitale, ma è noto che la mia religione mi impone di non ascoltare la musica in streaming, son fatto così, l’ultimo dei fedeli alla linea, è stato inciso nuovamente, in maniera ovviamente diversa dall’originale, seppur con una aderenza filologica piuttosto stretta, andando a uscire in realtà per la prima volta solo di recente, stringo il cd in mano, ecce cd. Non è vero che io lo abbia aspettato chissà da quanto, sicuramente non da quarantasette anni, ma diciamo che dal momento in cui ne ho sentito parlare, anni fa, leggendo una intervista di Paola Pallottino, poetessa e paroliera, a lei si devono i testi dei primi successi autonomi di Lucio Dalla, 4 marzo 1943 e Il gigante e la bambina, per dire, me ne sono follemente innamorato, così, in via del tutto teorica. Perché Donna Circo, o DonnaCirco, il lettering non mi aiuta e a memoria era scritto tutto attaccato, è un lavoro importante, che sarebbe potuto essere un tassello importante della storia della nostra musica d’autore o d’arte, e che, invece, temo, resterà una delizia per pochi. Un album di Gianfranca Montedoro, sua la voce nella versione mai uscita in disco del 1974 e sue le musiche, dove il nome di Paola Pallottino ha però un peso fondamentale. Un album femminista, molto femminista, scritto in un’epoca in cui essere femministe appariva come una necessità, tante le battaglie da fare, i diritti da cercare di ottenere, e oggi tristemente ancora attualissimo. Un album che è un concept, tutto ruota intorno al mondo del circo, non era difficile da capire, dove ogni singola storia prova con successo a mettere in scena problematiche e tematiche calde, dall’aborto al femminicidio, all’epoca violenza contro le donne, passando per il diritto al piacere, tema assolutamente all’avanguardia, e  quella forma di rivendicazione di un ruolo nella società che forse è l’aspetto meno discusso e primo parto da cui partire, ieri come oggi.

Un oggi che vede DonnaCirco finalmente uscire in questa veste nuova, non più un lavoro di Gianfranca Montedoro, quindi, o almeno, non più solo quello, ma un lavoro collettivo, ovviamente tutto al femminile, dove sotto la guida di Suz, al secolo Susanna La Polla De Giovanni, dodici artiste si mettono al servizio del progetto, andando a mettere in scena una canzone a testa, accompagnate da una band, altrettanto al femminile, band che vede Irene Elena alla chitarra, Chiara Antonozzi al basso e Vittoria Burattini alla batteria, con featuring di Laura Agnusdei al sax, Sara Ardizzoni  e Macella Menozzi alla chitarra, Ezra Capogna a produrre e mixare. A cantare, anche perché la voce di Gianfranca Montedoro, artista che ha operato in area jazz, è particolarmente “importante”, dodici artiste, tutte appartenenti più o meno all’underground italiano (sì, prima dell’orribile utilizzo del nome indie chi non era mainstream veniva in genere appellato così), quindi oltre a Suz, da cui tutto è partito, la Pallottino le proporrà di riprendere in mano l’opera durante una cena, prima della pandemia, ecco NicoNote, Una, Francesca Bono, Marcella Riccardi, Vittoria Burattini dei Massimo Volume, Alice Albertazzi, Angela Baraldi, che underground non è per status ma per scelta, Eva Geatti, Valeria Sturba, Enza Amato e Meike Clarelli. Il risultato, quindi l’ascolto, è straniante, ma di quel tipo di straniamento che ci incanta, ci ammalia, ci ipnotizza tenendoci imbambolati, nome omen, un viaggio ritroso nel tempo, parlo di musica, canzoni di un pop alto, brevi, incisive, testi assolutamente immaginifici, seppur in grado di veicolare una trama, un lavoro che rimanda al passato, nonostante il nuovo vestito, un capitolo mancante del libro di Lewis Shiner, appunto, una antichità nei modi che, però, è anche parte integrante del presente. Non un lavoro che fa l’occhiolino all’oggi, parlo di suoni e anche di approccio, la necessità di prestare attenzione, di ascoltare con cura, di non perdere i dettagli è assolutamente roba d’altri tempi, e viva Dio, ma un lavoro d’oggi per l’attualità dei temi affrontati e della lingua usata per affrontarli, la genialità del traslare il tutto nel mondo del circo, assolutamente iconico, attesta come la Pallottino sia stata una possibilità persa troppo presto per la musica italiana, lei, una delle prime autrici donne di pezzi di grande successo accantonata dalla discografia, anche a seguito di uno scazzo con lo stesso Dalla, la vicenda del progetto DonnaCirco, stampato dalla casa discografica tedesca BASF e mai pubblicato la dice lunga a riguardo. Piccola notazione a margine, e magari nel caso sarò anche di parte, essendo la protagonista della notazione a margine stata la mia compagna di banco per i cinque anni del Liceo, ma anche Vittoria Burattini come cantante, lei che è una delle più grandi batteriste italiane, il click automatico, un gusto raffinatissimo al servizio di una band incredibile come i Massimo Volume, un unicum della nostra discografia che ci dovremmo tutti impegnare per promuovere e tenere sempre in alto, è una possibilità persa della nostra discografia, sentitela cantare la conturbante Trenta coltelli per credere.

Andiamo quindi a recuperare questo gioiello che ha rischiato davvero di rimanere impigliato in un universo alternativo e che risponde al titolo di DonnaCirco, e facciamolo subito, perché quel che ci racconta può esserci utile già a partire da oggi.

Next step, credo necessario, andare poi a recuperare anche opere nel mentre passate in soffitta come quelle di Margot, al secolo Margherita Galante Garrone, insieme a Sergio Liberovici, suo marito e con Margot genitore del poeta, cantautore e regista Andrea Liberovici, Michele Straniero e Fausto Amodei parte dei Cantacronache, e titolare di una carriera solista che meriterebbe di essere fatta riemergere, fotografia storica dell’Italia degli anni passati che ci mostra un punto di vista originale, femminile, impegnato, la sua ballata Le nostre domande, con testo scritto dal poeta Franco Fortini lì a farci da promemoria (e altra assoluta pietra angolare del femminismo in Italia).

C’è ancora parecchia strada da fare, direi, così, a occhio, vediamo almeno di farla con la giusta musica che esce dall’autoradio.

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