Rocky siamo noi, ogni volta che cadiamo per rialzarci

Vidi questo film che avevo undici anni e rimasi sconvolto come uno che capisce allora il suo destino


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Quarantacinque anni fa la nascita di un immortale: usciva nelle sale Rocky, storia di un perdente, un pugile suonato che poi era lo stesso uomo reale che lo aveva immaginato: Sylvester Stallone era al suo ultimo round o così credeva: con 8 dollari sul conto e una carriera fallimentare alle spalle, a 30 anni aveva dovuto vendere il suo cane, che non può più mantenere. Una sera, nel suo tugurio, assiste da una vecchia scassata televisione al combattimento tra Muhammad Ali e lo sconosciuto Chuck Wepner, chiamato “il sanguinolento di Bayonne” per la tendenza a farsi tagliare sul ring. Ali massacra Wepner, che schianta a pochi secondi dalla fine dal match e Stallone è inorridito e affascinato: si chiude in casa e in tre giorni e tre notti scrive a mano la sceneggiatura. Piace, ma la vogliono dare a un altro. L’affamato Stallone non cede: quello sono io, o lo fate interpretare a me o non se ne fa niente. La spunterà, al prezzo di farsi rompere le ossa in massacranti sessioni di pugilato, e Rocky diventa più vero del suo demiurgo. Nasce il film, ed è un b-movie: manca tutto, si improvvisa tutto, viene realizzato con un budget di novecentomila dollari, con mezzi talmente di fortuna che vengono inventati lì per lì: la steadycam la escogitano perché non c’è tempo, non c’è denaro per avere le costose macchine carrellate per le inquadrature di azione. Quando, il 22 novembre, esce nei cinema, Stallone è in fondo a una sala, rassegnato: sarà l’ennesimo fallimento della mia vita. Ma quella sala diventa il ring stesso, il pubblico impazzisce, salta in piedi, tifa come per un incontro vero. “Rocky”.
Il film incassa 127 milioni di dollari, vince tre Oscar, ma viene pagato al suo artefice 75.000 verdoni tutto compreso (e, per prima cosa, riscatta il suo cane). Per la colonna sonora, a Bill Conti danno un budget di 25mila dollari, e lui deve comporre l’opera in tre ore. È un film contro il tempo, in tutti i sensi. Il resto sarà storia infinita.
Rocky non è un personaggio, Rocky è un mondo. Un mondo che non può finire perché eterno così come eterno è quel rialzarsi dopo ogni sconfitta per vincere contro tutti per cadere dopo ogni trionfo per ritornare sempre ai fantasmi di Philadelphia, dove egli vive e dove morirà (e dove la sua statua ricorda a milioni di turisti che lui è un eroe più vero del reale). Rocky è il trionfo della volontà, la bestia che fuori dal ring diventa di bontà disarmante e disarmata. Ma non stupida. Come uno che, a forza di male, di dolore, ha capito: “Io non credevo che la mia vita sarebbe stata così difficile” piange il vecchio pugile, nel sesto episodio della saga, girato 30 anni dopo, davanti al rudere della pista di pattinaggio dove ebbe il primo appuntamento con Adriana, sulla cui tomba ogni giorno depone una rosa. Il combattente ha colto l’inutilità di tutto ciò che non sia amare. Un underdog, uno sconfitto in partenza, uno che vince perdendo e deve ricominciare sempre da capo perché la vita non ha senso, la vita è semplicemente quello che capita.
Oltre alla cifra fortemente autobiografica, oltre a ribaltare il mito del sogno americano, che per Balboa è un continuo disfarsi mentre si avvera, la saga di Rocky è un raffinatissimo dialogo con il pugilato reale, un grande scorcio, lungo quarantacinque anni, colmo di allusioni, citazioni, elementi più o meno sommersi che gli appassionati della nobile arte sapranno riconoscere, ma il grande pubblico non sospetta. Eppure sono sono proprio questi rimandi a rendere imperdibile Rocky e il suo infinito combattimento con la vita. Nessuno come quel povero Cristo che viveva in un cesso, e sposò la ragazza del negozio di animali in cappottino rosso, la più timida e speciale della città, e riuscì a reggere 15 round col grande Apollo Creed.
Quasi mezzo secolo fa. Non c’era internet, non c’erano i social, non c’erano i giocattoli onnipotenti che tutti abbiamo e che ci tengono per le palle. C’era una disperata voglia di sopravvivere, non importava come, dove. Questione di atmosfere. Luci ed ombre. Quella vita nella vita che è la boxe. Quell’esagerata frenesia americana anni ’70, fogna metropolitana di liquami brillanti, esuberanza angosciosa, ottimismo terrificato. Quella fotografia vivida e livida. Quei dialoghi iperrealisti: “Dieci anni e si fa vivo solo adesso. Cos’è? Puzzava? Casa mia, puzzava? Vieni! C’è una puzza che fa schifo! E vieni! Forza! L’apice, dice, lui ha avuto l’apice. Io non ce l’ho avuto mai l’apice!” urla disperato il pugile al suo manager che lo ha sempre trattato di merda, ma adesso che ha l’occasione della vita vuole farne parte. Vuole riscattare anche la sua, di vita, il vecchio Mickey. E Rocky, dopo aver delirato tutto il suo risentimento, gli corre dietro, per la strada, lo abbraccia, e non c’è altro da dire, il patto è firmato.
L’ingenuità del bestione italiano dall’indomabile cuore, e la tremenda poesia dello squallore. Di Stallone, come di Rocky, dicevano che era scemo. Cercava l’antieroe, il campione nero, l’alter ego di Cassius Clay. Provò coi pugili veri. Joe Frazier, già in declino, non era interessato (ma avrebbe fatto se stesso in un cameo). Chiamarono Ernie Shaver, che picchiava più duro di Tyson. Stallone aveva scritto maniacalmente tutte le coreografie per le scene del combattimento. “Picchiami sul serio Ernie”. “Sly, è meglio di no”. “Picchiami ti dico, deve essere reale”. “Te lo ripeto Sly, lascia stare”. “Ti ho detto di picchiare, sono io che faccio il film!”. Ernie accompagnò con dolcezza il gancio verso il fegato di Rocky, ma Stallone finì in camerino a vomitare litri di fluidi di tutti i colori. In ospedale videro che aveva tre costole lussate. Due settimane di stop per una carezza. Alla fine presero Carl Weathers, che era scultoreo – ma non un pugile. Apollo è tronfio e furbo come Ali, un businessman in calzoncini nella “terra delle opportunità”, ma Rocky pesta i quarti di bue, proprio come faceva Frazier.
Adriana, che cambia la vita a Rocky, è Talia Shire, dissero che a Stallone l’avesse imposta la mafia. La mafia, se mai, ci vide giusto, nessuna più di lei poteva impersonare la perdente del negozio di animali, e la scena in cui arranca su una pista di pattinaggio deserta è un sogno di schegge di ghiaccio dove Chaplin e Fellini s’incontrano. Tutto un presepe di perdenti la Filadelfia di Rocky. Perfino il boss Tony Gazzo è uno sfigato, uno che non fa paura a nessuno. Gazzo è un fallito, Adriana una nullità, Paulie suo fratello un disperato, l’allenatore Mickey un rottame, il barista un rassegnato, e i bambini nascono e crescono condannati. Orrenda, deformata gente, senza niente da vincere e da perdere. Talmente piegati e piagati che gli altri li trattano come subnormali, ci si trattano anche fra loro e va a finire che ci credono, si comportano, si muovono in quel modo sconnesso, dissociato. Invece è solo mancanza di speranza. Il regista Avildsen non mette in scena una commedia umana e tantomeno il compiacimento della deriva della beat generation, e men che meno la grandiosità tragica di Hugo. Nei suoi vuoti, nei silenzi, nelle dilatazioni degli sguardi, delle smorfie c’è la tenerezza della disperazione di Simenon, neanche di Céline, che alla fine il brutto lo corteggia per possederlo, di Simenon, che lo accetta per quello che è.
Rocky è un fallimento totale, come pugile è ormai insensibile, come esattore per Gazzo si intenerisce. Io vidi questo film che avevo undici anni e rimasi sconvolto come uno che capisce allora il suo destino; il giorno dopo guadagnai una libreria, a undici anni, a cercare il libro con la sceneggiatura e lo sapevo a memoria e poi l’ho perso e per fortuna l’ho ripescato su Ebay una vita dopo. E adesso sono qui che scrivo della dolcezza che sta in una sconfitta, scrivo di pizzerie con tovagliette di carta dove nessuno siede, scrivo di chi mi scrive ed è quasi sempre gente piegata e piagata e amo Simenon e conosco a memoria ogni battuta di Rocky, il primo, e quando all’ultima scena, al termine del cruento incontro, durante il quale Rocky è uscito definitivamente dall’infanzia, vale a dire, con Malraux, ha compiuto il suo atto di eroismo, lui coperto di sangue chiama la sua Adriana con lo sgomento rabbioso di un bambino, io provo esattamente la commozione infrenabile della prima volta. È una scena puttanesca, prevedibile, ruffiana ma mi piglia sempre a tradimento, perché prima ci sono due ore di gente che cercava solo di vivere.