Con Creed II Sylvester Stallone continua a riscrivere il proprio mito. Lo ha fatto negli anni ripensando dalle fondamenta i suoi due personaggi più iconici: Rambo, che nell’ultimo episodio John Rambo del 2008 veniva descritto come un uomo ormai disgustato dalla violenza – e intanto è in post-produzione Rambo 5 – Last Blood. E soprattutto Rocky, riportato alle sue origini di eroe proletario attaccato ai veri valori e agli affetti, sia nell’ultimo episodio della serie madre Rocky Balboa (2006), sia nel fortunato spin-off nato nel 2015, Creed.
Nel quale il centro della scena, ed è un indice della sopraffina sensibilità cinematografica di Stallone, vien presa da un nuovo personaggio, Adonis Creed (Michael B. Jordan), figlio del vecchio rivale e amico di Rocky, Apollo. Stallone si ritaglia il ruolo del mentore, che indirizza il giovane irruento e pieno di cicatrici emotive (la morte del padre mai conosciuto) e dubbi esistenziali (quanto valgo davvero?) grazie a una saggezza frutto delle tante ferite e dei tanti pugni presi sopra e fuori dal ring.
Rimaneva ancora un tassello in sospeso, la storia di Rocky IV, l’episodio più criticato, e criticabile, della serie. Quello che, negli anni estremi della Guerra Fredda riportata in auge dalla presidenza Reagan durante gli anni Ottanta, spinse Stallone a rileggere Rocky Balboa in una chiave che lo snaturava, come il simbolo trionfale dell’americanismo che mette al tappeto l’ideologia comunista, rappresentata dalla spietata e inumana – come tutti i sovietici – macchina da guerra Ivan Drago (Dolph Lundgren).
Creed II riparte da quella macchina da guerra. Dopo la macchia indelebile della sconfitta di trent’anni prima, Ivan Drago è un “cane randagio”, abbandonato da tutti, dalla moglie Ludmilla (Brigitte Nielsen), che gli ha preferito un alto papavero, ed esiliato in quella Russia dei poveri che è l’Ucraina insieme al figlio Viktor (Florian Munteanu). Il quale costituisce la sua seconda occasione: una nuova macchina da guerra del ring, spietata com’era lui, anche se al fondo segnata dal dolore di sentirsi un bastardo, perché rifiutato dalla madre che a stento conosce.
Sull’altro versante c’è Adonis Creed: è appena diventato campione del mondo dei massimi, ha sposato Bianca (Tessa Thompson) e attende una figlia. Soprattutto però, lui è il figlio di Apollo, l’uomo ucciso sul ring da Ivan Drago. “Una trama molto shakespeariana, due figli legati da una tragedia”, dice un commentatore sportivo. Lo scontro è già scritto. Anzi, un doppio scontro, com’è nella logica inaggirabile di Rocky. In cui prima c’è la caduta e poi la rinascita, prima la sconfitta che ti pone di fronte alle tue vere paure, poi il riscatto che non sa di vendetta, ma di presa di consapevolezza.
Se la morale del primo Creed era sintetizzata nella frase di Rocky “un passo alla volta, un pugno alla volta, una ripresa alla volta”, in Creed II è scolpita da un’altra sentenza di Balboa: “Se vuoi che il tuo avversario soffra devi essere disposto a soffrire”. Nulla, insomma, arriva facilmente nella vita, e il sacrificio è il pilastro fondamentale per trovare successo e dignità personali. Il che può significare anche che ti devi allenare in mezzo al deserto, in una palestra che assomiglia a una colonia penale per carcerati. Perché non essere in pace con sé stessi è come essere in prigione.
Funziona benissimo il film diretto da Steven Caple Jr., che porta la firma nella sceneggiatura dello stesso Sylvester Stallone. Il film emoziona e tiene incollati alle sedie per le sue oltre due ore di durata. Ed è anche merito di come vengono tratteggiati i legami di famiglia tra Adonis e Stallone, che lui chiama zio, l’amore del nuovo campione per la moglie – secondo i canoni del miglior puritanesimo americano il ragazzo è tutto casa e ring –, l’apprensione per le responsabilità legate alla nascita della figlia, l’ombra sempre sullo sfondo di Apollo, la cui immagina campeggia gigantesca, e quasi castrante, nella palestra in cui il giovane campione si allena.
Manca però proprio l’annunciata tragedia shakespeariana: un po’ perché alla fine Adonis, come Rocky, non può non vincere, e quindi la trama diventa prevedibile nel dosaggio delle emozioni e dei colpi di scena. Ma soprattutto perché manca un tratteggio all’altezza di Ivan e del figlio Viktor. Che sono sì cani randagi, ma mai integralmente uomini. Le loro motivazioni, i loro reali traumi non emergono mai davvero. Non conquistano mai la dignità di personaggi e quindi di autentici avversari, e restano in qualche modo i cattivi dei vecchi film da Guerra Fredda, disposti anche a ricorrere a sporchi trucchi.
Pur non volendo, nella trasferta a Mosca per l’ultimo esaltante duello, la rappresentazione della Russia, se pur scenograficamente aggiornata al capitalismo cui il paese ha aderito pienamente, è ancora legata ai vecchi schemi da Unione Sovietica, con oligarchi imperscrutabili e russi quasi metallici. Come la relazione tra Ivan e Viktor, di quasi inumana freddezza.
C’è un lampo nel sottofinale, i due che s’allenano per strada dopo la sconfitta – non è uno spoiler, tutti sanno prima ancora di entrare in sala che Adonis vincerà – e affiora un’intimità nel dolore che fino ad allora non avevamo ancora visto. Ma è troppo poco. Anche per questo Creed II è una mezza occasione persa: stavolta Stallone non ha avuto la forza di riscrivere il proprio mito fino in fondo.