Benvenuto Nonostato, trap-artista tra William Burroughs e Fabri Fibra

Tanta carne al fuoco, forse anche troppa, al punto che viene da chiedersi quale sarà il prossimo passo di questo astruso artista


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Siete anime semplici, non per questo non vi si vuole bene. Per questo stavolta proverò a essere semplice anche io, sfoltendo le sovrastrutture. Parliamo di pregiudizi. Ne esiste uno di cui sono oggetto Io, seppur di un tipo particolare di oggetto si tratta, visto che ne sono oggetto in quanto soggetto. Si tende, infatti, e in quel sì siete nascosti proprio voi, anime semplici, a credere che io abbia dei pregiudizi nei confronti di certa musica, quella che ho contribuito a identificare come musica demmerda. Il pregiudizio, in quanto tale, vorrebbe che io la bollassi come tale senza neanche ascoltarla. Così, sulla carta. Roba da boomer, potreste pensare, magari, seppur io sia per anagrafe più parte della Generazione X che dei Baby Boomers, da cui i boomer traggono nome, e seppur, se applicaste la formula “Ok, boomer”, passereste immediatamente ai miei occhi dal ruolo anche simpatico di “anime semplici” a quello assai più odioso di “bimbiminkia”. Quindi eccoci tutti di fronte a un paradosso, un critico musicale oggetto di un pregiudizio che lo vuole avere dei pregiudizi nei confronti di certi sedicenti artisti, lasciatemi giocare con certe dicerie, una sorta di loop per il quale è davvero difficile ipotizzare una qualche via d’uscita.

Non che le opinioni dei passanti, di questo si tratta, siano esattamente in cima alla catena alimentare di quell’anomalo mondo che potremmo simbolicamente chiamare “quel che mi interessa”, ma essendo io propenso con una certa leggerezza a giocare coi paradossi trovo tutto questo avvincente.

Avete dei pregiudizi nel pensarmi coi pregiudizi, questo il punto di partenza.

Nei fatti i miei sarebbero giudizi tout court, o ex post, perché sono giudizi frutto di esperienza e, nel caso della musica, di analisi a sua volta frutto di tale esperienza. Non sono uso parlare di ciò che non conosco, anche perché, se non lo conosco, non saprei esattamente come dire. Poi, ovvio, la forma che scelgo per parlare di ciò che non ritengo degno di essere affrontato con serietà è, per simulazione, in apparenza poco serio, o comunque altro rispetto a dei codici canonizzati, questo però non è frutto di un pregiudizio, tutt’altro, quanto più un tentativo di alzare l’asticella del mio raccontare, lo faccio quasi sempre anche con la musica che ritengo interessante, bella, diciamo che la forma del mio parlare è quasi sempre altra rispetto a quei codici, non certo per una faccenda di giudizi o pregiudizi.

La sto prendendo larga. Ci sta. Trovo che i giri panoramici siano spesso più interessanti delle linee rette, specie quando si tratta di affrontare tratti di strada sconosciuti, che quindi potrebbero regalarci viste mozzafiato, altrimenti occultati da blocchi anonimi di jersey. Non è questo il caso, o non sta a me dirlo, ma visto che sto per affrontare proprio una sorta di full immersion in quello che a uno sguardo disattento potrebbe sembrare un ecomostro, volevo arrivarci dopo avervi regalato, anime semplici, qualcosa che vi avesse predisposto a una serenità interiore inattaccabile, come chi prima di essere condannato a morte decide di concedersi un lauto pasto, o una notte d’amore.

Ho ascoltato il primo singolo, credo si tratti del primo singolo, non ho trovato notizie a riguardo e do per scontato che in assenza di tali si tratti di esordio, di tale Nonostato. Nome curioso, perché io mi ero fermato al quarto stato di Pelizza da Volpedo, al limite a quello fluido che riporta il numero Quinto. Un nono stato non lo avevo proprio mai sentito ipotizzare. Nome, però, che temo potrebbe anche essere stato ispirato proprio dal testo e dal titolo di questo primo singolo, Non ho stato bene mai. Certo, la crasi da Non ho stato a Nonostato sarebbe comunque un lodevole guizzo inventivo, ma sulla carta il titolo presenta un qualche motivo di disagio, mi sono detto prima di ascoltare, Dio non voglia che anche quello sia lì per necessità e non per scelta.

Sì, questi miei pensieri, riportati col candore fanciullesco di chi sa di non avere niente da nascondere, sono viziati da un qualche pregiudizio di sorta. Pregiudizio dettato, questo sì, da esperienze similari, tipo che se appoggi la mano su una fiamma ti bruci, questo lo sai perché te lo hanno spiegato o perché, magari, un giorno erroneamente ce l’hai passata. Questo ti basta a ricondurre l’appoggiare una mano su una fiamma al dolore, di qualsiasi fiamma si tratti, senza cioè dover star lì ogni volta a rimettere in dubbio le tue certezze. Il fuoco brucia. Una nuova produzione, di uno che si chiama Nonostato e che si intitoli Non ho stato bene mai è, sulla carta, un tassello, poi sarà da capire che tassello, di quell’immenso mosaico monocolore e piatto che porta per titolo, in sintesi, “La musica di oggi è musica demmerda”, inutile appoggiare la mano sulla fiamma, so già che mi brucerà.

Ma in fondo, sono un’anima semplice anche io, amici miei, qualcosa mi attira, come le fiamme azzurre, quelle più vicine alla fonte di calore, che iconograficamente ci sembrano rare, il fuoco è da che mondo è mondo rosso, con striature giallastre, mentre sono comunissime, specie se si guarda ai fornelli di casa, per cui eccomi qui a ascoltare Non ho stato bene mai, di Nonostato featuring Taris.

Esperienza, lo dico subito, che ripeterò per non saprei dire a memoria quante volte, sicuramente più di dieci, come raramente mi capita in musica, e come anche nella vita ha poche similitudini, forse solo certe azioni di Ibrahimovic, il fallo di Roy Keane a Halaand senior, il discorso della Locura in Boris. Perché Non ho stato bene mai, sia scritto in cielo come Fantocci è una merdaccia, è un singolo che sublima il brutto, elevandolo al grado di estrema bellezza come può capitare solo di fronte a certe imperfezioni, che compiono il giro completo arrivando appunto al grado di passare oltre, Ballard ha passato la vita a scrivere di come tutti noi si sia in fondo in fondo, e neanche troppo in fondo in fondo, attratti da ciò che in teoria dovremmo considerate orribile, le cicatrici, la morte, la rovina, la devastazione.

Per questo, anche per questo, non solo per questo, mi sono trovato a perdermi in una traccia di ottima musica trap, che oltretutto è accompagnata da un video, minimale come il genere prevede, ma al tempo stesso con rimandi non a caso alla Venezia dei Dogi, nel look, e a una certa psichedelia che ha i suoi natali a Vipiteno, storia questa che prima o poi meriterebbe di essere raccontata, vero segreto meglio custodito delle nostre eccellenze. Nonostato, non saprei dire quanto volontariamente e quanto coscientemente, compie un mezzo miracolo. Forte di quella che è stata la tradizione del rap negli Stati Uniti, parlo degli esordi, quando degli improvvisati Mcs si trovavano a fare le prime esperienze col microfono aperto mentre dei dj componevano per loro le basi, e forte anche della lezione fatta da Neffa ai tempi della Bologna dell’Isola Posse e dei Messaggeri della Dopa, Nonostato decide che il suo brano doveva estremizzare il discorso dell’inventarsi una lingua nuova, andando così a crearne una ancora inesistenti, per certi versi destinata a non esistere mai. Una lingua che prende la sintassi e la disintegra, accostando tra loro vocaboli atti a non creare nessun senso, a eccezione di un senso melodico e armonico, versi destinati a rimanere nel tempo come “ho rotto un cazzo dentro un vetro di Pamplona”, l’autotune, questo sì una scelta e non una necessità, a confondere ulteriormente l’ascoltatore, irretito su linee melodiche che rimandano al Maghreb, il minimalismo della base a rendere l’ascolto ipnotico, Maghreb che non può riportarci, questo il suo significato filologico lì, alle Marrakech e Tangeri frequentate da William Burroughs nell’età d’oro della Beat Generation, lì dove scrisse parte del Pasto Nudo, poi assemblata da Jack Kerouac, e col compagno Brion Gysin affinerà la tecnica del cut-up. E torniamo quindi a Nonostato e alla sua Non ho stato bene mai, che evidentemente espone una lingua non-lingua proprio oggetto di cut-up, le parole scritte seguendo un senso e poi ricomposte, a caso, provando di trarne un senso altro, lasciando che sia la poesia a seguire il proprio corso. Nel caso di Nonostato, va detto, il senso non arriva, ma anche qui, la sensazione è che questa sia più una scelta che una contingenza, il voler rappresentare un’epoca effimera attraverso una incomunicabilità portata all’esasperazione, la scena del nostro che arranca su un carrello da trasporto, il vestito d’epoca a svolazzare nell’inutile immobilismo come cristallizzazione di una apatia che ormai si è fatta permanente e permeante, dell’uno un tutto.

Sullo sfondo, ma sarebbe argomento troppo ampio da trattare così, en passant, l’omosessualità, evocata da alcuni passaggi, forse ancora troppo criptici, in questo caso trattenuti, vuoi per tener fede alla poetica di Burroughs, o al Burroughs maghrebino, sì omosessuale dichiarato, ma pur sempre dietro quella mano di smalto borghese che è il matrimonio eterosessuale, vuoi perché il mondo della trap, e il brano Non ho stato bene mai è una rara perla proprio in ambito trap, è decisamente poco aperto all’omosessualità, assolutamente non fluido e comunque ancorato dietro un maschilismo non solo di facciata, difficile da abbattere e da scalfire.

Tanta carne al fuoco, in un solo brano, poco più di due minuti di durata, forse anche troppa, al punto che viene da chiedersi quale sarà il prossimo passo di questo astruso artista, la cui identità e biografia restano segrete come i mandanti di Piazza Fontana.

Resta che, lo pensavo già ai tempi in cui Fabri Fibra faceva impattare malamente la propria carriera con quella di Tommaso Paradiso e dei TheGiornalisti, sputtanando in parte anni e anni di arrogante esibizione del proprio status di outsider borderline, mai andare a Pamplona, se non è proprio strettamente necessario, è un attimo che ti ritrovi il cazzo rotto dentro un vetro, qualsiasi cosa voglia dire.