Il Premio Bianca D’Aponte di quest’anno dovrebbe essere patrimonio dell’Umanità, avvisate l’Unesco

Gaetano, Giovanna, Genny, per questa diciassettesima edizione, avete ancora una volta fatto un miracolo


INTERAZIONI: 383

Fossi un cronista, adesso, non avrei per le mani il problema che mi trovo a avere. Non che sia un problema tale da indurmi a rivedere con rimpianto alle mie scelte di vita, o almeno alle mie scelte di vita professionale, intendiamoci, dei fatti per come si succedono, personalmente, mi è sempre interessato poco o niente, men che meno del rincorrere le notizie. Ecco diciamo che già aver messo queste parole una dietro l’altra mi ha sollevato da una parte, probabilmente la minore, di questo problema: non sarà il succedersi degli eventi, quindi l’ordine cronologico in cui gli eventi si sono succeduti la chiave di questo pezzo, già in effetti la scelta era stata inconsciamente operata a monte, non sono partito dall’inizio, non sono proprio partito da un determinato fatto, più dalla condivisione di uno stato d’animo, da una suggestione, io spaesato che non mi raccapezzo su qualcosa che ancora non ho detto, ora un po’ l’ho sublinalmente sveltato, e di qui parto per una meta che non è del tutto chiara, sembrerebbe, neanche a me. Lo spaesamento, mettiamo un po’ più a fuoco questo dettaglio. Non che sia fondamentale, lo chiarisco da subito, ma sicuramente è più rilevante del mio non essere un cronista e del mio disinteressarmi quasi con spavaldo orgoglio, sono un uomo, Barbero sostiene a ragione che posso farlo, la società così mi ha cresciuto, è un canone approvato e ormai quasi consunto. Sono spaesato, al momento. Non in maniera opprimente, nessun peso sul petto, nessun fiato corto, forse spaesato non è neanche la parola giusta, mi viene da dire. Sono confuso e felice, direi volessi omaggiare, così, en passant, la cantantessa Carmen Consoli, da poco fuori con un nuovo lavoro, Volevo fare la rockstar, di cui ahimé mi troverò a non parlare non per mia scelta, ma per volontà di chi ci lavora, che ha bellamente deciso di tenermene all’oscuro, discorso che però inzacchera il tema chiaro e splendente che andrò a affrontare, fate conto che io non ne abbia fatto cenno, e scusate per l’inappropriata deviazione in un vicolo cieco, saturo di cattivi odori, come il retro di certe tavole calde di quelle che si vedono in certi telefilm americani, sono confuso e felice, Carmen o non Carmen, perché ho appena vissuto un’esperienza di una bellezza spiazzante, di qui lo spaemento tirato in ballo, come immagino si sia sentito Stendhal di fronte  all’arte sublime, e perché l’ho vissuta dopo esserne stato privato per un lasso di tempo davvero troppo troppo lungo, due anni precisi precisi, poco meno se vogliamo estendere il concetto di privazione di certa bellezza non alla bellezza specifica di cui andrò a parlare. Uno spaesamento, quindi, che è figlio, la parola figlio, nella sua declinazione femminile è portante in questo discorso, appuntatevela da qualche parte, uno spaesamento, quindi, che è figlio della bellezza incondizionata, certo, della bellezza incondizionata incontrata dopo un tempo da ritenersi a ragione troppo lungo e questa bellezza incondizionata nello specifico, una bellezza incondizionata accerchiata da un magma incandescente di emozioni, di empatia, di sentimenti, talmente tanti e talmente pulsanti da non pretendere neanche una ipotesi di difesa a riguardo, hanno vinto loro in partenza, non ci si può che arrendere e lasciarsi attraversare da loro.

Sono stato confuso, credo, felice, certo, ma ai vostri occhi prevalentemente confuso. Ho, immagino, spero, incontrato in qualche modo il vostro interesse, magari è stato il titolo del pezzo, ancora non l’ho deciso e non è detto che dopo che l’avrò deciso resti poi quello che voi avrete letto, magari il mio nome, siete tra i fortunati che si intrattengono spesso o sporadicamente con le mie parole, potrebbe anche essere il caso, passavate di qui senza un preciso motivo, ma sia come sia avete iniziato a prestare ascolto a quel che stavo dicendo e siete arrivati fino a questo punto, incuriositi dal mi dire e al tempo stesso non dire niente, più quest’ultimo, suggestionati da questo incedere a strappi, certo, ma senza la veemenza dell’estetista che vi strappa i peli con la ceretta, più nel momento caldo in cui ve la passa sulla pelle, volendo gingillarmi con questa immagine che conosco solo in via teorica, come per buona parte di ciò che riguarda il femminile, altra parola da tenere in conto, appuntata di fianco alla parola figlio, sono piccoli indizi seminati qui e là, tutto prima o poi tornerà, fidatevi. Di fatto, vi chiedesse qualcuno di cosa sto parlando, senza tener appunto conto del titolo, per sua natura rivelatore, non lo sapreste dire. Della mia confusione, suppongo. E di una certa mia emozione, non legata direttamente alla confusione, in quanto la prima è generata sì dalla seconda, ma non solo da quella. Sono stato a Aversa, questo è un dato di mera cronaca, che giunge decisamente troppo tardi per essere il punto di partenza di questo viaggio letterale e letterario. Sono stato a Aversa per la diciassettesima edizione del Premio Bianca D’Aponte, siamo più precisi, dove quella prima persona plurale non è tanto sintomi di un egoriferimento già ampiamente introdotto da questo mio tenervi in ostaggio dei miei stati d’animo, quanto piuttosto il tentativo più che canonico, parlo del mio canone, è evidente, e sputtanato di condividere con me quella che in fondo in fondo ritengo una mia mancanza, non sono affatto preciso e un po’ me ne vergogno.

Sono stato a Aversa per la diciassettesima edizione del Premio Bianca D’Aponte e ci sono stato esattamente dopo due anni che ero stato alla quindicesima edizione del Premio Bianca D’Aponte, e fin qui, questo lo potrebbe dire anche un bambino delle elementari, non ci dovrebbe essere nulla di strano. Quindici nel 2019, sedici nel 2020, diciassette nel 2021, è matematica di base. Solo che in questo intervallo di due anni, detta così potrebbe semplicemente passare l’idea che io l’anno scorso non abbia preso parte dalla sedicesima edizione, capita, c’è stata la pandemia da Covid19, il mondo imballato, noi in casa a cantare sui balconi, tutto quel che anche troppo bene sapete, e la sedicesima edizione, quella del 2020, un po’ come gli Europei di calcio e le Olimpiadi, è andata di scena solo pochi mesi fa, in luglio, quando io non ho potuto prendervi parte non per impegni pregressi o per scelta, ma perché diretto per la prima volta dopo quasi un anno verso la mia città natale, a riabbracciare i miei genitori, e la parola genitore, ca va sans dire, è un’altra di quelle da mettere lì, nel post it, reale o metaforico, dove state appuntando, spero, le parole chiave di questo mio scritto. Il che, il mio essere stato con voi per due anni, poco meno, agli arresti domiciliari, letterali e letterari, è parte fondante di questo spaesamento, il tornare di nuovo in mezzo a tanta gente, tanta gente amica, cui voglio fisicamente bene, cui voglio bene anche sotto il profilo intellettuale, quindi cui voglio bene a prescindere dai sentimenti dettati dal vissuto, rende questo ritorno a quella che genericamente viene descritta come normalità sicuramente debordante, come trovarsi di fronte a una tavola imbandita di succulenze dopo un lungo digiuno, ma lo è ancor di più il sapere che questa tavola imbandita di succulenze, cui siamo stati tenuti a distanza per quasi due anni, non è in realtà una tavola di succulenze, ma la tavola di succulenze, qualcosa che meriterebbe di essere accessibile a tutti ma che, per il suo essere eccellenza e periferica, è succulenza ancora per troppo pochi.

Mi fermo. Non ho altra scelta.

Sto usando le parole, che sono i miei ferri del mestiere, i miei strumenti di lavoro, per tirare su una sorta di fortezza. La fortezza della solitudine di Superman, volessi giocare la carta spavalda, barberana, di chi non vuole avere poi troppi confronti col mondo degli umani. Lo sto facendo perché non sono troppo uso a mettere in mostra le mie emozioni, e se e quando lo faccio tendo a farlo in maniera iperbolica. È vero, non sono uso mentire, anche quando non sto raccontando le cose per come sono accadute, non sono un cronista, ricordate, il non saper da dove partire per raccontare la diciassettesima edizione del Premio Bianca D’Aponte, più da un punto di vista dei fatti salienti, la cronaca è già stata fatta da chi sa farla e arriverebbe comunque troppo tardi, è stato il primo ostacolo che ho trovato sul mio cammino di fronte al foglio word ancora bianco. Tante erano le cose che volevo dire, e dopo ottomila e passa battute, che ci crediate o no, ne ho già messe su foglio parecchie, seppur mascherate dentro una sorta di delirio psicotico, e scegliere quelle giuste per partire è stato un problema. Sarei potuto partire dall’inizio, come natura ci ha insegnato a fare. Quindi il viaggio in treno che ha portato me, mia moglie Marina, dettaglio questo da sottolineare con un evidenziatore fosforescente, Pippo Kaballà, Carlo Marrale, Cheope e la sua compagna, Roberto Trinci di Sony Publishing, i fratelli Federico e Gabriele Avogadro, figlio di Oscar, e Francesco Tricarico. Un viaggio lungo, da Milano Centrale a quella cattedrale nel deserto che è la stazione di Napoli Afragola, poi in pulmino fino a Aversa, ci vogliono oltre cinque ore, che ha subito partorito quei tic e quelle modalità tipiche delle gite, la simpatia debordante dei presenti, la consapevolezza di far parte, almeno per queste ore, di un qualcosa di grande e bello, ci ha tenuto in qualche modo protetti da tutto ciò che è stress e bruttezza, fatto non così comune quando ci si muove per lavoro, la presenza di Marina, come della compagna di Cheope, Marta, e al ritorno anche della moglie di Pippo Kaballà, Vincenzina, non è mica casuale, il Premio Bianca D’Aponte oltre che essere un concorso canoro rivolto alle cantautrici e anche una grande festa della musica, durante le due serate è stato ripetuto più volte dai presentatori, Carlotta Scarlatto e Ottaviano Nieddu, ma anche una grande festa di famiglia, perché da una famiglia è partito il tutto, una famiglia, quella di Gaetano e Giovanna D’Aponte, con la loro figlia Bianca, cui il Premio è dedicato, che dalla morte di quest’ultima, una morte decisamente prematura, nessun genitore dovrebbe mai vedere morire i propri figli, da genitori di quattro ragazzi mi sento mancare solo a pensarci, ha deciso di abbracciare col proprio affetto e la propria umanità quel mondo nel quale Bianca si era affacciata e che sarebbe dovuto essere il suo, e anche grazie a questo abbraccio lo è, eccome, quello della musica, del cantautorato e del cantautorato femminile. Sto continuando a nascondermi dietro le parole, lo so, ma non esiste un modo o se esiste io non lo conosco per descrivere che mare di bellezza, che oceano di bellezza che è il Premio Bianca D’Aponte, questa festa della musica e questo grande ritrovo di famiglia che raduna in quel di Aversa appassionati di musica, addetti ai lavori e le cantautrici che al premio concorrono, dieci ogni anno. Men che meno lo so quest’anno, dal momento che il Premio Bianca D’Aponte si pone come un barlume di ritorno a quella normalità che ci è stata negata per due anni, ci è stata negata dal Covid, attenzione, non certo da un qualche regista occulto, come da vulgata complottista, anche se il ritardo con cui è partito il mondo dello spettacolo e della cultura, in Italia, è in effetti un po’ scandaloso. Il Premio Bianca D’Aponte, ci tengo a ripeterlo, sempre che in un continuum di parole che sviano da quella che dovrebbe essere la trama ripetere qualcosa sortisca un qualche effetto, è una anomalia, qualcosa di eccezionale e in quanto eccezionale assolutamente distante dalla normalità. Ma è stato il nostro, il mio e il nostro ritorno alla normalità.

È una anomalia perché, non conosco altre realtà simili, pur operando in questo settore da quasi venticinque anni, il Premio Bianca D’Aponte parte dell’amore di due genitori per la propria figlia e per la musica che era il cuore pulsante della propria figlia, innanzitutto, e da questo amore parte per coinvolgere in una sorta di contagio amorevole e di emozioni tutti quelli che vi prendono parte, sicuramente le cantautrici che, occasione più unica che rara, per qualche giorno sono al centro dell’attenzione, gli ospiti musicali che accorrono qui con una voglia di esserci altrove assolutamente impensabile, gli addetti ai lavori, l’idea buttata lì della gita in treno, non era un dettagli insignificante, il pubblico che accorre al Teatro Cimarosa di Aversa per assistere alle serate. Il Premio Bianca D’Aponte, infatti, non è solo quello che va in scena nelle due serate del concorso, il 22 e 23 ottobre 2021 per quel che riguarda questa diciassettesima edizione, ma è anche tutto quel che succede intorno, i pranzi e le cene conviviali, con gli artisti che stanno a tavola con giornalisti, discografici, promoter giunti da tutta Italia fin qui, con gli ospiti musicali che si intrattengono per tutta la durata, non fanno la propria miracolosa apparizione sul palco salvo poi sparire nel mondo, andando anche a interagire con le cantautrici in gara, esperienza unica nell’esperienza unica. Questo non può poi, per osmosi, che passare sul palco, dove tanta bellezza e umanità trova la sua manifestazione in due serate sempre uniche, non solo perché il cartellone ovviamente è vario, seppur chi capita per la prima volta al Premio Bianca D’Aponte raramente non ritornerà poi su questa scena, una famiglia è una famiglia, ma perché l’alto tasso di bellezza e umanità non può che far scaturire performance uniche, eccellenti, di strabordante bellezza. Lo so, sarei potuto partire da qui, sarei stato più sintetico, più incisivo, avrei focalizzato l’attenzione sulle cantautrici in gara, di cui colpevolmente, penserà qualcuno, non ho ancora fatto il nome, come degli ospiti. Ma questo non è un pezzo sul concorso, né la cronaca di quel che si è succeduto sul palco, a breve ne farò menzione, ovvio, fugace, ma era altro che volevo raccontare. Volevo raccontare come ripartire, perché questa è stata in effetti una ripartenza, e ripartire da qui, come riprendere a giocare a calcio direttamente alla finale dei Mondiali, non parlo certo di pubblico, ma parlo di essenza, di sostanza e anche di forma che si fa sostanza, è stato davvero un immergesi fin sopra la testa dentro un mare tumultuoso di emozioni. Anche in virtù del fatto che il Premio Bianca D’Aponte è il concorso per cantautrici che Gaetano e Giovanna, con la complicità del generosissimo e instancabile Genny Gatto, hanno deciso di regalare al mondo per tenere viva, o meglio, per rendere visibile a più persone possibile l’anima bellissima e pulsante della loro figlia, una cantautrice scomparsa giovanissima, solo ventitré anni, Dio, mi si spezza il cuore solo a pensarci, con un talento già saldamente espresso, le sue canzoni sono lì da ascoltare, prova provata che non è certo l’età anagrafica a determinare la maturità di chi scrive e canta canzoni. Una festa della musica, ripeto, dove il mercato è magari una ambizione, ma non certo il motore né la benzina, e dove l’arte è invece inseguita e accalappiata con sensibilità. Un ritrovo di famiglia, una famiglia allargata, Gaetano, Giovanna e Genny a fare da ospiti, le cantautrici e tutti gli altri a farsi abbracciare da loro, a abbracciarsi a vicenda.

Tutti gli altri che, da quando è morto Fausto Mesolella, colui che per primo, insieme a Oscar Avogadro, credette in Bianca come cantautrice, è a sua volta morto, ne ha preso l’eredità, quel Ferruccio Spinetti, direttore artistico del Premio, che con leggerezza e eleganza segue passo passo tutto quel che accade in questa manifestazione musicale dall’alto tasso artistico. Tutti gli altri che quest’anno hanno visto Chiara Civello, cantautrice dall’espressività multietnica, come madrina, ogni anno infatti una cantautrice già affermata si prende carico di seguire la manifestazione accompagnando il percorso delle giovani colleghe in gara, andando poi a eseguire sul palco un brano di Bianca, nel caso di Chiara Civello Erbe e erbacce. Tutti gli altri che quest’anno sono stati con Chiara e le cantautrici su quel palco, quello del bellissimo Teatro Cimarosa di Aversa, per portare la propria arte, e che arte. Da un Giovanni Truppi che ci ha letteralmente stregato, solo con la sua chitarra e una capacità di raccontare storie che, credo, non abbia al momento eguali in Italia, passando per un Peppino Di Capri che, coi suoi ottantadue anni, ha dimostrato davvero come l’arte non abbia età, la sua Champagne, estemporanea, ha tirato giù gli spalti, passando per Le Cantautrici, il nome dietro il quale si muovono assieme Rossana Casale, Mariella Nava e Grazia Di Michele, le prime due da sempre presenti al Premio, sicuramente anche Grazia resterà ammaliata da tanta bellezza e farà ritorno da queste parti, i due vincitori del Premio Parodi, gemellato col Bianca D’Aponte, gli Still Life, una leggerezza e eleganza in salsa etnica, voce, violino e loop station, che ha richiamato a tutti i Madredeus, un Giuseppe Anastasi, una presenza costante da queste parti, a omaggiare in maniera sentita proprio Fausto Mesolella, con un brano sull’essere artista scritto da quest’ultimo con Stefano Benni, le sonorità brasiliane di Tony Canto, un artista immenso che andrebbe portato porta a porta, tesoro nascosto della nostra discografia, la sensibilità intensa di Kaballà, a mio avviso da troppo tempo lontano da una propria opera, autore conto terzi tra i più importanti del nostro repertorio, un Alessandro Mannarino commosso per aver di nuovo calcato il palco dopo quasi tre anni, la sua canzone teatro espressa ne Il carcerato qualcosa di incredibilmente ammaliante, Carlo Marrale col suo modo incredibile di riportare sul palco le canzoni scritte quando era nei Matia Bazar, un artista gigantesco dotato di una umiltà che a volte mi fa rimpiangere di essere così spavaldo e irritante, Francesco Tricarico, accompagnato da Jennà Romano, stralunato come solo lui sa essere, ma vivido come pochi altri oggi in Italia, infine Cristina Donà, perché se il Premio Bianca D’Aponte è il concorso più importante che ci sia in Italia anche in virtù del suo guardare al mondo delle cantautrici non poteva che esserci la regina delle cantautrici a chiudere la serata finale, con la sua arte inarrivabile, qualcosa che ti prende il cuore e te lo sbuccia nota dopo nota. Tutti gli altri che sono stati gli amici entrati nel nostro cuore col tempo, da Piero Fabrizi a Elisabetta Malantrucco, Daniela Esposito, che mi ha accompagnato anche nella presentazione del mio Cantami Godiva, a Enrico Deregibus, passando appunto per i nostri compagni di viaggio, a volti nuovi incontrati quest’anno, penso a Jaqueline Savio, qui per donare due borse di studio presso il CET a nome della fondazione che dirige a nome suo e del compianto marito Totò Savio, i racconti che ci ha fatto a pranzo, tra aneddoti sugli Squallor e altri riguardanti la carriera incredibile di una delle penne più illuminate della storia della nostra musica leggera li ricorderò a lungo, credo.

Manca ovviamente il fulcro di questo discorso, mi farà notare qualcuno, le cantautrici in gara. Che io stia particolarmente attento a questo mondo, suppongo, non è un segreto o se lo fosse sarebbe un segreto conservato assai male, figuriamoci se mi scordo di parlare delle cantautrici. Solo che, questo il punto, io qui volevo parlare di cosa il Premio Bianca D’Aponte abbia significato a livello di impatto emotivo, tutto quello che tornare a confrontarsi con l’arte e l’intrattenimento abbia comportato, e con l’arte e l’intrattenimento in un contesto così emotivamente esplosivo ancor più. Delle cantautrici del Premio Bianca D’Aponte, più diffusamente, parlerò in seguito, andando a incontrarle, metaforicamente e non. Il Premio l’ha vinto Isotta, cantautrice toscana che ha convinto la giuria capitanata dalla madrina Chiara Civello con il suo brano intitolato Io. Il premio della Critica, invece, cui ho partecipato come giurato, è andato a Miriam Faieta, cantautrice in chiave jazz che ha presentato Lo chiami Dio. Personalmente, lo faccio a Sanremo non vedo perché non dovrei farlo qui, avevo dato il mio voto più alto a Anna e L’Appartamento, in gara con l’incazzosa canzone Provvisoria. Anna e L’Appartamento, lo dico sempre con orgoglio, era stata a Attico Monina nel 2020, quando l’apocalisse era già intorno a noi, a nostra insaputa, riabbracciarla qui è stato a sua volta molto emozionante. Il secondo posto della mia personale classifica lo avevo dato a Olivia XX, artista molto interessante in gara con il suo nuovo singolo Serotonina, giusto a un punto da Isotta, la vincitrice del Premio. Molto interessanti anche Valentina Polinori, in gara con Bosco, Roberta De Gaetano, cantautrice siciliana che ha presentato la sua Bisogni primari, il folk in chiave etnica di Trasi focu, della cantautrice catanese Alessandra Pirrone, quello più giovanile, in odor di indie di Giove, con Gli Indifferenti, e di Vitto, con Fuori sede, credo sentiremo parlare di entrambe tra non molto, e quello più classico di Claudia Salvini con Chiara. Dieci cantautrici di buon livello, come detto in alcuni casi di ottimo livello, che tutti gli addetti ai lavori, parlo dei miei colleghi, Dio mi perdoni, dovrebbero tenere d’occhio, raccontare, promuovere. Come tutti i miei colleghi dovrebbero sgomitare per venire a Aversa al Premio Bianca D’Aponte, certo fatto che renderebbe questa festa di famiglia un po’ meno festa di famiglia, ma aiuterebbe una realtà preziosa e eccellente a diventare patrimonio di tutti, non solo di chi è più attento alla sostanza che allo sbrilluccichio della forma.

Scesi dal treno, ieri, stanchi per non aver praticamente dormito quasi mai, per aver passato ore e ore a parlare, a ridere, a commuoverci (in treno prevalentemente a ridere, Kaballà è una specie di mattatore, miserabile british person che non è altro), con mia moglie Marina abbiamo avuto la sensazione di essere appena usciti da uno di quei gate che si vedono in certi film di fantascienza, che ti ci affacci e ti trovi in un mondo fantastico, pieno di bellezza e amore, arte e sentimento. A accoglierci la calca della stazione centrale di Milano, la gente affannata, la malinconia di salutare amici ritrovati seppur nella speranza di rivederli prestissimo. Poi siamo arrivati a casa, dove abbiamo ritrovato il resto della nostra famiglia e quel gate di è riaperto, di colpo. Gaetano, Giovanna, Genny, avete davvero fatto ancora una volta un miracolo, il Premio Bianca D’Aponte è davvero un patrimonio dell’umanità, qualcuno avvisi l’Unesco