Tragedia sul Ponte di via Stalingrado a Bologna: inscena la laurea, invita i suoi, ma non è una festa, è un addio

Aveva rinunciato a rimettere insieme i pezzi della sua speranza e non credeva più di avere diritto alla comprensione


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La notizia più grande è quella che non c’è, sommersa dal mare di fango di una cronaca da reality, confinata negli anfratti dei fatterelli locali. Se solo potessimo, noi che scriviamo, fermarci a raccontare meglio. Per entrare nei drammi nascosti di chi non fa storia. Per capire e poi coinvolgere. Perchè è tutta vera la vicenda di L. N., ventinove anni, uno dei tanti fuoricorso saliti nella Bologna studentesca e dispersiva per iscriversi a qualche facoltà. Economia e Commercio, in questo caso. Ventinove anni, ma alla fine ce l’aveva fatta, la laurea era lì, pronta da cogliere e lui aveva invitato dall’Abruzzo i familiari, la fidanzata: avete visto, sono arrivato, valgo qualcosa anche io. Anni di storie, bugie sopra bugie, di esami dati pochissimi, di tempo sprecato troppo e sempre quel rimorso, quel senso di vergogna che stava lì, rinchiuso, stordito nei giorni, negli anni di goliardia ordinaria, le bevute con i compagni, la scoperta della città impegnata e magari ipocrita, comunque troppe cose da fare, o forse solo da sognare, e troppa poca forza di darci sotto.
E, alla fine, la resa dei conti arriva. L. N. non ce la faceva più a mentire, a illudere, a sentirsi perduto. Ha inscenato la laurea che non avrebbe mai consegnato ai suoi, li ha invitati su, ma non era una festa, era un addio. Non c’era nessun altro per lui. Niente amici, niente compagni: come poteva invitarli? Un messaggio, già agitato, alla fidanzata, poi un gran silenzio che preoccupa i genitori, poi ancora un messaggio, l’ultimo, rassegnato, definitivo, a un amico: “Sono sul ponte”. Il ponte alto di Stalingrado, buono per buttarsi di sotto. E L. N. infatti spalanca le ali che non ha e il volo all’ingiù si schianta in un tonfo di silenzio. Fine di tutto: della vergogna e di quegli esami che non scattavano, di tutte le giornate chiuse in casa da solo, del non saper confidare il suo segreto patetico, penoso. Fine di tutto quel peso.
L. N. non leggerà scarni resoconti su di sé, sulla fragilità che lo consumava, non ascolterà le cazzate sulla società competitiva, “fallire non è una colpa”. No, non sarà una colpa ma pesa dentro e non c’entra la società spietata, è che ti ci perdi, forse ci nasci, non ce la fai, fallire non è una colpa ma ingannare sì, per anni, telefonata dopo telefonata, “va tutto bene, ho passato un altro esame”. E poi chiudi e c’è quel silenzio che sa di colpa, e di disperazione. Povero ragazzo. Che aveva perso la forza. Che non trovava più un Dio. Che aveva rinunciato a rimettere insieme i pezzi della sua speranza e non credeva più di avere diritto alla comprensione. Non credeva di essere amato. Non gli importava che altri, milioni di altri, fossero come lui. Quando ti spegni, niente più ti importa e il male comune non è un mezzo gaudio, non è una consolazione, è solo la conferma che c’è solo quello. E ci si spegne per insuccesso, per amore, per tradimento o per ingiustizia. Ci si ammazza per tante ragioni, e tutte sono piccole e troppo grandi. Lasciatela stare la società competitiva, se no non avete capito niente. Non salvatevi sempre nell’angolo delle teorie, quelle elucubrazioni da sociologo o da sondaggista, piantatela con la psicanalisi d’accatto, la morte merita più rispetto di questo. Merita identificazione. C’è un ragazzo che a forza di fingersi chi non è, va in frantumi. Allora organizza una festa di laurea che non può avere, chiama la ragazza, chiama la madre e il padre e poi nessun altro. Perché gli altri sanno. Perché gli altri sono andati avanti e lui non vuole più andare avanti, così, solo su una ruota. Li chiama e sa già che non li vedrà. Arriva dove c’è il ponte, e chissà quante volte l’ha percorso quel ponte, quante volte l’ha guardato, chissà se sapeva che sarebbe stata l’ultima cosa che avrebbe visto; che il ponte l’aspettava. Lo scavalca e vola giù e mentre precipita tutti quei massi d’angoscia, di ferite, di fatica non ci sono più, li perde uno ad uno, quando si schianta è leggero come la fine. La fine di tutto.
Adesso, Dio, tocca a te raccoglierlo. Anche se si è ammazzato. Tu sai. Sai che ha già pagato e ti cercava. Tocca a te rimetterlo insieme a farlo sentire amato. Noi non conosciamo il suo volto e neppure il suo nome, è solo una sigla, eppure lo sentiamo così vicino, così umano. E chi si permette di obiettare che, suvvia, non si fa così, non ci si fa fuori per tanto poco, è un gesto vile, è troppo comodo, sappia che andare in pezzi e così facile; che potrebbe toccare anche a lui, e lo saprà troppo tardi. I suicidi più grandi sono quelli più piccoli, non i gesti belli, estremi di chi s’immola a un ideale, una certezza, un’illusione o un ricatto; ma quelli che chiudono una piccola storia straziante, vissuta nel silenzio, consumata nella convinzione di non meritare niente: non amore, non rispetto, non indulgenza. Neppure da se stesso. Tante storie così simili, di finte lauree concluse nel buio. L’ultima a Urbino nel 2018, per quanto se ne sa. Ma è come uno schema, che si ripete di continuo. Se un Dio c’è, sta proprio dentro anime come queste, troppo sfinite per reggere ancora. Sta nelle loro ali tarlate che si aprono per scagliarsi giù. Sta nei pianti dentro un silenzio che li ha mangiati. Dio non sta nei vincenti, ma in chi è sconfitto e un bel giorno pensa che non è male finisca lì. Dio sta dove tutto è finito. Nessun dubbio su questo.