Trattativa Stato-Mafia: la Corte d’Assise di Palermo assolve Mori, Subranni, De Donno e Dell’Utri

La sentenza rappresenta una legnata al movimentismo casinista degli agitatori di agende rosse, i complottisti di marmo, tutta roba che la parte migliore dei Borsellino non ha mai accettato


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Clamoroso per molti, ma non per tutti: la Trattativa, maiuscolo, per antonomasia, Stato – Mafia al tempo delle stragi di Capaci e via d’Amelio, 1992, ci fu ma non costituisce reato. Così la Corte d’Assise di Palermo che ieri ha ribaltato il verdetto di primo grado del Tribunale mandando assolti i generali dei Servizi, Mori, Subranni, De Donno e addirittura assolvendo con formula piena Marcello Dell’Utri (“non ha commesso il fatto”), considerato luogotenente di Berlusconi, cancellando per tutti i 12 anni di carcere già espressi dal Tribunale. Per molti, non per tutti: il Fatto Quotidiano, che su queste faccende ci ha costruito una piccola mitologia ormai al tramonto, esce con la rabbia schiumosa di chi non si rassegna: “Condannati solo i mafiosi”, come a dire: noi ve lo dicevamo, niente di nuovo, i papaveri l’hanno fatta franca, il sistema ha vinto ancora e cosa possiamo farci noi, duri e puri, che la sappiamo lunga e non sbagliamo mai? Il Fatto Quotidiano, nato dall’impulso di questo Travaglio, chissà perché considerato l’erede della “destra liberale” di Montanelli, ricorda Lotta Continua di 50 anni fa e non solo perché ha imbarcato molti di quei rottami, è l’approccio ad essere sempre quello di allora, noi avevamo ragione ad avere torto e voi torto ad avere ragione.
Poi si potrà dire che anche questa è una sentenza orientata, come sempre quando una sentenza non soddisfa le aspettative; si potrà dire che serve a dare una bastonata ai pm duri e puri come Di Matteo, alla magistratura savonarolesca, ormai alle spalle, dei Caselli e degli Ingroia. Di certo è una legnata al movimentismo casinista degli agitatori di agende rosse, i complottisti di marmo, tutta roba che la parte migliore dei Borsellino non ha mai accettato.
Il caso di Dell’Utri è particolare: vecchio, malato, si è sciroppato anni di galera senza remissione, con una severità sconosciuta ad altri, sulla base dei suoi rapporti stretti con lo stalliere mafioso Mangano, e scava scava qualcosa si può sempre trovare; ma di qui a dire che il vero mandante delle stragi epocali degli anni Novanta fu Berlusconi, ce ne corre. Quello che invece si può dire, senza tema di smentita, è che anche il Cavaliere avendo un impero da difendere tra Milano e la Sicilia non andava tanto per il sottile quanto a contatti e a protezioni. Ma chi, alla guida di un sultanato economico, è mai restato immune da certi compromessi scabrosi, pericolosi? Chi, nell’Italia della mafia diffusa, può dirsi completamente estraneo a certe logiche, a certe concessioni? E chiamale trattative, chiamale omertà o come meglio ti suona, sta di fatto che, su un piano più generale, più politico, secondo i giudici la trattativa ci fu ma non in forma di reato, di crimine perseguito.
Cosa diceva lo Stato dei generali e dei Servizi in quel 1992 in cui la mafia lo aveva messo alle corde? Che bisognava pure tentare una mediazione, un confronto con le forme di delinquenza organizzata che rischiavano di prendere il sopravvento e non si fermavano davanti a niente. Operazione che ogni potere, di ogni regime, in ogni tempo, compie in situazioni analoghe. Si cercò dunque di scavare canali, tramite il sindaco mafioso Vito Ciancimino, secondo una strategia vecchia come il mondo: scendere a patti, riorganizzarsi e quindi neutralizzare. “Ma che cos’ è questa storia? Ormai c’è un muro contro muro, da una parte Cosa nostra dall’altra lo Stato? Ma non si può parlare con questa gente?”. Così si rivolgeva il generale Mario Mori al sindaco delle cosche, del sacco di Palermo. “La buttai lì convinto che lui dicesse “cosa vuole da me?”, invece disse “ma sì, si potrebbe, io sono in condizione di farlo”. Allora dissi “Provi”.
Esiste forse un apparato di sicurezza che rinunci a certe dinamiche? Non è forse questo che gli strumenti di controllo di uno Stato sono chiamati a fare? Secondo i giudici d’Assise no, non esiste, non può esistere e non deve esistere, ovvero conta l’intenzione: scendere a patti non per agevolare la distruzione dello Stato ma per tutelarla, finché ancora possibile. Il commissario di polizia più famoso nella storia d’Italia è uno che non c’è, un personaggio di fantasia, il Montalbano di Camilleri: e quasi in ogni romanzo si vede costretto a trafficare con le famiglie dei Cuffaro e dei Sinagra pur di salvare il salvabile, rimanendo personalmente integro. Un po’ meno coerenti quelli che, partendo dalla mafiosità generale, sventolando agende rosse, tacciavano chiunque non gli andasse a genio di mafiosi, salvo trasformare il figlio di Ciancimino in un oracolo santo, la bocca della verità puntualmente ai programmi populisti di Michele Santoro. Poi si sarebbero scoperti gli altarini malavitosi anche di Massimino, ma a quel punto bastò fare finta di niente, lasciarlo al suo destino.
Alla guerra come alla guerra! Sì, ma con un minimo di decenza, santo cielo. Nei giornali forcaioli che considerano tutti colpevoli, tutti mafiosi a prescindere si distinguono quelli che muoiono dalla voglia di trattare coi talebani che mozzano le teste, e trattare significa riconoscerli appieno, conferire loro una legittimità formale perfino in senso democratico, il che è al limite del grottesco. Ma che fa? Per tutta la fase degli anni di piombo, incluso il sequestro Moro, il 90 percento delle anime pure insistette per trattare coi brigatisti e chi era per la linea dura veniva attaccato come irresponsabile e insensibile, gli veniva attribuita la responsabilità della morte del presidente democristiano e per motivi inconfessabili: chi non tratta, si sosteneva, lo fa per coscienza sporca, per coprire torbidi segreti di Stato. Un ragionamento capovolto alla trattativa coi mafiosi, ma anche un ragionamento di fumo, posto che tutti, anche quelli in apparenza più indisponibili, trattavano: trattava la DC coi suoi intermediari, trattava il PCI che i brigatisti li aveva sulla coscienza come figli un poco degeneri, e che mai si era sognato di isolarli nei primi sei, sette anni di scorribande, trattava lo stesso Vaticano con i don Mennini ed altri prelati. Trattò, a suo modo, anche il generale Dalla Chiesa che dopo Moro ebbe finalmente pieni poteri e in quattro mesi fece terra bruciata ai brigatisti.
Non si capisce perché trattare coi terroristi rossi, che l’attacco al cuore dello Stato lo volevano apertamente, fosse morale e trattare coi mafiosi di Riina e Provenzano risultasse infame. Non si capisce su un piano logico ma si comprende benissimo in una prospettiva ideologica: era la solita vecchia storia dei compagni che sbagliavano, ma neanche tanto, e che comunque ammazzavano per troppo amore, per troppa sete di giustizia. Coi buoni si tratta, ci si confronta e, a cose fatte, li si riabilita e magari li si arruola per portare avanti la lotta continua, che non finisce mai.