Che la morte di Jimi Hendrix sia pane per i denti dei teorici è risaputo e affatto nuovo, se pensiamo che dietro le tragiche dipartite delle rockstar si crea sempre l’alone del mistero che ti porta a cercare col lanternino un responsabile, uno qualsiasi, che disgraziatamente si è trovato in compagnia della star nelle sue ultime ore di vita.
Di Jimi Hendrix tutto il mondo sapeva: un genio, un asso in tutte le maniche e nel manico della sua stessa chitarra, un innovatore del distorsore nonché uno dei padri fondatori del rock-blues grazie a quel suo sincretismo acido in cui fondeva la maledizione del rock e il mood dei neri cotti sotto il sole a rivendicare una libertà negata per sempre dal popolo bianco, fintamente dominante. Una parola: psichedelia, colorazioni sonore che ancora oggi attribuiamo a Hendrix, un uomo solo e tanti uomini in un artista, lui che ha dato un senso al concetto di power trio insieme ai Cream di Eric Clapton, e tante altre cose.
Il 18 settembre 1970 Jimi Hendrix si spegne a 27 anni. Ha avuto un conato, è sobbalzato nudo sul letto e così è soffocato. Insieme a lui, in quella stanza del Samarkand Hotel, c’è la sua fidanzata Monika Dannemann. Ha assunto alcol e tranquillanti, così dirà la polizia che afferma che il maestro di Vodoo Child si è spento nella notte. Inutili i soccorsi, ovviamente.
Negli anni avanza la teoria che Michael Jeffery, manager di Jimi, sia il suo assassino. Michael temeva che Jimi l’avrebbe scaricato dopo la fine del contratto, per questo sarebbe andato in quella stanza d’albergo per riempire il suo artista di vino e pillole. Lo scrive James Wright nel suo libro Rock Roadie.
Come fa, Wright, a saperlo? Lo avrebbe detto Michael nel 1971, ubriaco, come un fiume in piena. Per questo c’è chi, pur senza solide basi, parla della morte di Jimi Hendrix scomodando la parola “mistero”.