Se i Ferragnez vengono associati alle logiche di potere, come pensare che la stessa cronaca politica sia diversa?

Poi chiediamoci perché i giornali affondano, e se davvero sia tutta colpa del popolaccio infame che non li sente più come essenziali


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Vendite dei giornali in caduta libera, ogni rilevazione un bollettino di guerra, cali del nove, dieci percento e la sensazione di una resa, una deriva che nessuno sa né vuole più arginare. Salvo procedere a licenziamenti, ridimensionamenti, chiusure di sedi locali o estere, insomma la ristrutturazione cara al capitale finanziario. Il che, per inciso, non sembra dispiacere al potere, che nell’epoca della democrazia formale, sloganistica tollera con sempre maggiore fastidio la presenza di una informazione critica, del suo ruolo di pungolo. Editori, sindacati, Ordine non parlano se non per lamentarsi, quasi fosse colpa esclusiva dei lettori, del loro abbandono. Ma la rinuncia a consumare i giornali è una causa o un effetto? Siamo sinceri, che credibilità hanno le istituzioni della stampa quando giocano al vittimismo, quando recriminano senza mai assumersi le responsabilità che loro competono, prima fra tutte quella del tradimento dei chierici? Davvero sono i lettori i responsabili di un crollo del mercato delle notizie che data da almeno trent’anni?
Fu alla fine degli anni Ottanta quando Giorgio Bocca, in modo lucido, ne “Il padrone in redazione” e poi nei libri che sarebbero seguiti, individuò una causa principale fra le tante: il ruolo della pubblicità, da ancella a despota del prodotto-giornale, i direttori della réclame che di colpo assumevano più peso di quelli veri, editoriali e responsabili. Sempre Bocca ebbe gioco facile nell’ipotizzare un ruolo devastante da internet. Ma questa è già storia se non preistoria. Ad influire, al di là degli equilibri perversi, ormai acquisiti, si direbbe un calo vertiginoso della qualità dei giornali e di chi ci scrive: gente uscita in batteria dagli allevamenti delle scuole specializzate, dove si impara poco il mestiere che conta e molto l’arte dell’arrangiarsi, del sapere dove tira il vento. Con la conseguenza di articoli tediosi, sciatti, infarciti di dati, di cifre da manipolare a piacimento, ma assai poco leggibili, per niente incisivi o godibili. Di inchieste quasi più, ci si salva con le interviste incrociate ma nessuno in grado di rappresentare un contesto, una situazione, un mondo al di là degli schemi prestabiliti, di ossequio a chi comanda.
Perché mai un lettore dovrebbe perdere tempo e soldi ad annoiarsi? Ed è così in modo trasversale, su tutte le testate, che difatti patiscono in modo quasi uniforme l’emorragia di lettori. L’arte di raccontare, la cronaca come interpretazione è andata, sparita per sempre, sostituita da malloppi compiacenti o stupidamente omicidi, volti a distruggere reputazioni per conto del padrone. L’autonomia del giudizio e in particolare dalla politica è completamente sparita, oggi lo capisci subito, fin dall’attacco, dove un giornalista va a parare e su mandato di chi. Col risultato che i giornali grossi, Corriere, Repubblica, arrivano a vendere sì e no centoventi, centocinquantamila copie al giorno, ma si tratta di cifre a loro volta fasulle, gonfiate con numerosi artifizi. Altri arrancano sulle ventimila, anche se millantano un peso che non hanno.
Non c’è più distinzione tra pubblicità e informazione, la prima ha definitivamente assorbito la seconda, le gesta dei Ferragnez, due influencer, tengono banco, invadono la politica di regime, una biondina neanche tanto avvenente può presentarsi in mutande e ciabatte ed è la notizia del giorno, sopra le crisi umanitarie e le pandemie. Vai a controllare e la stessa marchetta la ritrovi, trasversalmente, su tutte le testate, su tutti i siti internet, da quelli di gossip a quelli finanziari, a volte addirittura con le medesime parole: sono elaborati dall’ufficio stampa e passati alle redazioni, tenute a riprodurli in religioso dettato. Ma se i Ferragnez vengono associati alle logiche di potere, come pensare che la stessa cronaca politica sia diversa e così quella della cultura, dello sport, degli stessi fatti economici? Chi gradisce le spiegazioni facili, fideistiche dice: il Covid ha peggiorato le cose. Ma non si capisce come uno stato di emergenza, che spingerebbe la gente a informarsi, che la costringe chiusa in casa per mesi e dunque senza alternative al rito del giornale, possa influire negativamente sul consumo delle notizie anziché il contrario.
Altre situazioni sono strutturali, scabrose e non a caso l’informazione che fagocita se stessa si guarda bene dall’affrontarle. Oltre il 70 percento di chi scrive oggi lo fa per compensi infimi o addirittura gratis: come può sentirsi motivato o semplicemente autonomo, con quale forza d’animo un cronista, precario o abusivo, potrebbe difendere una sua integrità se sta alla fame? Quando chi scrive era ancora iscritto all’Ordine, nell’unica sua partecipazione a una assemblea in 26 anni di mestiere ebbe una litigata furibonda col neopresidente e chi gli reggeva bordone. Fu incredibile sentire chiedere a schiavi da 3 euro al pezzo nuovi sacrifici economici, addirittura di contribuire alle spese per le borse di studio e perfino, in modo surreale, per poter mandare le lettere di diffida, le multe per chi non frequentasse i cosiddetti corsi di formazione. Formazione che si risolve più che altro in indottrinamento sull’Europa, sui migranti, sul politicamente corretto, sull’intera agenda globalista la cui ortodossia in Italia è assicurata da determinati partiti nel totale disinteresse di altri. Le mie critiche sullo sfruttamento e sull’abusivismo non furono gradite, arrivarono inevitabili rappresaglie e decisi di cancellarmi dall’Ordine. Cosa che avrei dovuto fare molti anni prima, visto che l’Ordine non tutela in alcun modo quelli nelle mie condizioni e, d’altra parte, pretende alcuni costi fissi del tutto ingiustificati. Ogni tanto si legge un trafiletto che spiega come i sottoprecari, al termine di una vita da rider dell’informazione, non avranno diritto neppure a una pensione da fame. Dall’altra parte, il mercato dei guitti e dei pagliacci che partono dallo scrivere, malamente, per arrivare ai varietà, all’irrealtà patinata del gossip e dei reality, a un benessere affaristico che la mediocrità professionale non può giustificare. Ma il giornalista come tale non esiste quasi più, c’è una figura diversa, a metà fra il personaggio trash e il collettore di poteri diversi. Chi non parla delle sue depravazioni o non si distingue per qualche procedimento giudiziario, per amicizie illustri per quanto famigerate è fuori, non appetibile, non accolto dalle ribalte televisive dove si entra solo in funzione di rappresentanti di questo o quel partito; vale per i “giornalisti”, per i “virologi”, per i giornalisti-virologi, per tutte le figure ibride che un bel giorno, a carriera finita o saltata, si riciclano come informatori o opinionisti o editorialisti: il modo più facile per restare nel business, a fronte di un prato basso e bassissimo di schiavi pagati 3 euro a giornata, quando va bene e a tre, quattrocento giorni, gente che il business lo vede passare e magari deve pure raccontarlo, in toni agiografici.
Poi chiediamoci perché i giornali affondano, e se davvero sia tutta colpa del popolaccio infame che non li sente più come essenziali, come “preghiera laica del mattino”.