Presentato Fuori Concorso a Venezia 78, disponibile anche in streaming nella Sala web di Biennale Channel su MYmovies prima della sua uscita in sala il 14 ottobre, Ariaferma è il terzo lungometraggio di finzione del bravissimo Leonardo Di Costanzo, con una lunga formazione da documentarista.
Scritto dallo stesso Di Costanzo insieme a Bruno Oliviero e Valia Santella, il racconto è ambientato in una zona imprecisata del paese, in un carcere malmesso e sul punto di essere dismesso. L’ormai programmata chiusura viene sospesa per ragioni burocratiche. Così nella struttura restano 12 carcerati sorvegliati da un piccolo gruppo di agenti, nell’attesa che, entro pochissimi giorni, arrivi il preannunciato sgombero definitivo. Ciò provoca, se non un mutamento dell’usuale divisione tra prigionieri e secondini, un progressivo mutare della loro relazione, a partire dalle due figure a loro modo apicali, da un lato l’ispettore Gaetano Gargiulo (Toni Servillo), chiamato suo malgrado a dirigere la prigione, dall’altro il detenuto Carmine La Gioia (Silvio Orlando), che si intuisce essere un boss, il quale gode nel microcosmo carcerario di un intoccabile prestigio.
Ai prigionieri si aggiunge il giovane Fantaccini (Pietro Giuliano), piccolo scippatore catturato dopo aver commesso un crimine più grande di lui, per il quale rischia una pena consistente. Sia Gargiulo che La Gioia, pur mantenendo quella durezza esteriore che è la facciata in quell’ambiente obbligatoria per non essere sopraffatti, mostrano verso il ragazzo smarrito e impaurito qualche forma di umana pietà. E questo, impercettibilmente, assottiglia la distanza istituzionale tra i due, e tra il mondo dei carcerieri e dei carcerati.
Con Ariaferma Leonardo Di Costanzo ritorna, in una forma sempre scabra e rigorosa, e con mezzi produttivi più ampi, ai temi del suo cinema che, in particolare nel lungometraggio d’esordio, il notevole L’Intervallo, aveva raccontato l’incontro tra due individui agli antipodi obbligati dalla vicinanza in un universo concentrazionario (in quel caso un ospedale psichiatrico abbandonato) ad avvicinarsi e confrontarsi, scoprendo ciò che li accomuna.
Accade la stessa cosa in Ariaferma, nella dimensione sospesa di un luogo lontano da tutto e da tutti, una prigione materiale e metaforica che porta impressa nelle sue pareti consunte i segni di una decadenza inesorabile (che la fotografia di Luca Bigazzi rende con l’usuale nitidezza nei suoi chiaroscuri). È uno spazio scandito da divisioni fisiche vistose, celle sbarre cancelli, disciplinato da regole altrettanto ferree, in cui gli agenti sottopongono a uno sguardo inevitabilmente panottico i prigionieri, concentrati in un’ala dell’edificio dalla forma circolare che consente di controllarli tutti contemporaneamente. La rigidità normativa conosce ulteriori divisioni anche tra i detenuti – con Arzano (Nicola Sechi), vecchio ormai pazzo, o che finge di essere tale, isolato dagli altri perché infanticida.
Eppure, dentro questa cornice di separazioni e gerarchie invalicabili, il senso di umanità può manifestarsi improvviso, dietro modi che restano impenetrabili e circospetti, come improvvisa è la bellezza del paesaggio oltre le mura del carcere, solo a prima vista severo e inospitale. Ariaferma procede per spostamenti millimetrici e faticosi, che seguono il filo delle negoziazioni sfiancanti tra carcerieri e carcerati, come quella per consentire a La Gioia di rimettere in funzione la cucina della prigione e fare lui da cuoco per gli ospiti della struttura, agenti e prigionieri.
Uno degli elementi più affascinanti del film è che il progressivo avvicinamento tra gli esseri umani segue non la linea delle parole e degli atteggiamenti esteriori, ma quella degli atti, dei gesti compiuti. Che appartengono al dettato indicato dalle opere di misericordia corporali e spirituali: dar da mangiare agli affamati, dar da bere agli assetati, vestire gli ignudi, visitare gli infermi (Fantaccini che ripulisce e riveste Arzano dopo che questi si è sporcato con i suoi escrementi), consolare gli afflitti e, ovviamente, visitare i carcerati (il gesto cui siamo invitati noi spettatori). E c’è davvero un’ispirazione sacra alla base del film, dimostrata dalla bella colonna sonora curata da un musicologo avvertito come Pasquale Scialò, esplicitamente liturgica. E anche dal fatto che il momento di massimo avvicinamento tra i due universi avvenga intorno a una improvvisata tavolata comune – al buio del black out, altra metafora –, in cui secondini e detenuti condividono cibo e, naturalmente, vino.
Ariaferma ha il merito di affrontare un tema normalmente tenuto ben celato al nostro sguardo, e lo fa senza gli effettismi e le esasperazioni del filone del genere carcerario – anche il secondino dalla vena più autoritaria (Fabrizio Ferracane), non indulge mai in violenze inutili. Servillo e Orlando interpretano con misura lo spartito di Di Costanzo, con un’asciuttezza senza sentimentalismi, che evita qualunque fronzolo e psicologismo. Gli unici limiti del film sono in una lentezza espositiva un po’ compiaciuta. E soprattutto in una certa indeterminatezza narrativa, col condivisibile assunto di partenza umanista che non riesce a sfociare in un finale vero e proprio. Col che il film resta nella dimensione sospesa e preliminare dell’allusione, incapace di trarre le conclusioni dalle sue premesse e di rischiare la forza dell’apologo.