Halsey incontra Trent Reznor e diventa una rockstar

Una delle migliori artiste pop contemporanee, Halsey, con una poetica molto precisa, disturbata, fragile ma al tempo stesso ferrea, conturbante come l’arte dovrebbe sempre essere

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Ci sono incontri che in genere uno si limita a immaginare. Quei “vorrei” che quasi sempre restano inevasi. Desiderata, li chiamano, ricorrendo a ragione al latino. Avete presente tutti di cosa parlo, quei “pensa come sarebbe bello se ci fosse quella collaborazione”, “immagina quel duetto”, “quei due insieme sarebbe un sogno”. Poi, raramente, quello che ci eravamo prodigati a immaginare si realizza, e spesso dobbiamo constatare che la somma di due grandi talenti quasi mai porta a un risultato adeguato, seppur a volte la realtà riesce a superare la fantasia. In epoca di featuring in catena di montaggio come quella che stiamo vivendo, deriva assai ridicola figlia della cultura rap, che nella collaborazione ha sempre visto un valore aggiunto, troppo spesso ci è capitato di vedere accozzaglie improbabili, a tratti anche imbarazzanti.

Anche per questo il sognare collaborazioni improbabili è quasi una attività necessaria, qualcosa che ci disintossica, ci purifica, ci lascia respirare a pieni polmoni, ma metafora risulta più contemporanea.

Ricordo che tanti anni fa, quando scrivere cominciava a essere davvero il mio mestiere e scrivere di musica si affacciava all’uscio come qualcosa in più di una mera ipotesi, ho avuto l’ardire di creare una connessione. Così, senza starci a pensare troppo, più che altro spinto da quella giovanile forma di entusiasmo per cui tutto è lecito, scontato, normale. Scrivevo ai tempi per Panorama, magazine di punta del Gruppo Mondadori, firma alle prime armi delle pagine di cultura e spettacolo. Già il fatto che mi prendessero sul serio mi sembrava quasi assurdo, vittima di una sorta di sindrome dell’Impostore che tutt’oggi a volte torna su, come un rigurgito, figuriamoci mettere la mia penna, metaforica, sono vecchio ma non così vecchio da aver mai scritto articoli a penna, al servizio di artisti che stimavo. Vado al dunque, stavo giusto traducendo il romanzo Soffocare di Chuck Palahniuk, traduzione portava rocambolescamente avanti in compagnia di Giovanna Capogrossi, quando mi viene in mente di proporre al caporedattore una doppia intervista: da una parte l’autore di Fight Club, di lì a poco al cinema per la regia di David Fincher e l’interpretazione di Ed Norton e Brad Pitt, dall’altra Trent Reznor dei Nine Inch Nails, band noise di grande valore, da poco sul mercato col nuovo lavoro The Fragile. L’idea mi era arrivata proprio dall’imminente visita in Italia di Trent Reznor, la band live all’Alcatraz di Milano, lui disponibile per interviste. Nonostante io stessi traducendo Palahniuk non lo conoscevo, e non essendoci ancora i social per intervistarlo fui costretto  a ricorrere all’ufficio stampa della casa editrice, finendo per fare una mesta intervista scritta, via mail. Trent invece lo incontrai, in un noto albergo del capoluogo lombardo che spesso è stato location per situazioni del genere. Un personaggio inquietante, con uno sguardo gelido, da serial killer. Un personaggio degno della sua musica, che trovo disturbante e sublime. Durante l’intervista, seppur non fosse mia intenzione svelare l’idea della doppia intervista, tirai cautamente fuori la notizia che stessi traducendo il nuovo romanzo dello scrittore di Portland, e a quel punto lo sguardo fino a quel momento torvo di Trent si illuminò, aprendosi a un sorriso, confesso, altrettanto agghiacciante. Venne così fuori che da tempo stava pensando di contattarlo per provare a fare qualcosa insieme, senza specificare esattamente cosa. Immagino smembrare animali in un bosco e poi seppellirli in giardino, o qualcosa del genere. Neanche il tempo di incamerare l’informazione che mi arrivarono le risposte di Chuck, il quale a precisa domanda, “con che artista musicale ti piacerebbe collaborare”, una domanda da principiante, di quelle che nei fatti farebbero innervosire chiunque, alla quale, miracolo, Chuck rispose in maniera ferma “Trent Rerznor”. Di più. Mi disse che era solito scrivere i suoi romanzi usando come colonna sonora i Nine Inch Nails, e che prima o poi gli sarebbe piaciuto conoscerlo e magari fare qualcosa con lui. Di  lì a qualche mese, in effetti, i due si incontrarono, a lungo ho cullato l’idea che fossi stato io a influire sugli eventi, e in seguito, molto in seguito, avrebbero lavorato a un musical brodwayano ispirato a Fight Club. Come siano andate realmente le cose non lo saprò mai, credo, a meno che in seguito non mi capiti nuovamente di incontrare uno dei due, di fatto quella che era una proposta da parte di un collaboratore esterno si è dimostra assai azzeccata, una connessione perfettamente riuscita, dal mio punto di vista qualcosa che avevo immaginato e mi ero spinto a scrivere che si era poi realizzata.

Ora, volessi ora suggerire che anche nel caso che sto per raccontare ho qualche merito, portando a supporto un mio qualche scritto, dovrei assolutamente far conto su due aspetti che, in effetti, sono altrettanto figli di questi tempi: una certa frammentazione della memoria, coadiuvata da un tempo di attenzione cortissimo, tempo che provo a forzare neanche fossi sul Tardis, ottimo nascondiglio per i millantatori, e anche un overdrive di informazioni, della serie che in questo oceano sconfinato è pur vero che non tutto quello che è stato pubblicato sia in effetti di facile reperimento. Nei fatti non ho mai scritto nulla a riguardo e confesso che neanche ci avevo pensato fino al momento in cui poi non mi è arrivata la notizia tra le mani, momento nel quale, colpendomi la fronte col palmo della mano aperta, ho esclamato a gran voce: “cavoli, ma era ovvio”. Non ne ho mai scritto, ma quello di cui sto per parlare, e di cui, in fondo, vi sto già parlando da qualche minuto, è l’incontro tra due artisti che stimo moltissimo, tra quanti stimo di più tra i contemporanei e nei rispettivi mondi di appartenenza. Perché sì, questo è, almeno in partenza, l’incontro tra due artisti che provengono da mondi distanti, apparentemente incompatibili, consapevoli, loro e anche noi, che da oggi in poi le cose non staranno più in questi termini.

Faccio una breve sosta pipì, cioè fermo la narrazione, giusto il tempo di farsi un caffè, sgranchirsi le gambe e svuotare la vescica, pronti poi a ripartire per la parte finale del viaggio, parte finale che, come quando si va in montagna, è ovviamente quella più panoramica e meno noiosa, credo. I titoli mi hanno sempre fregato. Io costruisco i miei racconti, i miei pezzi, chiamateli come volete, provando a ritardare in continuazione il momento in cui devo svelare di cosa in effetti io stia parlando. Divago, devio, gigioneggio, per poi arrivare al nocciolo della questione nelle ultime righe, come a dimostrare che in realtà era sin da subito che mi stavo occupando del tema del giorno e che nella vita tutto è davvero relativo. Solo che il titolo spesso dichiara in maniera precisa di cosa andrò a parlare, che è un po’ come se I soliti sospetti si intitolasse Kaiser Sose è Kevin Spacey, e più bello specifico il titolo di oggi non solo svela il nome dei due personaggi che hanno collaborato, ma specifica chiaramente pure che Halsey, colei che nel duo in questione appartiene all’ambito pop, è traslata dalle parti di Trent, magari non proprio nel noise, ma sicuramente nel rock. Del resto senza titolo non ci sarebbe scritto, e già sto abbondantemente forzando la mano alla redazione, scrivendo pezzi lunghissimi che non tengono minimamente conto delle regole SEO che governano il web, chiedere di scansare anche questo ostacolo, per me, sarebbe davvero troppo. È ora di risalire in auto, si riparte.

È uscito in questi giorni il quarto, attesissimo, almeno da me e qualche altro milione di persone, album di Halsey, I can’t Have Love, I Want Power. Album che tradirebbe già dal titolo, per non dire della copertina, un innato spirito femminista, ma che nei fatti è invece un inno a uno stato di grazia di Halsey e Halsey soltanto. Nella copertina, tanto per non lasciare nessuno indietro, Halsey interpreta una sorta di Madonna, inteso come Maria Vergine madre di Gesù, laica, forse dovrei dire pagana, un trono e una corona d’oro, un vestito sontuoso, un neonato in braccio e un seno spudoratamente scoperto a far bella mostra di sé (proditoriamente nascosto sui social e più in generale in rete).

Del resto, la vita finisce sempre per entrare nelle opere degli artisti che lavorano in assenza di filtri, e Halsey è decisamente di questa genia, proprio a luglio la nostra ha dato alla luce Ender Ridley Aydin, il figlio avuto con lo sceneggiatore turco Alev Aydin. Il nuovo album, quarto dopo il gigantesco esordio di Badlands, anno del Signore 2015, Hopeless Fountain Kingdom, del 2017 e Maniac del 2020, è prodotto da Trent Reznor in coppia con il suo socio storico Atticus Ross, il tutto proprio a ridosso di una nuova collaborazione con David Fincher, il regista di Fight Club col quale i due già in passato hanno avuto modo di lavorare, prima scrivendo la colonna sonora di The Social Network, poi di Gone Girl, infine di Mank.

Una delle migliori artiste pop contemporanee, con una poetica molto precisa, disturbata, fragile ma al tempo stesso ferrea, conturbante come l’arte dovrebbe sempre essere, una specie di forza erotica lì sotto traccia anche nel momento in cui apparentemente non è sul desiderio che sta facendo leva, questo è un lavoro che parte da una gravidanza e da lì si muove su terreni astratti, eterei, e uno degli artisti e produttori più geniali tra quanti operano ai tempi nostri, la capacità di passare dal suono industrial e noise dei Nine Inch Nails a scrivere musica per film lontanissimi tra loro, Reznor con Ross ha scritto sia Mank, certo, che Soul, film della Pixar che proprio sulla musica, nello specifico la musica jazz, ha costruito la sua favolistica trama, si incontrano e quel che ne esce è un gioiello senza pari, un capolavoro che, a differenza di buona parte delle opere che con questo termine vengono presentate, capolavoro è davvero, una sorta di pugno sui denti ricevuto da chi guarda al dolore subito con piacere, i masochisti mica me li sono inventati io.

Tredici tracce che pascolano amabilmente, si fa per dire, più dalle parti delle ballad che da quella dei pezzi tirati, giusto un paio di tracce schizzate e schizofreniche, del tutto anarchiche e nineinchiane, in una sequenza perfetta di tenebrose canzoni lancinanti.

Una voce, quella di Halsey, che trova nei suoni millimetrici e abbondantemente capaci di circolare, stavolta i due hanno giocato a togliere più che a accumulare, una alchimia che sulla carta non avremmo mai pensato possibile.

Non che Halsey, ripeto, una delle migliori cantautrici in circolazione da qualche anno a questa parte, madre putativa, forse vista la giovanissima età, ventisei anni, dovrei dire la sola e unica sorella maggiore di Billie Eilish, assai più della troppe volte invano citata Lorde, non avesse già abbondantemente dimostrato il suo reale valore, tutti i suoi lavori sono perfetti, capaci di metterti a disagio con leggerezza, abbracciarti mentre provano a soffocarti, un bacio dato con troppa passione, letteralmente da togliere il fiato, ma stavolta il risultato è davvero sorprendente, come se di colpo fosse arrivato un suggello, una cristallizzazione, il colpo di martello finale che sancisce che una statua è finalmente terminata. Un lavoro, questo, che sorprendentemente non gioca apertamente sull’autobiografismo, lei che fin qui ci ha raccontato nei minimi dettagli ogni passaggio del suo crescere e del suo essere, anche laddove sembrava voler parlare d’altro, penso alla shakespeariana riproposizione della storia di Romeo e Giulietta intrapresa con Hopeless Fountain Kingdom è di lei che parlava, per non dire di Maniac, una vera e propria confessione a voce alta, sulla falsa riga di Amanda Palmer e del suo There Will Be No Intermission, entrambi incentrati su aborti, più o meno spontanei, lasciando quindi la maternità quasi fuori dalla porta, e provando invece a mettere in scena il grande classico dei classici, la dicotomia Madonna-puttana, ben indicato nella copertina cui si faceva cenno prima, attualizzazione pop del Dittico di Melun attribuito a Jean Fouquet. Un disco pensato e realizzato come qualcosa da fare prima che la vita, appunto, cambi per sempre, i recenti scatti in cui allatta sul set, una tutina leopardata a coprire quel che c’è da coprire, il corredo del post “Benvenuti nella giungla” a accompagnare l’immagine dice tutto, un disco concepito e realizzato durante una gestazione, con la consapevolezza di essere donna, certo, ma senza per questo voler calcare la mano sull’attualissimo girl enpowerment.

Un album importante, questo, e certamente non solo per Halsey, qualcosa di consistente in un tempo friabile, evanescente. Non a caso a collaborare, oltre che Reznor e Ross, vediamo anche Lidnsey Buckingham, uno dei più talentuosi chitarristi del rock tutto, e Dave Grohl, come a voler certificare quel passaggio dal pop al rock, oltre che Kevin Martin, contatto tra l’electropop halseyano e l’industrial dei NIN.

Nel momento in cui, quindi, Halsey, se possibile rallenta, incupendo, o rendendo più spigolosi i suoi suoni, ecco che arriva l’album più rock della sua produzione, perché il rock è tutta una faccenda di attitudine, non basta mica suonare chitarre e basso per farlo, album che certifica il valore di una artista ancora giovane ma già capace di maturare in pubblico, e che così tanto ci lascia ben sperare per gli anni a venire.