David Brent o l’arte di metterci a disagio di Ricky Gervais

Un film che attraverso una maschera quasi surreale in realtà è molto più vero di quanto lasci prevedere, che mi ha ricordato gli attacchi di un "sedicente" collega di Madame


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Ho visto un film che mi ha messo molto a disagio. Un film, credo di poter dire con ragionevole certezza, che puntava esattamente a questo, mettere a disagio lo spettatore. Un film che ruota intorno della musica, di qui il mio vederlo, casualmente, su Netflix, e più nello specifico racconta un disastroso tour di tale David Brent, divenuto celebre in una docufiction ambientata in una azienda cartiera, la Wernham Hogg,  dal titolo The Office, docufiction finita non esattamente in maniera edificante, e che a un certo punto della sua vita, rientrato nell’anonimato, diciamo intorno ai cinquanta, decide di mollare tutto per provare a riacchiappare una certa notorietà attraverso il rock.

Il tutto è raccontato direttamente in camera, come fosse un documentario, quindi c’è il protagonista che parla con noi, e poi ci sono i suoi colleghi, quelli che molla in una scena imbarazzante, con nessuno che lo saluta, che lo festeggia, che gli fa in bocca al lupo, i musicisti e i roadies assoldati per il tour, insomma, i comprimari. Tecnicamente, quindi, un mockumentary, un finto documentario, alla maniera di This is Spinal Tap o Blair Witch Project. Protagonista è un gigantesco Ricky Gervais, autoproclamatosi rockstar alla guida dei Foregone Conclusion, band al suo servizio impegnata in un tour in locali semideserti, in una provincia impietosa. Ricky Gervais, uno che a mettere a disagio chi lo segue ci è abituato, credo ne abbia proprio fatto una sorta di specialità olimpica, strepitoso nel dare corpo e voce al prototipo di uno sfigato che si autoconvince costantemente di essere a un passo dal veder riconosciuto da tutti un talento che in realtà non ha neanche lontanamente. Non a caso del film Gervais è anche autore e regista. Per la cronaca, ma non era di questo che volevo parlare, The Office è davvero una serie Tv, che ha per protagonista David Brent, ma ovviamente non è una docufiction, quanto appunto un mockumentary, una finta docufiction sempre interpretata, ideata e diretta da Ricky Gervais, quindici anni dopo nuovamente nei panni del suo fortunato personaggio.

Ora, che Ricky Gervais sia geniale non sono certo io a doverlo certificare, e che il politicamente scorretto sia una sua cifra riconoscibile pure, uno che si mangia la camera,  il David Brent che si sottopone a ogni scena a situazioni umilianti, imbarazzanti, al limite del patologico, è mostruoso nel fotografare la mediocrità di un bambino mai cresciuto e assolutamente incapace di capire il limite da non superare. Canzoni dedicate a portatori di handicap, ai nativi americani, brani che vorrebbero inneggiare a un antirazzismo peloso ma che nei fatti sottolineano in ogni strofa quanto David Brent sia profondamente in linea con il comune sentire di chi dice “non ho niente contro i gay, ma”, “anche io ho un amico di colore” e via discorrendo. Qualcosa che potrebbe ricordare il Checco Zalone de Gli uominisessuali, non fosse incredibilmente più crudele e cerebrale. Vederlo che paga i suoi turnisti per rimanere a bere una birra con lui dopo il concerto, o chiede all’unico che in qualche modo gli è un minimo affezionato, il giovane rapper che a tratti divide il palco con lui, di nascondere il fatto che l’unica donna che ha condiviso con lui la camera, per altro dormendo e svuotando il frigo, è nei fatti una anziana obesa e sciatta, mette un disagio incredibile addosso, ma mai quanto vederlo o ascoltarlo mentre calca il palco, con le sue movenze affettate, i suoi capelli tirati all’indietro, le facce buffe fatte mentre si incarta con le parole tra una canzone e l’altra.

Un film quasi struggente, nel suo incedere dritto nel baratro, il finale che lascia intendere un lieto fine che ovviamente, spolier, arriverà.

Un film che attraverso una maschera quasi surreale in realtà è molto più vero di quanto lo schema a tratti prevedibile del mockumentary, quindi il canone di un finto documentario che come finto documentario si muove, non lasci in teoria prevedere. L’umanità che Gervais riesce a far trapelare attraverso le ferite che l’anima di David Brent prova a nascondere col suo fare da cazzone è commovente, in fondo il disagio di cui parlavo è proprio quello di ritrovarsi a empatizzare con un essere in fondo abbastanza miserevole, ignorante, razzista, sessista, una sorta di coacervo di tutte le storture sociali che ci possano venire in mente. David Brent, Life on the Road è un gran bel film, che prova a dirci che a volte si deve provare a coronare i propri sogni, anche a costo di mettersi in ridicolo, di farsi male, di umiliarsi davanti a chi abbiamo di fronte. Certo, David Brent, Life on the Road è un film, e il lieto fine cui facevo riferimento è appunto scritto da un autore, il destino spesso è assai meno buono, anche meno buono di un autore feroce come Ricky Gervais, e una delle lezioni di questo film, a voler essere cinici, dovrebbe poter essere che in assenza di talento a volte è meglio lasciar perdere i sogni e concentrarsi su quello che ci capita a tiro, fosse anche un semplice lavoro d’ufficio in una azienda nella quale stiamo sul culo a tutti.

Per dire, tempo fa, per l’articolo scritto sul famoso Tweet di Madame, molti si sono sentiti in diritto di attaccarmi, volendo ovviamente attaccare anche lei. Tra questi, oltre a molti passanti, insultare chiunque sui social è lo sport del momento, anche alcuni “sedicenti” colleghi di Madame. Tra questi un tale che è arrivato dicendo che scrivo come un buzzurro e che magari mentre scrivo assumo delle pose, non credo serva farne il nome, non lo conoscete e non vorrei lo conosceste direttamente per essere uno che si pone come gradasso sui social. Siccome concedo sempre l’onore delle armi a chi mi insulta incartandosi, nello spiegarmi la vita, si è anche lasciato andare a indicazioni precise su come dovrei usare i social e altre amenità, sempre dimostrando una spocchia che signora mia, sono andato a vedere, la foto con maglione a righe orizzontali a righe lasciava intendere avesse un qualche ruolo indie. E ecco che sono incappato nel suo alter ego artistico, Dio mi perdoni, cantautore da cameretta, derivativo al limite dello stucchevole, uno che pensa che riprendersi mentre corre in un campo dia alle sue canzoni ectoplasmatiche qualcosa di onirico o psichedelico, più che altro uno che, come un David Brent si è autoconvinto di essere un artista, ma cui nessun Ricky Gervais nei panni di un Dio/regista benevolo concederà un lieto fine. Intendiamoci, parlando proprio di Madame sostenevo, e lo sostengo ancora, che l’artista non deve affatto essere umile, ma parlavo appunto di artisti, non di gente che si fa foto coi maglioni a righe orizzontali e pensa che tanto basti. Quelli sono i David Brent, gente per cui fare il tifo quando hanno la faccia di Ricky Gervais, solo in quel caso, perché altrimenti a metterci a disagio è solo la musica che ascoltiamo.