Amici Miei usciva al cinema il Ferragosto del 1975

Amici miei, non finisce. È trapassato il suo tempo ma non la mitologia che ha sparpagliato, anche se dagli italiani provinciali, cioè tutti, non fu davvero capito


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Un ferragosto di quarantasei anni fa. Omeriche mangiate di pesce, litorali come carnai beceri, macchinette come forni crematori senz’aria condizionata, la pelle delle chiappe si attacca ai sedili in finta pelle, i padri smadonnano mettendo le mani sul volante. Non usava ancora il riscaldamento globale, e le ferie erano tregue di Dio prima di ritornare a dannarsi allegramente nei termitai metropolitani. Anni di ottimismo insanguinato, il piombo terrorista non riusciva a spegnere quella fame di vivere, di essere felici, già crudele ma ancora con refoli d’ingenuità. Nei cinema si entrava senza mascherina e nelle sale all’aperto esordiva un film che tutti credevano minore al punto che gli stessi protagonisti poco ci credevano: cinque amici di mezza età a far danni tra Firenze e le campagne circostanti, le chiamano “zingarate”, si risolvono in scherzi feroci per esorcizzare la malinconia del vivere. Amici Miei usciva così, il Ferragosto del 1975: nessuno degli eroi incanagliti esiste più, l’ultimo ad andarsene fu Gastone Moschin, l’ultimo degli zingari ma uno zingaro senza gli amici suoi dove va? E Ugo Tognazzi, Philippe Noiret, Adolfo Celi e Duilio Del Prete (rimpiazzato da Renzo Montagnani negli altri due episodi) stanno già a far casino in cielo da un bel pezzo. Al suono di quel tema musicale di Carlo Rustichelli, che era un mago delle commozioni per immagini, uno sciamano che faceva Tom Waits 30 anni prima di Tom Waits disegnando scenari d’incubi tanto sottili da penetrare nelle fibre dell’anima.
Vola ancora quella musica e lì Rustichelli s’è comportato proprio da infame: quel tema è semplicissimo, basta conoscere un po’ i modi e andarci su e giù, però non si può resistere, piombi in un’angoscia vertiginosa e sottile: t’immagini come poteva essere triste, cupa la Firenze medicea in quei mezzi anni Settanta dove cinque sconfitti se ne fottevano del riflusso e della crisi e tiravano a campare ammazzandosi di beffe. E dire che Monicelli di incazzatura politica era intriso, c’è morto, perfino. Suicida d’accordo, ma da insofferente, come un ventenne fino all’ultimo giorno. D’altra parte intelligente tanto da lasciarla fuori, la politica, da un film come quello. Giusto un refolo da liberazione erotica affidato alla acerba e bisessuale Silvia Dionisio, fagocitato dalle foie maschilistiche, provinciali, dei protagonisti. Forse Monicelli sentiva incombere la stagione del piombo, dei morti ammazzati per niente e si rese conto che non era il caso di insistere, meglio fuggire nelle zingarate di cinque spostati di mezza età: un chirurgo, un architetto del Comune, un barista e un giornalista nottambulo quanto a dire la piccola borghesia delle arti e dei mestieri. “Servi della gleba e merdaioli” li considera il quinto e più disperato, il conte Lello Mascetti che dopo essersi mangiato due patrimoni, il suo e quello della moglie, s’è ridotto a vivere in uno scantinato “alla giapponese”. Poca luce e troppe ombre in Amici Miei, film di allegrie amputate, di constatazioni insopportabili al suono di quel tema maledetto che più lo ascolti e più stai male. Perché ce l’hai dentro, s’è proprio avviluppato all’anima.
E Amici miei, non finisce. È trapassato il suo tempo ma non la mitologia che ha sparpagliato, anche se dagli italiani provinciali cioè tutti non fu davvero capito, a chi piacque più per istinto, per empatia coi personaggi, pochi quelli con la cultura necessaria ad una decifrazione; ad altri per lo stesso motivo riuscì odiosa quella farsa di cinque Peter Pan che facevano burle temerarie. Gli italiani agricoli e sottoproletari, saliti nei primi anni Sessanta dalla padania mantovana o dal Mediterraneo marchigiano, sparati nelle città del buongoverno come nel quadro di Ambrogio Lorenzetti e qui incontratisi, fino a giuste ed illibate nozze e tutto per illudersi d’esser diventati classe media, nuova borghesia che non furono mai. “Quant’è bella la città, quant’è viva la città” ironizzava Gaber e la metropoli per molti fu il regno di Utopia, non le ascendi le classi sociali in questo Paese se vuoi restare pulito, se resti provinciale dentro, ti fanno passare la voglia, ti puniscono, stai al tuo posto e non permetterti più. La sera di Ferragosto del 1975, e le successive di un’estate seppiata, nei cinema d’estate all’aperto, ciascuno al suo posto la gente un po’ stravolta rideva per non piangere allo spettacolo di cinque balordi che si consumavano come specchi, che davano ali all’angoscia che consuma ogni uomo ascoltando un fallimento, rimpiangendo un amore, affiorando su una faccia che appariva di colpo orrenda ed era la tua. Tutti al proprio posto e tutti perdenti. Quasi tutti. La vita è quella faccenda che credi di tirare schiaffi alla stazione, finché ti accorgi che il viaggiatore preso a sberle sei tu.
Forse è per questo che non abbiamo più saputo fare a meno di quelle bischerate che pochi capivano davvero, di quello star male che consolava, che al liceo avevamo imparato a definire spleen o ennui, ma Baudelaire non c’entrava, era il lamento di una banalità che si ribellava a se stessa e ne uscita distrutta. Zingari per due ore, un canto di sirena quel quel tema musicale di vertiginoso dolore e qualcuno riuscì a trovare la sceneggiatura originale che poi era un romanzo fatto e finito e lì si scopriva che la tanto celebrata “supercazzola” invece nella sceneggiatura edita da Rizzoli, oggi reperibile su Ebay a caro prezzo, era scritta come “supercazzora”, ma poi le distorsioni si impongono, diventano vulgata. Già, non si trova quasi più quel libriccino anche a cercarlo nelle bancarelle dei libri usati, che a portarli a casa puzzano di muffa e quando li rileggi non ti piacciono come allora perché son passati secoli e tu sei cambiato come una pianta che ad ogni stagione si rinnova, mette foglie, perde foglie. Finché le perde e basta. Sfogliando primavere, ogni volta avremmo rivisto il film divertendoci ad anticipare le battute. Ma ogni volta penetrava in noi un po’ più di quello strazio. Finché ne siamo rimasti travolti, come nell’alluvione di Firenze del ’66.
Adesso a volte ci pare di capire tutto, brutto segno, di ogni singola sequenza, di ogni dialogo e di ciascuna nota di quel tema crudele. Rivediamo la nostra vita, gli stenti dei genitori provinciali, la loro disperata allegria che, proprio come per il Mascetti, un volo di farfalla bastava a rianimare, la vitalità di fine secolo che avremmo ereditato per via genetica, e sotto ancora quella fisarmonica da star male, da baraccone o da stazione, quella chitarra arpeggiata che sapeva di lampioni nella notte fiorentina e non si ha più voglia di niente, non di vivere, non di morire. Amici Miei ora ti fa sentire pianta che secca, ti mancano le zingarate e gli amici rimasti per strada, tutti lontani, tutti perduti. Pensi a cosa sei diventato, al coraggio perduto e ti spaventa ritrovarti così. Con l’età del conte Mascetti, anzi oltre, e la stessa paura, anzi peggio.
Adesso è più difficile restare spensierati, le ombre pesano troppo, anche quelle del Perozzi, del Melandri e gli altri. Anche ridere pesa. Dietro la mascherina fa orrore. Una vita di Amici Miei e noi la stessa loro età, le stesse sconfitte.