Il responso del festival di Cannes 2021 ha regalato un’improvvisa notorietà a un nome finora noto solo ai cinefili: Julia Ducournau, parigina trentasettenne di buona famiglia e ottimi studi alla Sorbona, diventata con Titane la seconda donna regista di sempre a vincere la Palma d’Oro sulla Croisette dopo Jane Campion nel 1993 con Lezioni Di Piano. In Francia il film è già nelle sale, in Italia è annunciato per l’autunno, distribuito da I Wonder Pictures, che ci ha visto lungo.
Titane ha suscitato molte polemiche: un film divisivo ed estremo, storia di una donna serial killer cui è stata impiantata una placca metallica nella testa, con una passione erotica per le automobili che supera persino il feticismo metallico del vecchio Crash di David Cronenberg. Anche perché a questo tema si aggiunge quello molto attuale – secondo alcuni critici pure troppo, e furbescamente – della fluidità di genere, perché una volta che la protagonista resta incinta, finge di essere un uomo e si fa passare per il figlio di un pompiere dipendente dagli steroidi (il ruolo più bizzarro della carriera di Vincent Lindon).
A scorrere la sinossi c’è ben poco di ortodosso in Titane, che sembra giocare con un gusto della provocazione programmatico e continuamente rilanciato, sia tematico che stilistico. Nell’attesa di poterlo vedere anche da noi può essere utile, per farsi un’idea della “poetica” di Julia Ducournau, guardare il suo unico altro film diretto, l’esordio Raw – Una Cruda Verità (Grave, 2016), che era passato sempre a Cannes alla Settimana della Critica, uscito in Italia alla chetichella direttamente in home video, reperibile anche in streaming su diverse piattaforme (Tim Vision, Chili, Google Play ed altre).
Diciamo subito che il riferimento alla crudità del titolo è letterale. La protagonista infatti, Justine (Garance Marillier) è un’adolescente timida e convintamente vegetariana, la quale s’è appena iscritta alla facoltà di veterinaria, la stessa, veniamo a sapere, frequentata a suo tempo dai suoi genitori e adesso anche dalla sorella maggiore, Alexia (Ella Rumpf). In quanto matricola, Justine è costretta all’arrivo nell’ateneo a passare attraverso i tipici atti di nonnismo inflitti dagli studenti anziani, tra prove degradanti la più disgustosa delle quali consiste nell’obbligo di mangiare un rene di coniglio, ovviamente crudo.
- Marillier, Garance, Rumpf, Ella, Oufella, Rabah Naït (Actors)
- Ducournau, Julia (Director)
Quasi subito ciò provoca un drastico cambiamento nelle abitudini della ragazza, che scopre una passione inarrestabile, forsennata per la carne cruda, non soltanto di origine animale. In men che non si dica si trasforma in una cannibale, condividendo la sua predilezione con la sorella Alexia. Nelle loro incontrollate e scorribande alimentari (e sessuali), si troverà coinvolto suo malgrado un altro giovane studente, Adrien (Rabah Naït Oufella). Sino alle estreme conseguenze.
Raw – Una Cruda Verità ha le cadenze di un body horror, in cui corpo, carne e sangue costituiscono l’architrave visiva e narrativa di una storia che segue il progressivo inabissarsi in pulsioni sempre più angoscianti. Stilisticamente però non si riduce a un catalogo di prevedibili abiezioni il cui obiettivo sia il raccapriccio dello spettatore. Julia Ducournau ha ambizioni tematiche alte, ed evita i dispositivi più banali del genere, come i classici jumpscare, e opta invece per un’accurata levigatezza formale. Evidente sin dalla prima sequenza che mostra, ripreso in campo lunghissimo, un incidente stradale in cui una persona viene travolta da un’automobile che va a sfracellarsi contro un albero. Subito dopo, però si vede la figura umana rialzarsi da terra e dirigersi con aria impassibile verso il veicolo, come se l’incidente non avesse nulla di casuale.
La stessa inquietante impassibilità caratterizza tutto Raw – Una Cruda Verità, collezione di un catalogo di efferatezze che – questa pare essere la tesi del film – non riguardano soltanto atti contronatura come il cannibalismo (persino autoinflitto). Appartiene alla categoria dell’orrore anche il nonnismo subito dalle matricole, obbligate a camminare a quattro zampe, inondate da docce di liquido ematico, quasi istigate ad accoppiarsi tra loro. Un nonnismo silenziosamente accettato dall’istituzione universitaria, per la quale in fondo questo grottesco rito di iniziazione costituisce un elemento portante di un’educazione convenzionale che mira al controllo (dei copri e quindi delle menti) e alla mediocrità – è la ragione per cui un docente a Justine, la quale ha fama di essere brillantissima, dice di odiare gli studenti bravi, perché col loro talento demoralizzano gli altri.
In Raw – Una Cruda Verità anche le sequenze relative alla scienza veterinaria sono ripugnanti, con tecniche medievali che violano ed umiliano i corpi degli animali, ripresi con una freddezza che rimanda allo sguardo asettico e implacabile di un Ulrich Seidl (in particolare un film per stomaci forti come Safari). E l’orrore caratterizza anche i rapporti familiari tra Justine e Alexia, nel quale il cannibalismo diventa metafora della violenza implicita che caratterizza i legami, è il caso di dirlo, di sangue (e sotto questo profilo può ricordare il tratteggio spassionato delle famiglie disfunzionali del primo Yorgos Lanthimos).
Raw – Una Cruda Verità ha ambizioni da horror politico ed esistenziale e descrive la brutalità strutturale di una società conformista, in cui in corpo, abusato, consumato, mortificato diventa il veicolo attraverso cui trovano espressione, in una forma estremistica e paradossale, angosce tanto sociali che individuali (che contemplano persino l’autofagia).
Julia Ducournau già da questo suo primo film mostra la predilezione per un cinema che alzi continuamente la posta, scioccando lo spettatore con uno sguardo insieme inflessibile e spiacevole il cui obiettivo, tolta la buccia alle convenzioni e alle buone maniere di facciata, è mostrare la vera pasta, agghiacciante e repressiva, di cui è fatta la società a ogni suo grado. Lascia perplessi la letteralità un po’ elementare dell’allegoria, in cui il cannibalismo è un dispositivo buono per spiegare qualunque questione, dalle istituzioni collettive alla famiglia agli individui posti di fronte alle proprie inquietudini. Però colpisce l’impaginazione visiva scaltrita, che non punta (tanto) sugli effettacci ma su di una messinscena algida, immota, inquietante che lascia il segno.