Musiche per organi tristi, come i Chumbawamba hanno vinto su Niccolò Fabi

Guardo alla musica come un transfer capace di influenzare il mio stato d’animo, più che di assecondarlo, anche se lo faccio razionalmente

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Torno a affrontare un tema ricorrente, non solo e non tanto nei miei scritti, ma più in generale quando si parla di musica. L’emozione. Messa da parte l’ovvietà che l’emozione che si pretende la musica sappia trasmettere non può e non deve essere solo quella legata ai sentimenti amorosi, perché se no vivremmo in un mondo di ballad e di versi sdolcinati, ma che si può serenamente includere nel gruppo anche la rabbia, l’odio, la malinconia, la paura, provo a andare oltre. E nel farlo, giocoforza, parto dal mio vissuto.

Diamo per assodato che la musica debba saper e poter trasmettere emozioni, fatto rispetto al quale, ne ho parlato a più riprese, nutro seri dubbi, la domanda che mi pongo è: la musica che ascoltiamo coincide con quello che stiamo provando o è in qualche modo parte in causa di quello che andremo a provare?

Mi spiego meglio. La musica che vado a ascoltare in un giorno in cui mi sento triste, sarà in grado di ribaltare la situazione, infondendomi non dico felicità, ma almeno serenità, o coccolerà quel mio sentire, ammantando la mia tristezza di adeguata colonna sonora?

Giocherò quindi di contrasto, sono apatico e metto su un bel pezzo hardcore di quelli che non puoi ascoltare stando steso sul divano? Oppure metto su musica ambient, lasciando che l’ovatta avvolga la mia testa, oltre che la mia anima?

Ancora, se sono sereno e mi capita, a volte, ormai quasi sempre, capita che la musica la si ascolti involontariamente, ne siamo costantemente circondati, e mi capita che arrivi un brano particolarmente malinconico, lo ascolto e lascio che quel sentimento trovi spazio dentro di me o smetto di ascoltarlo, perché inadeguato al mio stato d’animo?

So che sono discorsi che sembrano futili, e in effetti lo sono anche, ma essendo la musica il medium più diretto, credo che provare a analizzare i meccanismi che stanno alla base del rapporto intrinseco tra emozioni e musica sia quantomeno doveroso, per chi, come me, di musica si occupa per lavoro.

Chiaro, in questo discorso manca l’aspetto a tratti basilare del vissuto pregresso, cioè la nostra incapacità, a volte, di slegare un determinato brano a un nostro determinato vissuto, fatto che a volte se non sempre travalica la capacità e possibilità di chi quel brano ha scritto e interpretato. Se, cioè, abbiamo vissuto un evento particolarmente funesto legato a un brano allegro, non se ne esce, da quel momento per noi quel brano sarà identificato con quel sentire, discorso ovviamente che è applicabile a qualsiasi situazione e qualsiasi canzone, avete dato il vostro primo bacio con un reggaeton?, a parte la mestizia di avere un reggaeton come colonna sonora di un primo bacio, è evidente che proverete verso quella canzone di merda un sentimento di affetto assumendo con gli occhi la forma dei cuoricini ogni volta che la ascoltate, almeno fin quando il/la tipo/a che avete baciato per la prima volta non vi spezzerà il cuore e di colpo quel brano diventerà il più triste dell’universo, voi i soli a piangere come vitellini ogni volta che in radio passano quei ritmi dozzinali e quei versi sguaiati.

Ecco, fatto salvo tutto quanto fin qui detto, io, personalmente, tendo a usare la musica per provare a cavare fuori dal buco quello che mi sembra di intuire sia lì lì per uscire. Quando, cioè, comincio a intuire che il mio animo sta cominciando a vivere una determinata sensazione, magari ancora in fase di suggestione più che di emozione, so che ci sono determinate musiche che, come una ostetrica, magari di quelle che lavoravano in casa e che nei vecchi film chiamavano “levatrice”, sarà in grado di portare a termine l’operazione di nascita di quel sentimento, portandolo alla luce.

Ho quindi, come credo accada per chiunque, determinate musiche che, senza neanche dovermi troppo sforzare, diciamo come l’oxitocina quando il travaglio sembra procedere per le lunghe, ci permette di dare gli ultimi colpi e via, ecco la creatura.

Guardo quindi alla musica, almeno in questi contesti, come un transfer capace di influenzare il mio stato d’animo, più che di assecondarlo, anche se lo faccio razionalmente, come chi sentendosi imbarazzato, parlo di stomaco, non di vergogna, decide di bere caffè col limone per vomitare.

Questo, ovviamente, quando sono io a decidere che musica ascoltare, perché poi ci sono le radio, i concerti, la musica in filodiffusione dentro i negozi e i ristoranti o i bar.

Per dire, sono passati ormai diversi giorni, settimane, dalla fine della scuola. Niente di drammatico, anzi, la fine della scuola decreta l’inizio delle vacanze, i bambini e gli adolescenti gioiscono, cantano, fanno a gavettoni. Ma non è solo questo. Sono un animo sensibile, almeno quando si parla di figli, e quando arriva la parte dell’anno in cui si chiude un capitolo non posso non pensarci con un misto di gioia e malinconia. Quest’anno però, la scuola in casa nostra ha avuto una appendice, perché mia figlia grande ha avuto la maturità, quindi per lei la scuola si è chiusa definitivamente. Questo esattamente un mese fa, di oggi. A pensarci, e solo Dio sa quanto ci ho pensato in queste settimane, non posso che sprofondare in una sorta di saudade malinconicissima, il cuore a pezzi, un panno di tristezza appoggiato sulla fronte. Per i motivi per cui chiunque, immagino, guarda ai propri figli che crescono con gioia, crescono, appunto, e apprensione, si affacciano al mondo, se ne vanno per il mondo. Del fatto che mentre loro crescono io invecchio, lo dico a scanso di equivoci, non mi frega nulla, ho consapevolezza di non essere eterno, e non ambisco a quel tipo di eternità, comunque, ma il saperli in procinto, sempre più in procinto, di staccarsi mi immalinconisce, per ragioni che non ritengo necessario spiegare parola per parola.

Non sapendo come fare a convogliare queste sensazioni in un canale di razionalità, ho optato per lasciare che esplodessero, dando loro agio di invadere tutto il territorio, incontrastate. Ho quindi lasciato la parola a canzoni che so capaci immediatamente di devastarmi, parlo di due specifiche canzoni di Niccolò Fabi e una di Umberto Maria Giardini, quando si faceva chiamare Moltheni (anche questa estate ci si farà chiamare, per l’ultima volta, se vi capita andate a vederlo). Così ho lasciato che Facciamo finta e Le mani sugli occhi, coi loro versi lancinanti, facessero il loro sporco lavoro, complice l’interpretazione perfetta del cantautore romano, vera cristallizzazione del concetto di empatia, lasciando poi che a infierire sulle mie spoglie fosse Vita rubina di Moltheni, credo la canzone più dolorosa che autore italiano abbia mai composto. Quella chitarra ossessiva, quei versi così narrativamente perfetti, quella voce limpida capace di dirci cose indicibili, tutto ha aperto la diga dei miei sentimenti, riuscendo là dove oggi forse avrebbe potuto solo Marisa Monte con la sua O que me importa.

Poi, però, resto pur sempre un essere estremamente razionale, ho anche realizzato che la fine del percorso scolastico avrebbe anche comportato il venir meno di tutta una serie di rotture di coglioni senza pari, i colloqui coi professori, il convincere lei, mia figlia, che a volte non dire quel che si pensa è cosa buona e giusta, anche quando si è palesemente dalla parte della ragione, il giustificare l’inutilità di certe materie, di certi argomenti sputati nei piani di studi, tutte quelle brutture di cui la scuola italiana è intrisa fino alle fondamenta, quindi, con mia moglie, gli occhi ancora inumiditi, non abbiamo potuto far altro che andare verso lo stereo, infilare il cd dei Chumabwamba, cd che da anni era lì in attesa del proprio momento, e lasciare che le casse sparassero per tutto il quartiere le note di Tubthumping (I Get Knocked Down), arrivati a metà del primo ritornello la malinconia volgeva in ritirata. Questa canzone sta lì ininterrottamente da un mese, in loop. Ah, il potere salvifico della musica.