Dentro Origin di D-Ross, il blues come lezione di stile (recensione e intervista)

Quando D-Ross non si trova nella sala regia dei più grandi rapper italiani si butta nel mondo delle chitarre. Il risultato è Origin, un album che ti spara il blues in faccia. Ecco l'intervista

origin di d-ross

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Dopo il primo flashback di Profondo Rosso del maestro Dario Argento Mark, il protagonista, catechizza i suoi studenti dopo un’esecuzione jazz. “Bene, va bene”, dice Mark. “Fin troppo bene”, aggiunge, per poi puntualizzare: “Troppo pulitino, deve essere più buttato via”. Quel “buttato via” è la lezione che apprendiamo da Origin di D-Ross. Lui, Rosario Castagnola, è lo sguardo che osserva pezzi da 90 come Ernia, Marracash, Luché, Fabri Fibra e Guè Pequeno dalla sala regia nei panni del produttore. Quando è da solo, però, si tuffa nel mondo delle chitarre.

Da questa sua natura nasce Origin: 12 tracce + una cover, tutto meravigliosamente suonato e “buttato via”, spontaneo e verace, dove le chitarre dominano la scena a partire dalla title track d’apertura per poi prenderti a schiaffi con la cover di Shine On You Crazy Diamond dei Pink Floyd. Proprio lei, sì, con Raiz alla voce. Con Great Khan capiamo l’intenzione di D-Ross: far parlare la musica come pochi sanno fare, ma c’è anche Rotten, ci sono anche Tunis, D-Ross Blues e Unicorn che sono tanti piccoli manifesti emozionali che spaziano dal decadentismo più sobrio alla sporcizia più deliberata. Una “sporcizia”, questa, che solo chi fa blues conosce.

Scopriamo, anche solo con l’ascolto, che Origin di D-Ross nasce dall’esigenza personale e non per bucare le classifiche, per ritornare a quella volta in cui Rosario ha visto Andrea Braido durante un concerto di Vasco Rossi in televisione e disse: “Voglio fare quella musica”. Oggi Rosario, quella musica, l’ha fatta sua e la possiede in ogni tono e ogni semitono, “buttati via” per spontaneità e con poetico e millimetrico disordine. Origin di D-Ross è uscito il 25 giugno come seconda esperienza solista di Rosario Castagnola, a 3 anni di distanza da Large (2018). Lo abbiamo intervistato, e ci ha aperto il suo mondo.

Intervista con D-Ross

Rosario, alla regia per i più grandi rapper della scena italiana e ora ci ritroviamo con un disco blues-rock, con le chitarre che prendono il posto del flow e del beat. Come nasce Origin?
Dall’esigenza di ritornare alle origini, sostanzialmente. Devi sapere che, anche nella mia attività di produttore, qualche linea di blues viene inserita nei brani degli altri artisti. In quei casi si tratta di condimenti, ma io sostanzialmente faccio parte di quel mondo.

Il titolo del disco tradisce la tua necessità di un salto negli anni d’oro della musica: il blues è ancora oggi una lezione di stile?
Assolutamente sì. Oggi si è perso parecchio di questa realtà perché, come vedi, si rincorrono dei numeri che ti fanno arrivare primo in classifica, si deve rispondere a delle esigenze di mercato. Ciò è giustissimo, perché a una domanda corrisponde un’offerta, ma ogni tanto è bene ricordare a tutti da dove siamo nati.

Nel disco c’è un ampio ricorso al fuzz. Quanto è importante la sporcizia del suono nel rock e nel blues?
[Il fuzz è un tipo di distorsione, ndr] La sporcizia, il fuzz, è il suono. Nel mio gear ho tanti elementi analogici e con quelli, solo con quelli puoi ottenere quella sporcizia. Il digitale ha risolto molte cose, è vero, ma l’impatto emotivo che ti dà l’analogico è qualcosa di inarrivabile. Se devi fare blues non puoi dimenticare il fuzz, non puoi dimenticare la sporcizia.

Origin è una pausa dalla tua sala regia?
No, perché anche mentre veniva fuori Origin ho lavorato come produttore. Mi occupavo dei miei pezzi tra una sessione e l’altra, in totale libertà.

Pensi che farai altri dischi solisti in futuro?
Certamente, anzi. Ho tanto materiale nuovo che lascio lì, nel cassetto, pronto a rivederlo quando i tempi si fanno maturi. Saranno questi pezzi nuovi a trovare la loro direzione, e io la seguirò.