I Rolling Stones hanno insegnato al secolo come essere giovani e sfrontati, ma forse è arrivato sul serio il momento di chiudere

Un gruppo come loro non può andare avanti per inerzia, manca nuova musica, nuovo materiale con cui giustificare nuovi concerti

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Li vedi lì, sul palco, e non sai se ti ispirano più esaltazione o tenerezza e per lo stesso motivo. Tutti sopravvissuti a loro stessi, reduci da cancri, operazioni alla testa, interventi al cuore. Rallentati i movimenti e rallentati i tempi delle canzoni. Ed era l’ultimo tour, quello di due estati fa. In mezzo una pandemia che ha invecchiato tutti, umani e sovrumani, ha fermato tutto: come si ripresenteranno se mai i Rolling Stones all’ennesimo appuntamento con la loro storia, fra un anno o quel che sarà? Come faranno a celebrare i loro sessant’anni di carriera e gli ottanta di vita che ne vale ottocento? Oggi esce sul mercato l’ennesima riproposizione di uno dei loro concerti storici, quello a Copacabana del 2006, un milione e mezzo di spettatori, primo ad essere trasmesso in streaming, e sembra passata una vita: già oltre i 60, ma quanto più frenetici, quanto più ardenti. Da allora, una incessante presenza per il mondo, altri spettacoli memorabili, a Cuba, a Glanstonsbury, ma sempre in calo, impercettibile ma inevitabile fino a rendersi palese. Gli Stones non finiranno mai, non come gli altri, non lo annunceranno, lo lasceranno succedere, ma forse è arrivato sul serio il momento di chiudere. Lo sanno loro e lo sa il mondo e figurarsi se non piange il cuore a scriverlo a uno che, da sciagurato, ha, lui sì pateticamente, impostato la vita su questi pazzi irraggiungibili.
Ma le leggi dell’entropia valgono anche per loro. I Rolling Stones hanno insegnato al secolo come essere giovani e sfrontati, poi adulti dissoluti, quindi vecchi impenitenti. Adesso sono oltre la senectudine e non si vede che altro possano trasmettere. Li vedi sul palco e ciò che manca non è il senso di pericolo, quello era andato da un pezzo, quello che è volato via è il senso di un senso, una ragione ancora di stare lì, una storia infinita da difendere. Non è questione di produzioni mastodontiche, di chitarre sempre più alte, di brani che hanno tatuato la nostra vita. Quello che manca è tutto il resto, perché i Rolling Stones non ci sono più e al loro posto c’è una presenza rassicurante come una abitudine, qualcosa che non cambia, che ti accompagna nel tuo declino. Quello che manca è nuova musica, nuovo materiale con cui giustificare nuovi concerti. Ma del prossimo disco neanche a parlarne e ormai sono 16 anni, un tempo improponibile, e sedici anni di artisti già logori, già oltre la senilità. Ma le scuse sono finite, lì dentro nessuno sembra davvero avere la voglia, la motivazione di concludere qualcosa. Jagger da un anno è italiano, vive in Sicilia e si gode le delizie del “paese dove il sì suona dolce e fioriscono i limoni”. Wood fa il padre-nonno, Keith non si sa bene cosa faccia e Charlie lo si sa benissimo, fa quello che ha sempre fatto, ascolta i suoi dischi di jazz e cura i cavalli. C’è da capirli. Non si può chiedere l’eternità a chi l’eternità l’ha superata.
A Copacabana quel fuoco c’era ancora. C’era qualcosa, un ghigno, un refolo. Chilometri di spiaggia amplificata, per far sentire tutti, una processione di maxischermi e amplificatori, la baia stipata di yacht che si godevano un posto da ultraricchi e loro là in mezzo al vortice a imperversare. Poi Richards sarebbe caduto da una palma rompendosi la testa e da allora non è stato più lo stesso e il Vicodin ha cacciato la coca, le sigarette e il whisky. Sparito anche l’ultimo simulacro, l’anello col teschio, ucciso dall’artrite che ha sformato le dita. Anche Ronnie ha chiuso con tutto, perfino con i capelli “da pollo” come gli disse una volta Groucho Marx.
E i Rolling Stones, troppo grandi per finire, si sono trasformati in una pura macchina da profitti ma senza più una ragione sociale, un po’ alla Ferragnez: maglie, gadget, paccottiglia, musei, mostre itineranti, riciclo di vecchi concerti, ristampe di ristampe, e quel parlare del passato aspettando un futuro impalpabile, quel parlare di parlare senza consistenza. Non puoi avere sempre ciò che vuoi, e stavolta pare per chi la canta. Un gruppo come loro non può andare avanti per inerzia, come Dylan: se gli togli la rabbia e sfrontatezza, non c’è più una causa. Sono loro e non lo sono, la migliore cover band di se stessi, ma il fatto è che ormai tutto è scontato: la scaletta, gli assoli, le movenze di Mick, l’atmosfera placida, rassicurante. Si confronti uno degli ultimi show, Chicago 2019, con quello di Copacabana: non c’è tensione, non c’è emozione, nessun dolore. Chissà che sarà di loro e chissà che sarà di noi, lo scopriremo solo aspettando. Ma aspettando cosa?