Black Widow, la nuova fase del Marvel Cinematic Universe comincia con un racconto sull’emancipazione femminile

Dal 7 luglio in sala, e dal 9 su Disney+ il film sulle origini della Vedova Nera Scarlett Johansson. Una storia di Guerra Fredda e spie che assomiglia a un Bond Movie. Con un’anima seria che parla di questioni di genere

Black Widow

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La prima notizia è che Black Widow in Italia, nel primo giorno di uscita in circa 650 sale ha sfiorato, dati Cinetel, i 600mila euro al botteghino, un record per questa fase post(?) pandemica e un buon viatico per l’avvenire del cinema in sala. Questo sebbene dal 9 luglio, il film sia disponibile su Disney+, con accesso Vip a 21,99 euro. Intanto gli analisti americani, dove il film uscirà contemporaneamente al rilascio su piattaforma, parlano di un probabile incasso nel primo weekend da 80 milioni di dollari, che batterebbe i 70 di F9, l’ultima avventura della serie Fast and Furious che nel frattempo globalmente ha superato i 500 milioni. Dati insomma minimamente incoraggianti per la sopravvivenza del cinema in sala, anche se questi miracoli per ora sono appannaggio esclusivo dei grandi franchise.

A proposito di franchise, il tante volte posticipato Black Widow, che sarebbe dovuto uscire addirittura nell’aprile del 2020, fa finalmente scattare la cosiddetta Fase Quattro del Marvel Cinematic Universe, dopo il grande show finale multimiliardario di Avengers: Endgame (e l’appendice di Spiderman: Far From Home). Proprio le vicende di Endgame però facevano presumere che, a meno di sensazionali colpi di scena, lo stand alone dedicato alla Vedova Nera Natasha Romanoff interpretata da Scarlett Johansson non sarebbe servito a far compiere un passo in avanti alle linee narrative dello stratificato universo Marvel, in cui ogni episodio oltre a seguire la propria vicenda, s’intreccia con numerose altre storie che poi trovano sviluppo in altri film o serie.

Infatti Black Widow torna al passato, situandosi dal punto di vista della macronarrazione Marvel tra Captain America: Civil War e Avengers: Infinity War. In realtà, a partire dal prologo, il film diretto da Cate Shortland e sceneggiato da Eric Pearson (con sempre a nume tutelare il produttore-ideatore della saga Kevin Feige) torna molto più indietro, all’infanzia di Natasha, ricostruendone il profilo familiare (il film ruota tutto intorno al tema della famiglia) e psicologico. Da cui si viene a sapere che la ragazzina di origini ungheresi ha vissuto negli anni Novanta nell’Ohio una infanzia simulata da perfetta bambina americana, finta figlia di due spie sovietiche sotto copertura (Rachel Weisz e un David Harbour come supereroe sovietico Red Guardian), con una sorellina anch’essa fasulla, Yelena (da adulta Florence Pugh).

Molti anni dopo, quando Vedova Nera a seguito degli avvenimenti legati a Civil War è divenuta una supereroina rinnegata braccata dall’esercito americano, ecco che il suo presente è destinato a saldarsi al passato, in un intreccio di storie e fughe in cui si tengono insieme la famiglia putativa di oggi (gli Avengers) con la famiglia dell’infanzia (anch’essa non di sangue), e gli Stati Uniti con l’ex blocco sovietico (e l’anima divisa in due di Natasha si coglie anche nell’uso alternato dei costumi bianco e nero).

In Black Widow la vicenda di tradimenti, doppi giochi e Guerra Fredda danno al racconto un sapore da film di james Bond in cui, prima del finale in cui il gigantismo visivo prende il sopravvento, certe scene d’azione rimandano anche coreograficamente agli inseguimenti alla 007, soprattutto, dato il tema, quello di Daniel Craig e Sam Mendes della tragedia familiare di Skyfall. In Black Widow la protagonista torna a essere prima di tutto Natasha Romanoff, donna, figlia e sorella di un ingombrante nucleo familiare che sarà geneticamente fittizio, ma che è indelebilmente inciso nella memoria e nella carne come matrice della sua identità.

Allora, se non dal punto di vista della progressione narrativa, Black Widow innesca la nuova fase dell’MCU sul piano dei temi trattati e del modo di raccontarli. Con un uso molto più misurato dell’ironia e soprattutto una centralità della questione femminile. Il primo obiettivo è certamente, nel filone politicamente corretto di una saga mainstream, risarcire il personaggio di Vedova Nera (e la sua interprete Scarlett Johansson) ristabilendone una complessità che la allontani dalle origini stereotipiche della spia letale fortemente sessualizzata, comparsa per la prima volta nel 2010 in Iron Man 2, e poi passata, un film degli Avengers dopo l’altro, attraverso la fase dell’improbabile storia d’amore modello “la bella e la bestia” con Hulk.

Però poi, ampliando lo sguardo dalla protagonista alle altre figure femminili principali (Weisz e Pugh) e secondarie, emerge una riflessione più generale sulle donne, che all’interno del conflitto geopolitico da Guerra Fredda costituiscono le vere vittime. Il nemico di turno Dreykov (Ray Winston), che non è un onnipotente alla Thanos, ma appunto un supercattivo da Bond movie, ha un vasto progetto criminale fondato su un esercito letale di donne le quali, grazie a un processo di condizionamento cerebrale, sono private del loro libero arbitrio, “armi senza un volto di cui si può disfare”. E c’è persino un prezzo più terribile e definitivo, di vera e propria amputazione della sessualità, come si evince da un passaggio di dialogo sin troppo sbrigativo tra Natasha e Yelena.

Black Widow così diventa un’allegoria, persino didascalica, di un modello sociale maschile e maschilista fondato sull’occupazione ossessiva del potere – un potere sempre distruttivo –, nel quale all’altra metà del cielo è concesso uno spazio residuale da automa, pure esecutrici senza volontà e senza emozioni. Un’amputazione dell’identità. Ed è a questo, al di là del solito obiettivo esplicito degli action movie che è salvare il mondo, che mira la missione sovversiva e quasi tutta al femminile (a parte il personaggio, volutamente buffonesco, del padre Red Guardian) di Black Widow: reintegrare l’identità, la libertà, l’autonomia femminile, lungo un percorso che contempla l’accettazione del dolore, l’ammissione del senso di colpa, il recupero delle radici familiari. Un racconto, insomma, di ribellione ed emancipazione femminile, che funziona bene dal punto di vista narrativo, anche se talmente in sintonia con lo spirito del tempo da suonare furbesco.