La sindrome dell’impostore e il toto manager

In queste ultime ore leggo alcune notizie che circolano insistentemente riguardo futuri manager di band e quindi non posso non dire la mia

Photo by Paolo Santambrogio


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Esattamente trentasei anni fa, di oggi, ho giocato una partita a basket contro mio fratello. Mio fratello, Marco, ha otto anni più di me, trentasei anni fa lui era un ventiquattrenne, io un sedicenne, forse per la prima volta io e lui potevamo stare uno di fianco all’altro senza che la differenza di età pesasse, almeno dal punto di vista fisico. Poi, è chiaro, lui era un giovane adulto, aveva già fatto il militare, imbarcato su un dragamine che poi sarebbe partito per la guerra in Libano, lui no, sarebbe finito altrove, in ufficio, lavorava, io ero un ragazzino che frequentava il Liceo Classico, ancora privo di quella personalità che sarebbe venuta fuori negli anni a venire.

Se so che quella partita, nulla a che fare con gli scontri epici alla Noel e Liam Gallagher, per intendersi, ma comunque una accesa partita a basket, di quelle che prevedono stoppate, veroniche, atti di umiliazione di varia natura, sempre venati di sano scontro fratricida, se so, dicevo, che quella partita è andata di scena esattamente trentasei anni fa è perché nel mentre, ma questo noi non potevamo saperlo, nostra sorella Caterina, sei anni più di me, due meno di lui, era entrata in travaglio, e di lì a poco avrebbe dato alla luce Davide, il nostro primo nipote, nato per altro lo stesso giorno di suo nonno Learco, che poi sarebbe mio padre, nostro padre, mio e di Marco e Caterina. Caterina si era sposata un anno e mezzo prima, credo un suo modo per emanciparsi e iniziare a percorrere la sua strada, ma non è certo di questo che intendo parlare oggi. Io e mio fratello non avremmo più giocato a basket l’uno contro l’altro, e quell’occasione era in effetti qualcosa di anomalo, entrambi molto appassionati di calcio, lui tifoso della Junventus, sulla falsa riga della tradizione familiare, io tifoso del Genoa per puro spirito iconoclasta. Abbiamo fatto una partita a basket, coi nostri rispettivi amici in squadra, come a voler dimostrare che non c’era solo il calcio, stessa logica per cui io ai tempi delle medie per tre anni ho militato nella prima squadra locale di baseball e nei due anni precedenti avevo giocato, senza alcun trasporto, proprio a basket. In Italia il calcio è lo sport nazionale, questo il discorso non detto, facciamo vedere che siamo di vedute più ampie e giochiamo anche a altro, con risultati decisamente superiori alle legittime aspettative e senza il medesimo trasporto che se avessimo giocato a calcio, sport nel quale, ancora una volta, avrei dominato indiscussamente su mio fratello, ambidestro assai veloce che non ero altro.

Certo, siamo fratelli, la partita è stata partita fino in fondo, sono di poco più alto di mio fratello, lo ero già allora, e allora ero anche piuttosto magro, ma eravamo entrambi vittime della più chiara sindrome dell’impostore. Giocavamo, e giocavamo anche piuttosto bene, almeno stando a quegli standard di partitella tra amici, nel campo di basket dell’allora Liceo Scientifico Savoia, a pochi passi da quella che era la nostra casa, lì in Ancona, ma ciò non accadeva per meriti maturati sul campo, era una casualità, avremmo dovuto fare altro, tipo essere in ospedale col resto della famiglia, in attesa che nascesse il nostro primo nipote.

Uno dice, perché stai parlando di una anonima partita di basket avvenuta tra amici e parenti in un campo di basket scolastico di Ancona trentasei anni fa? Semplice, perché la realtà, anche quella che non lascia travisare neanche un barlume di ambiguità, non sempre è esattamente come la vediamo. Siamo convinti di essere lì a giocare una partita di basket perché il basket, ci diciamo, è lo sport che in realtà ci piace praticare, ma nei fatti stiamo dando vita a una sfida tutta interna al nostro nucleo familiare, come neanche Fabri Fibra e Nesli o Gabriele e Silvio Muccino, e se sembriamo sul pezzo è solo perché quelli che ci stanno intorno, come noi, sono appassionati di calcio e del basket gliene frega anche meno che a noi, e a nostra differenza non hanno primati interni al nucleo familiare da risolvere o mettere in chiaro.

Ok, dice sempre quell’uno, quindi hai scritto un pezzo in cui parli di una anonima partita di basket di trentasei anni fa, nella quale hai fatto qualcosa come cinque tiri da tre di fila, dimostrando che non è necessario essere alti due metri per poter giocare a uno sport che in fondo hai sempre considerato piuttosto stupido, come tutti quegli sport nei quali gli scontri fisici, quelli anche violenti, vengono guardati con biasimo e stigmatizzati dal regolamento, solo per certificare una tua lettura del mondo? Hai quindi scritto un pezzo filosofico che nulla ha a che vedere con la musica, argomento del quale, magari non sempre è chiarissimo, ti occupi su queste colonne?

No, ovviamente, sai il cazzo che me ne frega di fare filosofia spiccia, col caldo che fa, ho scritto questo pezzo, che a ben vedere sto ancora scrivendo, perché in queste ultime ore leggo alcune notizie che circolano insistentemente riguardo futuri manager di apparentemente rilevantissime band, e trovo che siano notizie che hanno la stessa legittimità e credibilità che quella sera di trentasei anni fa avevamo io e mio fratello in quel campo di basket, per altro mentre le faccende relative alla nostra famiglia, quelle serie, accadevano altrove, in una sala travaglio dell’Ospedale Salesi, dove nostra sorella avrebbe partorito il suo primogenito Davide.

Per la cronaca, quella sera io e i miei amici abbiamo espugnato il campo, e da quel giorno credo di non aver più fatto una partita di basket, se non forse qualcosa a scuola, perché costretti da un professore di educazione fisica incapace di colpire il pallone coi piedi e quindi poco propenso a riconoscere al calcio il giusto peso nel mondo.