L’obbedienza è di nuovo una virtù?

Affidarsi, annuire, accettare, eseguire quanto dettato, ci solleva dal compito di pensare, di ascoltare pareri diversi, alternativi, etichettati come disinformazione, fake news, negazionismo

Close up shot of hand and white coronavirus covid face mask, end of quarantine, beating epidemic


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A fronte di una serie di restrizioni che abbiamo tollerato, sopportato, o entusiasticamente accettato e condiviso per tanti mesi, tempestati dai moniti degli esperti a riporre aprioristicamente fiducia nella scienza, sollecitati da giornalisti e opinion leader a cedere quote di sovranità o a meritarci la libertà (che è un diritto inalienabile), non può non riproporsi la vexata quaestio; obbedire è di nuovo una virtù?

Che fine ha fatto lo slogan nato sulla scorta del testo di Don Milani “’obbedienza non è più una virtù”, leit motiv delle proteste sessantottine? O le riflessioni della Arendt sul male come obbedienza e mera esecuzione di ordini da parte di grigi e mediocri personaggi, che resero possibile l’orrore della shoà? E, ancora, risalendo il corso della storia per approdare al mito, la disobbedienza di Antigone di fronte a Creonte, o, filosoficamente, il problema del rispetto delle leggi anche quando palesemente ingiuste, inaugurato dal Socrate platonico de Il Critone, come espressione della difesa del patto sociale all’interno del quale solo è possibile lo sviluppo della personalità?

E il dubbio metodico di Cartesio, il diritto di resistenza di Locke, la disobbedienza civile di Gandhi, l’attitudine alla ricerca del vero come condizione prima della conoscenza di un Leopardi?

O la posizione di La Boètie nel “Discorso della servitù volontaria”, in cui un giovanissimo pensatore nel XVI secolo sostiene che il potere si regge sulla volontà anzi, sulla disponibilità alla schiavitù delle masse?

Ultimamente, su La Lettura, inserto del Corriere, sulla scorta della pubblicazione del libro “Viaggio tra gli obbedienti” del giurista Natalino Irti, il tema è stato ripreso e dibattuto da Salvatore Natoli Piergaetano Marchetti, e dallo stesso Irti.

Conclusione: i vari decreti dei due ultimi governi non sono frutto di regimi totalitari e dittatoriali, non si esauriscono in un arbitrio di singoli a spese della comunità, ma sono emanazione di una democrazia che vuole giovare a tutti, tutelando il diritto alla salute di ciascuno. Tutto ciò si fonda sulla consapevolezza e sulla fiducia. In questo caso l’obbedienza, si rovescia nel suo contrario, declinandosi come esercizio di libertà. Perchè implica un dialogo e una comprensione, quindi una decisione. Secondo Irti l’obbedienza sta nella trama quotidiana della nostra vita. Il presupposto però è la chiarezza del comando: ma proprio questo non è stato rispettato dai decreti legge fiume, dalle misure cangianti dei governanti fondate su pareri scientifici altrettanto variabili, posizioni contraddittorie che hanno inoculato il germe benefico del dubbio.

Le emergenze nella democrazie fragili possono scatenare una serie di derive autoritarie, in aperta violazione del dettato costituzionale, fenomeni a cui questi mesi ci hanno abituato: la censura delle opinioni non allineate a quelle dominanti, l’individuazione e la lapidazione, sia pure in effigie, del nemico, per arrivare alla sospensione dal lavoro o al demansionamento per chi ha assunto atteggiamenti critici nei confronti della panacea vaccinale. La platea dei governati si è divisa tra obbedienti e non obbedienti. Quanto di questo assenso o dissenso si fonda sulla conoscenza, quanto sul pregiudizio, la propaganda, la disponibilità ad essere disciplinati dall’alto, quanto sulla paura o sulla sua negazione?

Perchè se abbiamo visto gli effetti nefasti del virus, ci è stata anche palese la progressiva estromissione dalla linee guida di  qualsiasi trattamento rivelatosi efficace; ci ha stupito l’emanazione di regole arbitarie- come il coprifuoco-  e una serie di norme volte più a generare paura che a un’effettiva profilassi anticontagio. Come abbiamo assistito all’aberrazione dei fragili lasciati soli, degli anziani spentisi tra le mura di reclusori. Agli scandali sulle mascherine taroccate o destinate a categorie deboli (vedi gli ultimi fatti della Germania),

 Quale valore ha in questi casi l’obbedienza?

Se quest’attitudine si fonda sulla fiducia- specie per le questioni in cui ci troviamo in una condizione di subalternità culturale-, affidarsi presuppone credere nell’intima, ultima bontà del genere umano, e nella sua capacità di discernimento a fronte delle sirene del profitto e dell’interesse. Ma è davvero così? Affidarsi, annuire, accettare, eseguire quanto dettato, ci solleva dal compito di pensare, di informarci, di ascoltare pareri diversi, alternativi, etichettati come disinformazione, fake news, negazionismo. Obbedire è liberatorio, consegnarci al padre carismatico, al Leviatano che non ci inghiotte ma assicura la nostra salvezza è consolante. Pensare fa male, fa soffrire, il dubbio ci esaurisce e sfibra la nostra capacità di resistenza. E se questo sia un bene o un male, se la libertà valga più della sicurezza, la felicità più della capacità di rimanere esseri pensanti, se lo stesso errore sia una eventualità cui non rinunciare, non è dato sapere,   Di fronte a tutto ciò la domanda resta aperta e rimanda la sua eco all’infinito.