Il Traditore, il mafia movie d’autore di Marco Bellocchio con un mimetico Favino-Buscetta

Un grande film, che attraverso l’enigma Buscetta e le categorie del tradimento, la maschera, la famiglia, spiega di Cosa Nostra molto più di tanto cinema civile nobile ma assertivo

Il Traditore

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Sei statuette ai David di Donatello 2020, quasi 5 milioni al botteghino, Il Traditore è uno dei più importanti film italiani di questi ultimi anni. Un’opera che giunge da un cineasta colto e raffinato, che a quasi ottant’anni con curiosità e umiltà si mette in gioco come un esordiente e si confronta col cinema di genere, il crime movie, accettandone logiche e retorica, impiegate senza spocchie intellettuali e reinterpretate a modo suo, filtrate col suo sguardo e le sue predilezioni tematiche.Il merito del raggiunto equilibrio, va detto subito, è dovuto anche a un Pierfrancesco Favino in stato di grazia (all’interno di un cast per il resto tutto siciliano e di prim’ordine), che si trasforma letteralmente in Tommaso Buscetta, regalando al film un’impressionante sensazione di autenticità, che Bellocchio mescola con l’ambiguità tipica del suo sguardo.

Il risultato è un “mafia movie d’autore”, che calibra l’interesse genuino per la narrazione di una storia individuale con quello per la luce che la vicenda paradigmatica di un uomo tutt’altro che qualunque come Buscetta getta sulla vicenda del paese, cui è costantemente riannodata. Così, come già con Buongiorno, Notte, dedicato al caso Moro, Il Traditore permette uno scandaglio sulla storia e l’identità dell’Italia contemporanea, ripercorsa lungo un arco di vent’anni di trame oscure e dense di interrogativi in attesa di risposta. È un modo, quindi, per fare del cinema civile nel senso più compiuto del termine, però senza sensazionalismi, cedimenti ideologici o teoremi da dimostrare.

Anche per questo Bellocchio si tiene ben distante da effettismi gomorristi e affonda il racconto in una dimensione e una luce tragiche – il regista ha parlato della ricerca del fotogramma “nero”, che restituisse i contrasti coloristici d’una Sicilia caravaggesca – che se mostra qualche assonanza con il cinema mafioso che l’ha preceduto è con la saga de Il Padrino, da cui riprende l’intuizione di cominciare il racconto da una cerimonia, che si svolge nel 1980, alla quale partecipano molti boss di spicco, nel momento in cui sta per esplodere la guerra di mafia tra le opposte fazioni di Stefano Bontate e i corleonesi di Totò Riina.

È una sequenza rivelatoria perché, come aveva già capito Francis Ford Coppola, le cerimonie costituiscono un momento esplicativo delle dinamiche di un organismo rigidamente strutturato e ipocrita come la mafia, sempre concertate come messe in scena in cui tutti sono personaggi che recitano una parte, in cui la maschera pubblica – con le retoriche fasulle dell’onore, il decoro familiare, il distorto senso di giustizia – copre la sostanza violenta, cinica e affaristica dell’organizzazione criminale. Sin dal prologo perciò emerge prepotente un tema chiave de Il Traditore, la vita mafiosa come recita e mascheramento. Cosa che giunge al suo massimo grado di chiarezza nel momento in cui, mettendosi in posa per la fotografia, il “cassiere di Cosa Nostra” Pippo Calò (Fabrizio Ferracane) poggia paternamente e apparentemente con affetto le mani sulle spalle del figlioccio Buscetta. Ciò che non gli impedirà, nella faida che esploderà di lì a poco, di torturare e uccidere senza rimorsi due figli di Buscetta che conosceva sin da bambini, fedele alla mostruosa logica delle vendette trasversali.

Il Traditore
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L’altro motivo che risalta immediato ne Il Traditore è quello, che riporta il film alla poetica di Bellocchio, è proprio il tema della famiglia e dei contorti legami tra padri e figli. Di cui è un esempio lo stesso Buscetta, che subito dopo la festa torna in Sudamerica insieme alla nuova compagna brasiliana Cristina (Maria Fernanda Cândido), abbandonando al tragico destino la sua vecchia famiglia siciliana, che conterà un incalcolabile numero di vittime. Questo è un tratto proprio di Buscetta, ossia l’insofferenza ai codici mafiosi che predicano la fedeltà alla famiglia (ovviamente solo formale), cui invece il “boss dei due mondi” risponde col suo stile di vita apertamente gaudente, con tante donne e figli da più compagne – cosa che gli costò una momentanea sospensione dall’organizzazione per adulterio.

Però la sua estraneità alla mentalità di Cosa Nostra è molto parziale. Lo dimostra il fatto che per tutta la vita, anche dopo essere diventato il testimone principale del maxiprocesso istruito da Giovanni Falcone, Buscetta continuerà ad affermare di non essere un traditore – la parola, ambigua, attorno a cui ruota tutto il film –, ma anzi, di essere rimasto fedele all’autentico senso dell’onore della mafia, soggiacendo quindi alla solita retorica della mafia “buona” d’una volta, che è esistita sempre e soltanto nei racconti autopromozionali, un’altra maschera, veicolati dagli stessi mafiosi.

La recita è anche quella di un personaggio, magnificamente reso da Favino, che affetta uno stile che non gli è proprio, come traspare dal modo ingessato dell’ex contadino che indossa impacciato completi eleganti. E la sua ricerca affannosa di un’alterità a un modello che gli resta appiccicato addosso come una matrice incancellabile è evidente anche nell’uso della lingua, che per le sue esperienze internazionali diventa un impasto di siciliano, portoghese, italiano. Diverso quindi dal siciliano stretto in cui resta ingabbiato l’altro testimone del maxiprocesso Salvatore Contorno (Luigi Lo Cascio, bravissimo anche lui), un pentito che però pure per questo resta tutto interno alla logica della vendetta mafiosa.

Il processo, anzi i processi, visto che si aggiunge anche quello degli anni Novanta a Giulio Andreotti, costituiscono un momento chiave del film, in cui, attraverso i serrati confronti processuali tra il “traditore” Buscetta e i mafiosi, affiora ancora più evidente la natura sfuggente, recitata delle parole. Sia nel drammatico confronto con Calò, sempre sul filo di quella distorta relazione padre-figlioccio, sia in quella con Riina (Nicola Calì), all’insegna d’una estraneità anche caratteriale – perché Riina è un uomo solo, mosso da una sfrenata sete di potere, che persino quando i mafiosi brindano orribilmente alla morte di Falcone resta in disparte, chiuso nelle sue cupe ossessioni.

In ogni caso il Tommaso Buscetta di Bellocchio e Favino non diventa mai un eroe, e infatti per evitare qualunque esaltazione del personaggio, il regista confezione anche un finale inequivocabile. Semmai è un personaggio autenticamente tragico, proprio per questa oscillazione perenne tra simulazione – è vero il suo tentativo di suicidio? – e barlumi di sincerità. Rimanendo comunque sempre al dato delle vicende pubbliche e senza mai addentrarsi nello psicologismo spicciolo, Bellocchio evita un’adesione col personaggio che potrebbe guadagnargli l’empatia dello spettatore, e continua a guardarlo con un distacco raddoppiato dall’immedesimazione sì mimetica, ma sempre critica, di Pierfrancesco Favino, che non fa nulla per renderlo gradevole, pur non negandogli un’umanità ed emozioni però sempre difficili da decrittare sotto quella ridda di dissimulazioni e contraddizioni, costitutive non solo del personaggio, ma dell’identità mafiosa in quanto tale.

È per questo che dalla fine della visione de Il Traditore lo spettatore non riemerge con certezze e parole d’ordine in più, né con l’idea di aver assistito a un ritratto compiuto e a tutto tondo di un mafioso. Ma allo stesso tempo, grazie al serrato confronto con l’enigma Buscetta e le grandi categorie del tradimento, della maschera e della famiglia, sente di aver capito della mafia molto più da questo film che da tanto cinema civile nobile ma assertivo.