Discorso intorno a Ed Sanders dei Fugs e al tempo che non torna indietro

Ed Sanders è un grande performer, poeta, istrione, cantante in bilico tra folk e una versione piuttosto scalcinata del rock’n’roll, una vera forza della natura


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Tornare indietro è, a volte, impossibile.

Penso al tempo, volendo giocare sull’ovvio, ma anche alla conoscenza.

Quando scopri il libero arbitrio, per dire, non puoi poi tornare alla fase precedente, quando magari credevi che tutto avvenisse perché così era stato predeterminato da una forza superiore, il Fato, Dio, l’omino di marzapane. Non si può tornare indietro, quindi ci si limita a andare avanti. A volte, va detto, è un bene. Si chiama evoluzione, sviluppo, altre meno, si chiama vecchiaia, deperimento.

Ma senza voler star qui a fare filosofia spiccia, da supermercato, pret-a-porter, a volte è impossibile tornare indietro perché ci diventa impossibile, o quantomeno molto difficile, tornare indietro.

Provate voi a indossare da adulti gli abiti che avevate da piccoli, non parlo di quando eravate bambini, basta quando eravate molto giovani.

O provate voi, se col tempo siete passati dal vivere in un monolocale a abitare in un appartamento, a tornare in quella situazione. Tutto è fattibile, figuriamoci, ho visto Nomadland, sono ferrato su cosa può succedere anche inaspettatamente, ma è sicuramente difficile, disagevole.

Dico questo, scrivo questo, perché mi capita a volte di pensare come fosse possibile che un tempo io e mia moglie si andasse in giro per l’Italia a bordo di una vecchia cinquecento. Bianca, la sua, giallo ocra, la mia.

Lo facevamo alla maniera spavalda di chi ha vent’anni, e lo facevamo anche in maniera piuttosto imprudente, sempre che la spavalderia non implichi in sé già le istanze dell’imprudenza, ho memoria di alcuni viaggi in autostrada fatti sotto il diluvio battente, noi a superare camion articolati, la cinquecento che veniva sballottata dai vuoti d’aria manco fossimo sul tagada, le ruoto che slittavano sopra il manto bagnato. La velocità sempre elevata, per quanto potesse essere elevata la velocità di una vecchia cinquecento, al punto che una volta, andando a San Marino con la sua cinquecento bianca, Marina ha letteralmente fuso il motore, troppo tirata quella povera macchina, lì in autostrada e poi per le strade provinciali. Siamo tornati indietro andando a venti all’ora, come nella canzone di Gianni Morandi, e all’arrivo non è che ci fosse tutto questo gran festeggiare.

Eravamo sempre in due, io e lei, con le valige dietro, sui sedili destinati ai passeggeri. A volte, quando eravamo in città e ci si voleva spostare, magari anche nei paesi vicini, per un sabato sera o una domenica pomeriggio da qualche parte, potevamo entrarci anche in cinque, piuttosto strettini, ma comunque tutti ficcati lì dentro.

È successo chissà quante volte.

Poi c’è stata una specie di evoluzione.

Prima ho avuto a disposizione una auto usata, presa perché dovevo fare tutti i giorni la spola con Falconara Marittima, quando facevo il servizio civile in un dormitorio per senza fissa dimora, per conto della Caritas. Non era una grande distanza, facevo una quarantina di chilometri al giorno, ma la mia vecchia cinquecento non avrebbe retto, per cui i miei mi comprarono a una cifra ridicola un Ford Fiesta color verde fluorescente. Dalle mie parti dicevamo “verde zizza”, facendo riferimento, ovviamente, non alle zizze nel senso di seni femminili, dalle mie parti si chiamano “poccie” e in genere sono rosa, con le aureole più tendenti al rosa scuro, quanto a quell’insetto verde piuttosto goffo nel volo che credo in italiano si chiami coleottero, la zizza, appunto.

Quando poi mio padre cambiò auto, io presi la sua vecchia macchina, una Renault 9, un deciso balzo di categoria per un ragazzo come me, senza lavoro. Auto che però utilizzai assai poco, dopo pochi mesi un brutto incidente la distrusse completamente, un frontale fatto con un idiota che imboccò una strada controsenso e, vedendomi arrivare, io ero in discesa, invece di frenare accelerò, questo ebbe a dichiarare, perché convinto che fossi io quello in torto. Coi soldi dell’assicurazione, non solo buttai la macchina, ma mi conciai piuttosto malino, comprai una Fiat Punto, il che poteva essere un passo indietro, perché la Renautl 9 era decisamente più grande, ma essendo questa un auto nuova di zecca non notai la cosa.

I passaggi successivi avrebbero visto me e Marina prendere sempre monovolume a sette posti, prima una Seat Alhambra, usata, poi una Nissan Evalia, la prima perché facendo spesso la tratta Milano-Ancona-Vasto e avendo con noi, magari, le bici dei bambini, le valige e altro, ci sembrava intelligente avere una macchina spaziosissima, la seconda perché, a un certo punto, i sette posti ci sarebbero diventati proprio necessari, essendo nel mentre arrivati i gemelli e avendo preso mia suocera a vivere parte dell’anno con noi.

Ecco, le rare, rarissime volte che mi è capitato di guidare la Fiat Punto di mia suocera, in Ancona, una volta ci sono dovuto arrivare fino a Fossombrone, da Ancona, fortunatamente, non da Milano, Fossombrone è in provincia di Pesaro, per acquistare da un pakistano il ricambio del motore del tergicristallo della mia Seat, perché per qualche mese in Italia non c’è stato nessun rivenditore di pezzi di quel marchio, e l’unica era trovare qualcuno che vendesse i pezzi usati, il pakistano aveva in garage due intere Seat smontate a pezzi, o quantomeno quel tipo di modello lì, la Volkswagen Sharan e la Ford Galaxy erano praticamente identiche alla Seat Alhambra, stessa macchina con un marchio diverso sul muso e sul cruscotto, prodotte tutte in Germani per mercati diversi, credo il pakistano campasse proprio rivendendone i pezzi sul web, ecco, le rarissime volte che è capitato di guidare la Fiat Punto di mia suocera, o qualche auto che non fosse una monovolume, ho sempre faticato parecchio, perché ormai sono abituato a guidare una macchina che sia alta sulla strada, perché sono abituato a stare largo mentre sto seduto al posto di guida, e più in generale perché una monovolume dà un senso di pesantezza sulla strada che una utilitaria non può dare, l’essere spostati dai camion che si superano o che ci superano, per capirsi, quella roba lì.

Una volta, era la prima metà degli anni Novanta, diciamo che era il 1994, al massimo il 1995, perché in quell’anno ho preso la Fiesta color zizza, ci è capitato di andare a Cesena, e siccome io e Marina eravamo due ragazzi piuttosto naif, mettiamola così, due provinciali con una grande voglia di conoscere il mondo, ma anche piuttosto inesperti del mondo, per andare a Cesena, circa centoventi chilometri da Ancona, forse qualcosa di più, facciamo centotrenta almeno, abbiamo preso la statale, così da non andare in autostrada (dopo il frontale fatto con la Renault 9 guidare per un po’ mi ha creato una certa ansia). Dovevamo andare a Cesena perché lì il prof che stava seguendo la mia tesi come corelatore, il professor Minganti, di Lingua e letteratura americana presso il dipartimento di lingue di Bologna, io mi stavo per laureare in Storia Moderna con una anomala tesi sul Rapporto tra hip-hop e movimento afroamericano, tesi in Storia Americana, col professor Federico Romero, che non avrei mai risposto, mollata l’università a un esame dalla fine, tesi già conclusa, vedi alla voce “idiota”, il professor Minganti aveva organizzato un incontro con Ed Sanders i Fugs, e a me, appassionato di letteratura americana e proprio in quei mesi novello scrittore, sembrava davvero incredibile poter conoscere di persona uno dei miei idoli. Il viaggio durò qualcosa come tre ore e mezzo, pensate di farvi centotrenta chilometri passando per non so quante decine di cittadine e paesi, i semafori, le strade sbagliate, perché all’epoca ci si muoveva con le carte Michelin, un vero delirio, ma siccome io e Marina eravamo sì naif, ma non scemi, arrivammo comunque in tempo, eravamo partiti con largo anticipo, con l’idea in caso di farci un giro per Cesena, vedere i famosi canali di Leonardo da Vinci, passeggiare mano nella mano alle luci della sera. Poco conta che in realtà stessimo confondendo quel che sapevamo di Cesena con quello che era relativo a Cesenatico, fortunatamente è a Cesena che siamo andati, perché era a Cesena che c’era l’incontro con Ed Sanders e i Fugs.

Arrivati giusto in tempo, Ed Sanders si dimostrerà di lì a poco un grande performer, poeta, istrione, cantante in bilico tra folk e una versione piuttosto scalcinata del rock’n’roll, una vera forza della natura. Le sette ore complessive passate in auto per andarlo a sentire le valeva tutte, anche se, a dirla tutta, ai tempi Ed Sanders era parte del mio pantheon più per una faccenda di contiguità che per reali meriti personali, o meglio, per meriti personali che io però ancora non avevo avuto modo di riconoscere, avevo solo intuito.

Avrei dovuto aspettare anni, infatti, prima di poter leggere i suoi libri, quella sera comprai un opuscolo ciclostilato con alcune sue poesie, ma non so se è possibile definirlo tecnicamente un libro. E avrei dovuto aspettare anni per poter ascoltare tutta la sua discografia, fatto che sarebbe stato possibile solo in virtù del mio uscire dai confini patri, per lavoro, perché in Italia, negli anni Novanta, i dischi dei Fugs non si trovavano con grande facilità, e grazie ai siti di file sharing illegali, Torrent o Emule, Dio li abbia in gloria, grazie ai quali, va detto, ho ascoltato un sacco di musica di cui avevo letto e che mai avevo trovato e per di più musica di alta qualità audio, non come quelle robe che girano con lo streaming, furto per furto.

Ora, nella mia libreria, ho una edizione per i tipi di Shake Racconti di gloria beatnik, e una rara edizione Feltrinelli di La famiglia di Charles Manson, datata 1972, arrivata nelle mie mani solo poche settimane fa, perché quando vedo che un libro viene edito in Italia ma era già stato pubblicato in passato, sono una persona fatta male e che ha coi libri fisici un rapporto molto singolare, non posso che andare alla ricerca lenta e disperata delle prime edizioni, a costo di metterci, è questo il caso, quasi ventisei anni.

L’idea, comunque, di un artista che mescolasse senza apparentemente una logica precisa il suo ruolo di poeta, di narratore, di cantautore, di musicista, di giornalista e biografo, passando dalla parola scritta a quella cantata, dai reportage ai dischi, dal palco alle pagine dei giornali, mi ha davvero sempre colpito, non credo sia in effetti un caso che poi io, nella vita, mi sia dilettato a fare un po’ tutte queste cose, senza entrare nella storia delle letteratura italiana, certo, come invece Ed Sanders è entrata in quella americana, e sicuramente senza andarmi a prendere un posto di prestigio nel gotha della controcultura, credo che da noi questo gotha non esista proprio, perché non esiste la controcultura, ma diciamo che me la sono abbastanza cavata, provando a fare esattamente quel che mi sentivo di fare, in tutti i campi in cui mi sentivo di esprimermi, fosse la narrativa, la critica musicale, la musica, le biografie, il giornalismo, i reportage, i film, il teatro, la tv e la radio, anche tanti palchi calcati coi miei reading, quando ero più giovane e ancora avevo voglia di caricare la macchina delle mie cose e partire in giro per l’Italia (o il resto del mondo).

A proposito di macchina, o di macchine, già ho stilato l’elenco di quelle che ho avuto nel corso della mia cinquantennale vita, toh, trentennale vita, non ho infatti elencato quelle che ho avuto quando le auto nelle quali salivo erano quelle di mio padre, nell’ordine una Opel Kadett celeste, una Opel Olimpia giallo canarino, e la famosa Renautl 9, argentata, a lungo, diciamo fino a pochi anni fa, non c’è stato viaggio che io abbia fatto, parlo di quelli che prevedevano una permanenza di un minimo di rilievo laddove stavo andando, non di una gita fuoriporta (anche se spesso anche nelle gite fuoriporta accadeva quel che sto per dire), che io non abbia portato con me la mia amata chitarra. Non che fosse previsto che io la dovessi usare per qualcosa di specifico, nel senso, non che io partissi con l’idea di dover suonare in un locale, fare un concerto, un reading, ma più come accompagnamento, l’idea di averla con me era rassicurante, volessi svilire quanto detto fin qui tirerei in ballo la coperta di Linus, ammazzando ogni poesia.

Pensateci, io, mia moglie, poi io mia moglie e la nostra prima figlia, Lucia, poi io, mia moglie, e i nostri primi due figli, all’arrivo di Tommaso, poi io, mia moglie, i nostri quattro figli, spesso anche mia suocera, le valige, le sacca da mare, borse e borsette, i computer, e da qualche parte, fosse anche appoggiata su un cruscotto, una chitarra. Anche lì, mai una chitarra qualunque, perché le mie chitarre, sei in tutto, hanno tutte in qualche modo una storia, una me l’ha regalata Francesco Renga, con la speranza che io riuscissi a scrivere una canzone pop, speranza vana, una me l’ha regalata Gigi D’Alessio, come premio inevaso del mio crowdfunding Monina Sì vs Monina No, del 2018, due, semiacustiche, me le ha regalate la Eko, perché sono credo uno dei massimi propugnatori della musica suonata e loro hanno sentito il dovere di rendermi omaggio, una, elettrica, reperto storico di quando suonavo nella band punk hardcore degli Epicentro, l’ultima, una piccola chitarra classica di quelle che si suonano quando si è bambini, sui sei, massimo otto anni, presa da me medesimo per andare a fare una piccola jam con Ilaria Porceddu, ai tempi in cui lei usciva col suo album Di questo parlo io, l’idea di fare una jam a letto, con due strumentini, il la chitarrina classica, lei un pianoforte giocattolo, figlia del voler in qualche modo giocare, divertirsi, mescolare le carte.

Ogni viaggio la mia chitarra, una delle mie chitarre, era lì, pronta all’uso. A costo di dover incastrare il resto ancor più di quanto già non facessi di mio, roba che neanche un campione di tetris o il Verdone che si sta per mettere in viaggio con Magda. Magari ci mettevo mezz’ora di più, a caricare la macchina, ma un posto lo trovavo.

Un anno, vai a sapere quando, eravamo talmente pieni che al posto della chitarra, o della chitarrina, sono riuscito a portare solo l’ukulele, anche se suonare l’ukulele non mi piace, e comunque, come nella stragrande maggioranza dei casi quel portarmi dietro uno strumento era più che altro un vezzo, un voler sottolineare uno status, vai poi a capire quale. Infatti a un certo punto ho smesso, non perché io non abbia più a cuore quel discorso, ma perché invecchiando diventa davvero complicato star dietro a tutto, e come ho smesso di caricare i miei zaini di Moleskine e quaderni dove prendere appunti, io che da anni scrivo solo al PC o al massimo con un tablet, ho smesso anche di portare in giro per l’Italia strumenti che tanto non avrei suonato. Ed Sanders, beh, a ottantuno anni lui è ancora lì a scrivere poesie, pamphlet, canzoni, fare performance, ma quella era un’altra generazione, signora mia, non scherziamo.