Il punto critico della legge Zan, che non regge, sta nel demandare la decisione, quanto a facoltà di opinione o di raziocinio, a un giudice

Un giudice non deve fare la legge, deve applicarla; non sta nel novero delle sue competenze plasmare la società secondo convinzioni proprie o del partito di riferimento


INTERAZIONI: 693

Da Alberto Manzi e il professor Cutolo a Fedez e Greta. Dalla divulgazione popolare, paternalistica ma accurata alle parole in libertà dei nientologi. Bel risultato, bella evoluzione. Temi sconfinati, complicatissimi come il clima e le sue mutazioni, come i diritti umani affidati a dei Peter Pan che non hanno neppure completato il ciclo di studi elementare e se ne vantano. La fanciulla svedese pontifica di ambiente ma non va a scuola e non perde occasione per farlo sapere, come fosse una medaglia al valore. Le leggi arzigogolate lasciate a cantanti che risolvono come segue: si dipingono sulle mani la scritta Ddl Zan e mandano uno di loro a un concerto sindacale a dire: io voglio che mio figlio metta lo smalto. A 3 anni. Poi lanciano una linea di smalti per uomo, perché vanno bene i diritti ma conditi dal sale del sano affarismo è meglio.
Ovviamente senza leggere la norma, senza coglierne le implicazioni. La si butta sullo scontro ideologico, il genere senza generi, il genere indefinito come dice la stellina Demi Lovato che, percependosi “non binaria”, esige il “loro” quando qualcuno la interpella. Ma la questione non è di percezione, è di libertà. Cosa dice questa legge Zan? Dice fondamentalmente una cosa: che ci si può esprimere, si può parlare come si vuole “purché” in modo confacente alla legge medesima altrimenti si rischia la galera. E in quella sommessa congiunzione, infilata all’art. 4, “che introduce proposizioni condizionali con verbo al congiuntivo e sfumatura avversativa”, sta la chiave del busillis: sei libero ma all’interno del limite e il limite non ha limiti. Come mette in chiaro il giurista e magistrato Alfredo Mantovano in un libro appena uscito e subito censurato (“Legge omofobia perché non va. La proposta Zan esaminata articolo per articolo”), basta all’incauto una parola, una sola parola per ritrovarsi sotto le forche caudine di un processo. Del resto, già ora, senza neppure essere stata approvata, la legge pesa: chi la discute passa automaticamente da aguzzino, da intollerante, c’è una pressione volta a far passare di fatto la norma prima che in diritto. Insomma non si può discutere, come per altri temi apparentemente indiscutibili: accoglienza, diritti, ambiente e così via. Chiedere quanto costa l’accoglienza, quali le conseguenze senza un limite, implica l’accusa inesorabile di razzismo. Il bene è buono, il male è cattivo. Ma le cose non si risolvono come vuole il papa Bergoglio, non a parole, a slogan e neppure con la buona volontà degli sventati o dei farisei come i testimonial della sottocultura pop che si dipingono le mani o le natiche e poi ci fanno su gli affari.
La società attuale sembra sempre più arrendersi al gioco delle irresponsabilità effervescenti: io mi invento l’isola che non c’è, poi il conto lo pagheranno gli altri e se qualcuno finisce male è un problema suo, o, come dicono i cinici: nessuna buona azione resterà impunita. Il sindaco di Riace, Mimmo Lucano, fondatore dell’omonimo metodo dalle conseguenze imprevedibili ma votate a sicura dissipazione, ha appena ricevuto una richiesta di galera per quasi 8 anni; le risultanze a suo carico, sono agghiaccianti, le accuse terribili, non sapendo di essere intercettato lui diceva: mi debbo fare eleggere da qualche parte se no finisco dentro. C’è a un passo e allora, forte dell’appoggio dei media, insiste: sono un santo, un benefattore, voglio fare altre mille Riace. Una sola è bastata, ha accumulato debiti per 10 milioni che non si sa bene dove siano finiti e gli ospiti, una volta spariti i soldi, lo hanno mollato. Così che, per non sbagliare, Mimmo chiede, coerentemente, una candidatura alle Regionali con De Magistris, altro Masaniello da centro sociale. Nel padovano un prete un po’ visionario come lo sono i faziosi, don Albino, fondatore dei Beati costruttori di pace, ha dato per anni del razzista a chi gli consigliava cautela: è andata a finire che ha dovuto denunciare un nucleo di sinti che gli hanno bruciato 370mila euro, accumulate non si sa come, coi pretesti più assurdi e lui che pagava, pagava; quando si è insospettito gli hanno fatto 15mila telefonate di minacce. Un po’ di prudenza, di lungimiranza no? No, quella era dei razzisti, delle carogne. E adesso vogliono tanto di norma legge per sancirlo.
Nella legge Zan non è questione di sensibilità o di tutele, il punto critico, che non regge, sta nel demandare la decisione, quanto a facoltà di opinione o di raziocinio, a un giudice: è il magistrato che dovrebbe decidere, volta per volta, se chi ha detto cosa sia nel recinto del lecito o meriti una pena, eventualmente detentiva. E, siccome le pene arrivano a livelli di mafia e di strage, anche cinque, sei anni, ne deriva pure il ricorso a intercettazioni ed altre violazioni preventive della sfera personale. Ma nessuna legge, per nessuna tutela, in nessun senso, in un regime che si definisce democratico può dire: io sono per la totale libertà per cui tu sei libero di essere come dico io altrimenti ti sbatto davanti a un giudice che ti schiaffa in galera.
Davanti a quali giudici, poi! In un Paese dove la magistratura è storicamente targata, militante e della quale emergono a getto continuo scandali, logge vere o presunte, ricatti, spiate, segreti confidati nella tromba delle scale, scenari che fanno mettere le mani nei capelli. Ma un giudice non deve fare la legge, deve applicarla; non gli spetta il compito della rivoluzione culturale, non sta nel novero delle sue competenze plasmare la società secondo convinzioni proprie o del partito di riferimento. Problematiche spinose, rischiose: ma la koiné mediatica ha trovato il modo di semplificare con la mannaia più che il rasoio di Occam: appaltando la divulgazione a Fedez, uno sprovvisto di strumenti di decodifica. Cioè il “Paese senza spina dorsale, disossato, gelatinoso” di cui parlava Giovanni Sartori.