“Quando feci Il Fiume Rosso pensai si potesse realizzare un western adulto, per grandi, e non uno dei solito cowboys. E da quel momento si misero a fare tutti western intelligenti”. Così disse Howard Hawks in un’intervista ai Cahiers du Cinéma nel 1956 riferendosi al suo primo vero western da lui diretto nel 1948 (dopo la coregia, non accreditata, de Il Mio Corpo Ti Scalderà, firmato da quel singolare personaggio che fu Howard Hughes).
Ed effettivamente dopo l’apogeo del western prebellico raggiunto da un film come Ombre Rosse intorno al 1940 – André Bazin scrisse che il film di Ford era “l’esempio ideale di questa maturità di uno stile giunto al classicismo” –, Il Fiume Rosso segna, accanto ad altri film coevi come Alba Fatale (1943) di William Wellman o Duello Al Sole (1946) di King Vidor un cambio di passo nella storia del genere, verso, come lo definì un volume curato già negli anni cinquanta da Tullio Kezich, il “western maggiorenne”.
Il primo elemento che sorprende e scarta dal consueto ne Il Fiume Rosso è il personaggio protagonista, Tom Dunson, che non è l’esemplare canonico del cowboy senza macchia e senza paura, ma è un individuo psicologicamente più complesso, spinto da motivazioni che si mischiano a pulsioni e sensi di colpa che lo rendono ambiguo e contorto. È nota la storiella, citata dallo stesso Hawks, secondo la quale quando John Ford vide il “suo” John Wayne nel ruolo di Dunson si sorprese, usando un’espressione colorita, che il Duca fosse davvero in grado di recitare. Effettivamente Dunson è un personaggio sfaccettato e scomodo: nel prologo del film, ambientato nel 1851, lo si vede abbandonare una carovana che stava scortando – e con lei la donna che ama – perché mosso dall’ambizione di trovare una terra in cui poter allevare una sua mandria. Purtroppo poco dopo essersene andato insieme al fedelissimo Groot (l’impagabile Walter Brennan), viene a sapere che la carovana è stata assaltata dagli indiani e che la sua ragazza è stata uccisa.
- Wayne, Clift (Actor)
“Il personaggio interpretato da Wayne è un uomo che ha commesso un grande errore e ha perso la ragazza che amava proprio per colpa della sua ambizione”, disse Hawks in un’intervista a Peter Bogdanovich (grande amante del film, di cui inserì una sequenza nel suo L’Ultimo Spettacolo, cosa che fece anche Luchino Visconti in Bellissima). Un’affermazione cui uno studioso di Hawks attento come Jean Gili ha aggiunto: “Dunson rappresenta il tipo dell’eroe ambiguo la cui volontà di creare un impero di bestiame nasconde un tentativo di autogiustificazione”. Infatti subito dopo, Dunson adotta un trovatello, Matthew, unico sopravvissuto all’eccidio, che vaga traumatizzato nel deserto. I tre, che simbolicamente riassumono le diverse età dell’uomo, il quasi anziano Groot e la coppia putativa padre-figlio Dunson e Matthew (da adulto interpretato da Montgomery Clift, al suo primo ruolo cinematografico), intraprendono la loro grande avventura verso la fondazione di un impero, occupando una terra nel Texas nei pressi del Fiume Rosso – conquistandola col diritto del più forte – su cui impiantano il più grande allevamento di bestiame che si sia mai visto, circa diecimila capi, capaci, come sottolinea Dunson, “di sfamare tutto il paese”.
Con una vasta ellissi Hawks fa un salto di 14 anni, giungendo al 1865 in cui ormai la sfida del pioniere alla ricerca della sua terra promessa è stata vinta. Ma è un impero che sta cadendo a pezzi, perché la sconfitta nella Guerra di Secessione ha impoverito il Texas, e allora l’unica soluzione per vendere il bestiame e fare profitti è intraprendere un lungo esodo (i riflessi biblici della storia sono evidenti e voluti), trasferendo al Nord l’enorme mandria di diecimila capi, verso il Missouri. Da qui in poi, tra pagine visive di straordinaria bellezza che sottolineano il respiro epico del racconto – la partenza con una panoramica a trecentossessanta gradi seguita da primissimi piani dei cowboy; l’attraversamento del fiume con gli animali (Hawks ne usò ben 1500) la vicenda diventa sempre più complessa, e la tortuosità del personaggio di Dunson sempre più stridente.
Per mantenere l’obbedienza dei cowboy, esasperati dalla durezza e dalle difficoltà della trasferta, Dunson applica un modello di comando via via più spietato, uccidendo dei rivoltosi e giungendo a minacciare di impiccarne alcuni. A quel punto Matthew prende il sopravvento e detronizza il “padre”, decidendo, in accordo con gli altri, di abbandonare l’idea fissa del Missouri e puntare su Abilene, nel più vicino Kansas, ove si dice dovrebbe passare la neonata ferrovia. Dunson, abbandonato al suo destino, giura al “figlio” che lo ritroverà e ucciderà. Così il viaggio si trasforma anche in una caccia all’uomo dai risvolti sempre più sinistri. Fino a quando nella vicenda non compare anche una figura femminile, Tess (Joanne Dru) di cui il giovane Matthew s’innamora immediatamente (un evento che ne segna chiaramente, seppur nell’assoluto eufemismo del cinema dell’epoca, la maturazione sessuale e quindi la trasformazione in adulto), che assumerà un ruolo capace di modificare il rapporto tra i due uomini – e rappresentando per Dunson un’immagine vicaria della donna che ha perso in gioventù.
Ce n’è indubbiamente abbastanza per capire l’originalità de Il Fiume Rosso, che Hakws trasse da un racconto di Borden Chase che lo sceneggiò anche, lamentandosi del fatto che il regista cambiò completamente il finale. Il fatto che Chase fu poi l’autore degli script di due importanti film dei primi anni Cinquanta di Anthony Mann, grande innovatore del western, Winchester 73 (1950) e Là Dove Scende Il Fiume (1952), non fa che confermare la centralità del film di Hawks nello sviluppo del genere. È immediatamente dopo questo film, per esempio, che John Ford diede a Wayne un ruolo in cui emergeva il tema della riflessione sulla vecchiaia, I Cavalieri Del Nord Ovest (1949). E certamente c’è un riflesso del personaggio di Dunson anche nel protagonista di Sentieri Selvaggi (1956), altro personaggio forte, sgradevole, apertamente ossessionato. E la psicologia non lineare e tormentata caratterizza anche molti dei ruoli indossati da James Stewart nei film di Anthony Mann (interpretati certo con uno stile più mosso rispetto all’asciuttezza di Wayne).
Il Fiume Rosso perciò segna l’eta adulta del western e lo fa con uno stile lento e maestoso, che mette insieme la predilezione hawksiana per le storie incentrare sui piccoli gruppi a una riflessione storica e sociale ad ampio raggio, nella quale entrano gli effetti della guerra di Secessione, il pragmatismo imprenditoriale americano, l’apertura di nuovi sentieri che permettano di creare opportunità di mercato – in questo caso la Pista Chisholm, che univa Sud e Nord del paese. Nell’interferenza dei due livelli, il conflitto tra Dunson e Matt è sia quello edipico tra un padre e un figlio che uno scontro tra visioni del mondo. Dunson è un capitalista della prima era, che ha fatto i soldi grazie alla determinazione e alla forza, ma è legato ancora a un’idea di leadership solitaria e aggressiva e, soprattutto, si ostina a puntare sul Missouri perché, da vecchio pioniere che s’è fatto da sé, non crede all’esistenza della fantomatica linea ferroviaraia di Abilene e, stringi stringi, non si fida della tecnica.
Matt invece – in questo senso la scelta di un attore così estraneo al genere come Clift è indovinata –, accusato di essere troppo morbido, è invece un leader di nuovo conio, che rispetta e coinvolge le persone che lavorano con lui e che, soprattutto, confida che il progresso rappresentato dalla ferrovia, invece di ostacolare potrà amplificare le opportunità imprenditoriali. Il Fiume Rosso è un film sul processo di civilizzazione e il passaggio a una nuova era della storia americana, in cui spirito dei pionieri e tecnologia si spalleggiano l’un l’altro per consentire di realizzare il destino manifesto del paese e il sogno americano di autorealizzazione. Un processo in cui si attua anche la saldatura tra Sud e Nord dopo una guerra dilaniante: perché le migliaia di capi condotti nel kansas serviranno per sfamare il settentrione del paese, anch’esso affaticato dalla lunga guerra.
Alla complessa tessitura de Il Fiume Rosso, nel quale risuonano temi simbolici, elementi storici, analisi psicologiche, Howard Hawks aggiunge la scioltezza della sua regia, capace sempre di mescolare i toni, operando un rinnovamento del genere che non serve solo a rendere adulto il western, ma anche a ibridarlo, con innesti da commedia, che emergono, per esempio, nei siparietti tra Groot e un indiano col quale ha perso al poker la sua dentiera – per cui ogni volta che deve mangiare è costretto a chiedergliela in prestito. E quando arriva il personaggio femminile di Tess, emerge anche il tema caratteristico della commedia hawksiana della schermaglia tra i sessi, nel quale la donna è sia il motore del cambiamento che il terzo incomodo all’interno di storie di solidarietà tipicamente maschili – spesso nei film di Hawks tra due amici, qui tra un padre e un figlio incatenati in una relazione intensissima di amore-odio.
Giusto per concludere, e per sottolineare la modernità de Il Fiume Rosso, basterebbe ricordare che c’è un capolavoro recente del cinema americano costruito esattamente con gli stessi materiali narrativi di partenza. Cos’è, infatti, Il Petroliere di Paul Thomas Anderson, se non una storia su di un capitalista ambizioso e ossessivo fino all’autodistruzione, che intrattiene con il figlio adottivo un rapporto ambiguo e distorto?