Mimì, qualcuno ti ha uccisa ma la tua voce è sempre viva e canta eterne meraviglie

Il ricordo di una grande artista che ha ricevuto tanti trionfi e riconoscimenti in tutto il mondo, ma mai la felicità!


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Mia Martini non poteva essere felice. Ce l’aveva negli occhi, quegli occhi sempre velati di un dolore che non era malinconia, era una condanna a vivere. Ce l’aveva nella voce, quella voce che più cantava e più feriva e si feriva: veniva dall’anima, ed era così ammalata quell’anima. Mia Martini la trovano ventisei anni fa, oggi, esanime nell’appartamento di Cardano al Campo, Varese: stava lì da un mese, rintanata. L’anima è andata via, a cercar pace, a trovar pace, il corpo un fantoccio vuoto di voce, di occhi, di vita. Fanno l’autopsia e stabiliscono: overdose, ma da tempo eccedeva in anticoagulanti per un fibroma che non voleva rimuovere. S’era ostinata, no, niente operazioni, quindici anni prima a forza di terapie, di farmaci s’era scoperta una voce diversa, corde vocali che non vibravano più come prima, e recuperare quel timbro era stato un inferno. Mia passava da un inferno all’altro, un inferno dentro l’altro. Quegli amori sbagliati, quegli abbandoni ingiusti. Quegli uomini che non sapevano mai capire.
Mia si preparava per una tournée dopo gli anni della cattiveria, della malignità: “Mimì porta male, porta sfiga, statele lontani”. Lei, fra gli altri, incolpava Gianni Boncompagni, il regista di “Non è la Rai” con le lolite che sgambettavano canticchiando “Merda, merda, merda” e Ambra Angiolini eterodiretta. Lo disse pure ad Enzo Tortora, in una intervista: “Boncompagni mi ferisce, quando arrivo dice a tutti di stare attenti, che scoppiano i microfoni”.
Ma adesso il feretro è lì e ci sono quattromila persone, molti colleghi, tutti in lacrime. Quanti coccodrilli. Ma tutti, noi tutti orfani di una voce. Se uno vuol capire cos’è la disperazione, deve sentire cantare Mimì. Deve guardarle gli occhi quando canta. Sai quando una voce non bara, quando ti lascia senza fiato. Aveva, questo è vero, un repertorio all’altezza, roba che pochi potevano permettersi, Padre davvero, subito censurata, Minuetto, Piccolo Uomo, Donna Sola, La Costruzione Di Un Amore, La Nevicata Del ’56, E Non Finisce Mica Il Cielo, Almeno tu nell’Universo, che le stiamo a citare tutte a fare, tanto in braccio alla sua voce diventavano ancora più belle. Diventavano altro. Così anche i suoi tributi, da Pino Daniele a Tom Waits, e non c’è protagonista della musica italiana che non abbia scritto per lei. Charles Aznavour la volle sul palco con lui all’Olympia di Parigi: “Ha una voce che mi emoziona, e non succede spesso”. Il piccolo grande armeno sentiva che in braccio a lei le canzoni trasfiguravano nel canto di una donna che non poteva essere felice e di una terra che non poteva esser felice, la voce della sua aspra Calabria, così stupenda, così maledetta. Sorella, come tutti sanno, di Loredana Bertè, non meno tormentata, ma in modo diverso, tanto esplosiva, sfacciata quanto l’altra riflessiva, dolente; sorelle che si odiamavano, figlie di un padre troppo difficile, un preside che era andato a insegnare nelle Marche, e le ragazze facevano vacanza a Porto Recanati. Poi fuggirono a Roma, per incognite parallele e intrecciate.
Mimì aveva cominciato nel 1963, sedicenne ragazza ye-ye; ma la sua cifra era l’opposto, quell’intensità che divora, e quando torna, nel 1971, non ha più esitazioni. Tanti trionfi, riconoscimenti, in Europa, in tutto il mondo, ma mai la felicità. Anche un arresto, oggi comico, per un paio di spinelli: proprio a lei, quando tutto il mondo fumava e peggio. Ci sono artisti nati per questo, tenere compagnia con la propria sofferenza a chi soffre. E lei continuava, sotto quei cappelli ampi come piazze metafisiche di Guttuso, e, sotto i cappelli, quel sorriso enigmatico, che cela la solitudine, i capelli a cascata sui lati, le vesti ampie, volanti, le mani sulla bocca, gli occhi sgomenti, una visione liberty come la dama del “Silenzio” di Giorgio Kienerk. Canta, combatte, resiste fino a metà anni Ottanta, poi si arrende: “Non posso farcela, mi ritiro”. Dopo un Sanremo, dicevano che non volessero farla salire sull’aereo, temevano il disastro. Ed erano i suoi colleghi a dirlo. Una immagine atroce: tutti insieme alla partenza, lei sola, da sola, da una parte, in attesa dell’imbarco. Chi resiste così?
Quell’atroce scherzo, quel marchio che la voleva jettatrice: è l’amoroso mondo della musica, fatto di rancori, di meschinità e di vertiginose bassezze: sei troppo intensa, troppo brava? Adesso ti aggiustiamo noi, menagrama. Il modo più improbabile, impalpabile, volgare, era quello più sicuro, più efficace. Ma non era Mimì a portar male a qualcuno: erano “loro” a portare male a lei. La gente crede sempre volentieri al peggio, anche se è folle.
Dopo quattro, cinque anni sarebbe tornata: l’arte chiamava più forte del silenzio, del buio. Per la gioia di chi la amava e anche di chi le voleva male: quelle voci biforcute non si sarebbero mai fermate, “E’ tornata la Martini, chissà che succederà adesso”. Renato Zero arriva a “garantirla”, con tanto di firma, contro assurdi incidenti al festival di Sanremo. Pazzesco, ma non tanto per chi conosce l’amoroso mondo dello spettacolo dove tutti si sorridono, si vogliono bene, si abbracciano, però, poi, dietro le quinte… (Renato ebbe a salvare anche la sorella Loredana, da suicidio, dopo l’amore tragico con Borg, il tennista: nella casa di Lambrate, Milano, c’era sempre la segreteria finché lui capì: una telefonata al 118 e la presero davvero per i capelli, era già dall’altra parte).
Chi lo sa, forse nel desiderio d’annientare qualcuno è contemplato l’affetto che egli dà e riceve, che lo lega agli altri. Ci sono cantanti, oggi come ieri, oggi più di ieri, che trasmettono solo soldi odiano chi trasmette l’immenso: a Mimì veniva naturale, neanche si sforzava, bastava lasciare scorrere il buio che aveva dentro. Un’altra foto: Mimì e Gabriella, la Ferri, amiche nell’oscurità: a chi toccherà prima?
L’amore non muore, ma la regina triste si punge da sola e la voce lascia scie di luminoso dolore. L’ultimo trionfo a Sanremo, nel 1992, con Gli Uomini Non Cambiano, testo di Bigazzi, il Sommo, arriva seconda e pare troppo poco. È l’ultima carognata ed è l’ultimo testamento, i giochi sono fatti. Mia Martini è sempre più vulnerata, fatica a esistere, a resistere. Svanisce come lo fanno i Grandi e sa piazzare ancora un successo, Viva l’Amore, di Mimmo Cavallo, uno dei suoi autori preferiti, e poi un altro tour, ma la salute è andata, ricoveri improvvisi, e continui, l’alienazione di Cardano al Campo, i propositi di un altro giro di concerti e invece, il 12 maggio del 1995, la resa. Abusava? Sì, abusava. Forse di sostanze, certo di solitudine, di sofferenza, di incubi ormai incontrollabili, di notti troppo bianche, di giorni troppo al buio. Di overdose di silenzio. Della maligna gioia di chi la sapeva affondare. Poi altro silenzio, definitivo, irreversibile. Se ne accorgono proprio per quello, un silenzio ostinato, preoccupante, alla fine forzano la porta. C’è una marionetta che non canterà più. Qualcuno piange per finta, qualcuno mormora le solite vergogne. Qualcuno si sente in colpa, ma non lo ammetterà mai.
Da allora una pioggia incessante di rimpianti spesso ipocriti e ovviamente rassegne, raccolte, omaggi, riscoperte, la pioggia di eternità che non riscatta. Mimì, qualcuno ti ha uccisa ma la tua voce no e canta eterne meraviglie.