Di come Prince o David Foster Wallace non ci stanno raccontando l’oggi

Mi distrae dai due il pensiero che i forzieri di Prince siano pieni di inediti e a breve ne uscirà uno, attesissimo


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La faccenda dell’assenza e della memoria è complessa, e difficilmente se ne viene a capo. Nel senso che nel momento in cui qualcuno non c’è più, per un taglio, una crisi, un lutto, tendiamo a ancorarci alla memoria, al ricordo, per altro consapevoli solo a tratti, in genere quando succede agli altri e noi dobbiamo star lì a spiegarlo loro, comodi maestri, che la memoria è quasi sempre frutto di una rielaborazioni, fatti e eventi realmente accaduti che diventano altro, cambiano le trame e le sfumature, finendo sempre più per coincidere con quel che ci vogliamo ricordare che con la realtà. Poi, è chiaro, volessimo andare a analizzare cosa in effetti sia la realtà, lo so bene, finiremmo per perderci nei sofismi, il rosso che io vedo è uguale al rosso che vedi tu?, e via discorrendo.

Nei fatti quando qualcuno non c’è più, prendiamo in analisi un lutto, esperienza che più meno tutti avremo vissuto, a diversi livelli, da una parte dobbiamo gestire un vuoto, l’assenza, dall’altra provare a riempirlo con la memoria, andando quindi a costruire una sovrastruttura di ricordi, di accadimenti, capace di mantenere non solo vivo il pensiero di chi è morto, ma anche di renderlo in qualche modo attivo, capace cioè di seguire le nostre vicende umane assumendone di volta in volta la forma, a nostro beneficio.

Un lavoro complesso e assai difficile, fossi uno che invece che perdersi nei propri ragionamenti avesse in qualche modo studiato seriamente queste questioni ora saprei dirvi se è il subconscio o l’inconscio a entrare in campo, e giuro che non saprei neanche distinguere l’uno dall’altro, mi si parassero di fronte.

So solo che è per questo che quando muore qualcuno di famoso, che è il titolo di una bellissima striscia di Zerocalcare, dove però si affrontano più che altro le vicende legate ai social, a riguardo, si tende a soffrirne come fosse una persona che conoscevamo nella vita di tutti i giorni, conoscevamo nel senso che anche lui, il morto, conosceva noi, perché è chiaro che se quando muore qualcuno di famoso, togliendo proprio i casi toccati da Zerocalcare, cioè quelli nei quali elaboriamo un lutto pret-a-porter sui social, ignorando totalmente di chi si stia in realtà parlando, vuol dire che noi il morto lo conoscevamo, ne conoscevamo le opere, lo avevamo amato, ne sentiremo la mancanza, ma lui non conosceva noi, era il nome sulla copertina di un libro o di un disco, o sui titoli di coda di un film, non un nostro amico o conoscente, e io so solo che è per questo che quando muore qualcuno di famoso, qualcuno che noi conosciamo in quel senso lì, ne conosciamo la parte “pubblica”, tendiamo a trattare la cosa come un lutto personale, perché sappiamo che da quel momento in poi non sarà più possibile incontrarlo in quel che faceva, libri, dischi o quel che è, andando così a creare una prospettiva di assenza paragonabile a quella che un morto a noi vicino porterà nella nostra vita fisica, quotidiana.

Nel caso del morto famoso, è ovvio, ci sono le opere, memoria calcificata e cristallizzata, nei confronti dei quali non possiamo che lavorare di prospettiva, perché il rapporto che noi abbiamo avuto o abbiamo con un’opera non viene meno con la morte dell’autore, è evidente, un libro che abbiamo letto da ragazzi, uso questo esempio per tutti, rimane tale anche se l’autore è morto ancor prima che noi lo leggessimo, nulla cambierà nella nostra memoria. Quindi noi ci troviamo a gestire la nostra memoria, legata a opere che hanno impattato con la nostra vita, e su quella elaboriamo un lutto, muore un cantante andiamo a riascoltarci dischi che magari non sentivamo da anni, muore uno scrittore ne andiamo a cercare nella nostra libreria, ci ripromettiamo di leggerli.

C’è però ovviamente una variabile, che è quella in cui l’assenza si fa largo rispetto alla memoria, cioè il sapere con certezza che non ci sarà altro che la memoria con la quale provare a fare i conti, cioè che quella assenza non sarà colmabile in altra maniera.

Provo a spiegarmi meglio, conscio che vi sto portando a spasso, oggi, in territori accidentati, vagamente spettrali, come alcuni dei panorami che ho visto l’altro giorno nel bellissimo Nomadland, così, mi andava di segnalarvelo, guardatevelo che merita, torno a passeggiare per queste badlands, come fossi un giovane Springsteen o un meno giovane Jonathan Raban.

Prendo uno scrittore, in fondo io di parole campo, e prendo uno scrittore la cui scrittura mi ha influenzato sotto diversi punti di vista, quello stilistico, almeno in una fase della mia vita professionale, quello “da lettore”, perché ho amato ogni singolo suo libro, e anche quello da scrittore, perché credo di aver maturato l’idea che nella vita avrei voluto davvero fare lo scrittore dopo aver letto un suo racconto che mi ha colpito letteralmente come un pugno in faccia, quando lo incontrai casualmente in una raccolta di racconti avant-pop edita da Theoria, prima di rileggerlo anche in un vecchio numero di Panta Libri, edito da Bompiani, entrambi negli anni Novanta, David Foster Wallace. Un nome abbastanza ingombrante, per il talento che indubbiamente aveva, per l’influenza che ha avuto su una generazione di scrittori, e anche per un tentativo che ho sempre faticato a capire di rivederne in negativo la portata letteraria, tentativo praticato a più livelli dopo che, nel 2008, ha deciso di uccidersi, citarlo oggi è quasi camminare su un campo minato, un grande certo, ma anche, aggiungete voi una qualche reticenza o critica campata in aria, vanno bene tutte.

Mi capita spesso, non dico sempre, perché come per i lutti delle persone che ci sono care uno col tempo tende a andare avanti, si sopravvive alla morte dei nostri cari, su questa è stata fatta tanta letteratura di altissimo livello, non fatemi svilire il tema in poche battute, di pensare che vorrei tanto sapere come lui, David Foster Wallace ci racconterebbe l’oggi. Vorrei sapere, cioè, come ci avrebbe aiutato a capire, col suo stile massimalista, postmoderno, ironico e complicato, piene di note a margine come di citazioni prese da tutti i campi del sapere, altissime e bassissime, scientifiche e televisive, sulla televisione ha scritto pagine indimenticabili, il mondo che si può guardare dal divano senza che lui guardi noi, la pandemia che ci tiene in ostaggio da oltre un anno, sicuramente, ma anche il passaggio tra Trump e Biden, i venerdì ormai accantonati di Greta Thumberg, il mondo dei social, che si erano appena affacciati al mondo proprio nel momento della sua dipartita. Me lo chiedo spesso, quasi ogni volta che mi trovo a scrivere, per dire, perché uno i numi tutelari li consulta proprio quando si tratta di andare a provare a percorrere gli stessi irti sentieri, consapevoli delle debite differenze ovviamente, e puntualmente non trovo risposta, neanche nella memoria. Resta solo l’assenza e restano i ricordi, come di chi, pensando a un evento importante della propria vita rimpiange di non averlo potuto condividere con chi non c’è più, non poter contare sul suo essere lì a fianco, non avere il conforto della compagnia come del consiglio.

Certo, poi ci sono quelli che presumono di poter davvero immaginare cosa questo o quel nome avrebbe detto o fatto, come se quel nome, quel che ha fatto e che ancora magari rappresenta, fossero lì, imbalsamati su una sedia a dondolo davanti a una finestra del piano di sopra, citazione che mi voglio augurare non sia necessario star qui a specificare meglio, ma si tratta di chi in assenza di una propria personalità punta su quella altrui, contando sul fatto che un morto non potrà mai venire a reclamare i diritti d’autore o implorare, finalmente, il beneficio della pace eterna.

Nei fatti mi chiedo davvero tutti i giorni, o quasi, come David Foster Wallace avrebbe mai potuto raccontare questi giorni anomali, e mi struggo al pensiero che non lo possa fare, così come mi chiedo che mai sarebbe potuto accadere, per la sua musica, per la musica tutta, e quindi per noi che la musica la ascoltiamo con passione e dedizione, come fosse davvero l’ultima cosa rimasta pura al mondo, se ancora fosse tra noi un artista quale Prince, per dire, uno che ha giocato coi generi, musicali e non, sin dal suo esordio, precorrendo i tempi, tutti i tempi, e indicando strade poi percorsi da molti altri, compresa una certa tendenza all’autarchia, l’uso della rete per veicolare i propri progetti, il tornare sui propri passi e pretendere che la qualità degli ascolti non fossero vilipesi dalla rete.

Certo, coi se e coi ma ci si fa ben poco, non credo sia necessario che io stia qui a sottolinearlo, ma è pur vero che a tratti, specie quando il mondo fuori dalle nostre finestre continua a apparire un posto assai poco frequentabile, lasciarsi andare a qualche impeto di fantasia sicuramente non guasta, l’arte è sempre scaturita da chi non ha lasciato che la realtà arginasse la propria fantasia, del resto, come buona parte delle scoperte scientifiche di cui il nostro vivere quotidiano si avvantaggiano.

C’è un romanzo di Lewis Shiner, un autore di fantascienza poco conosciuto in Italia, appartenente a quel gruppo in apparenza di squinternati che risponde al nome degli autori cyberpunk, poi vorrei prima o poi capire cosa mai avrebbero di squinternato personaggi come William Gibson, Bruce Sterling o il professore di matematica Rudy Rucker, per altro, un romanzo dal titolo Glimpses, che starebbe per “sguardi”, e che in italiano è diventato assai più didascalicamente Visioni rock. È uscito nel 1993 in America, e da noi nel 1999, per la collana mai a sufficienza celebrata Avant Pop, di Fanucci, curata da quei due portenti di Mattia Carratello e Luca Briasco, il Dio dell’editoria ce li conservi ancora a lungo. È la storia di un reduce di guerra, Ray Shackelford, di professione tecnico di impianti stereo, disincantato per quel che il mondo è diventato, i tanti sogni infranti con la fine degli anni Sessanta e l’arrivo di quello che in queste lande è stato chiamato edonismo reaganiano, deluso e disilluso. Ray però ha un dono, che a un certo punto gli si presenta di fronte, quello di attraversare il tempo e di poter tornare nel passato, anche in quello prossimo. Per questo, grande appassionato di musica e convinto che una determinata musica rappresentasse una parte fondante di quei sogni ormai infranti, Ray decide di tornare nel passato per portare a termine quegli album su cui tanto si è vagheggiato, ma che non hanno mai visto la fine. Quindi ecco comparire i Beatles, ecco Brian Wilson dei Beach Boys, ecco Jimi Hendrix. Un guardare a un’epoca che aveva davvero provato a rendere solide delle promesse, dei sogni, come una strana forma di nostalgia, quella di cui parlavo prima, l’assenza e la memoria, e come noi si tenda a ricostruire la realtà nella memoria, nello specifico qui esplicitata, con la realtà rivista e corretta attraverso un superpotere, un dono irreale e impossibile. Un guardare, quindi, più a quello che sarebbe potuto essere che a quello che è stato, un mostrare quello che siamo attraverso una alternativa alta e utopistica, la musica a fare non tanto da colonna sonora, ma proprio da binario sul quale far correre la realtà.

Condivido in toto l’assunto di Shiner per cui la musica è parte fondante di un’epoca, e guardare alla musica sia una maniera concreta e anche fondamentale non solo per capirla, ma per affrontarla. Non a caso io sono uno scrittore che applica la scrittura prevalentemente alla musica e Shiner un narratore appartenente a un gruppo di autori che hanno dato vita a un genere che dalla musica prende parte del nome, il cyberpunk, appunto. Per questo mi domando come oggi David Foster Wallace ci aiuterebbe a decifrare la contemporaneità, e anche come Prince porterebbe avanti la sua idea di musica, sempre rivoluzionaria e in anticipo sui tempi come è stata. Perché sono convinto che le parole di David Foster Wallace sarebbero davvero capaci di fornirci una chiave di lettura efficace, al momento introvabile, e perché credo che sapere da chi la musica l’ha sempre creata con qualche anno di anticipo, dove la musica andrà a parare ci potrebbe ulteriormente aiutare a sapere a cosa stiamo andando incontro, dandoci modo non solo di prepararci psicologicamente, possiamo sempre assumere posizione a uovo e sperare che tutto questo prima o poi finisca, che il predatore si stanchi di noi preda, o che pensi che siamo morti e ci lasci in pace, quanto piuttosto a azzardare una qualche resistenza, tirare su palizzate, scavare fossati, provare in qualche modo a difenderci.

In assenza di questo, nell’impossibilità, cioè, di svegliarci domattina col dono di Ray Shackelford, mi accontenterei anche solo di sapere come vedrebbe una fondamentale opera incompiuta di Prince lui, Lewis Shiner, autore decisamente poco parco nello scrivere opere di narrativa, ma talmente illuminato da essere comunque assumibile come punto di riferimento. Certo, il fatto che i forzieri di Prince siano pieni di inediti, a breve ne uscirà uno, attesissimo, potrebbe essere indicato come aver guardato nella direzione sbagliata, ma non è mica di quello che non ho ancora ascoltato ma che è stato prodotto nel passato che ho bisogno, o meglio, ho anche bisogno di questo, ma so che prima o poi succederà, è più la possibilità impossibile di trovare qualcosa che non è mai accaduto, e che comunque saprebbe dirmi sull’oggi più di quanto l’oggi stesso non faccia che mi crea quell’ennesimo senso di assenza, un lutto inguaribile, un vuoto incolmabile.