L’equivoco del 1991 e della resilienza

Trovo la parola resilienza orribile ma rende perfettamente il concetto che di fronte ai turbamenti e ai tumulti della vita si debba aspettare passi la buriana per poi rimettersi in piedi


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Giorni fa Carlo Bordone, che è un critico musicale assai competente, scriveva sui social un post riguardo quel che succedeva trenta anni fa, un post sul quale convengo in pieno. Diceva, lui di un paio di anni più vecchio di me, che questo continuo celebrare il trentennale di album fondamentali, perché in effetti nel 1991 sono usciti davvero una marea di album incredibili, non era vissuto ai tempi con la consapevolezza di chi vive in un’epoca, discograficamente, aurea. Per vari motivi, che riassumo e reinterpreto.

Primo, all’epoca per ascoltare un album toccava comprarlo, in un negozio, tornare a casa, ascoltarlo su uno stereo, dopo averlo pagato si suppone ascoltarlo più e più volte, non solo per piacere, essendo spesso album importanti sicuramente anche per quello, ma pure per dare un senso a quella spesa. La musica subito e gratis non esisteva, fortunatamente. Per cui di tutta quella bellissima musica ci si accorgeva un po’ alla volta, e spesso alcune uscite ce le perdevamo, o ci sembravano meno rilevanti di quanto non sarebbero risultate in seguito, o non venivano proprio capite, a memoria mi sembra che Carlo citasse Scremedelica dei Primal Scream e Loveless dei My Bloody Valentine, il primo per quel suono così “dance”, il secondo per quell’eccesso di rumore, in verità due album che ho adorato in tempo reale, ma si potrebbero davvero fare decine di altri esempi.

Era anche un periodo di grandi sperimentazioni, quello, va detto, quindi a chi era più genericamente appassionato di musica e di quella musica che oggi verrebbe considerata alternativa, intendendo con questo alternativa al mainstream, anche se spesso poi alcuni di quei dischi mainstream diventavano, veniva letteralmente proposta una marea di novità, spesso accompagnate da poche informazioni, se ci andava di culo ne sentivamo qualche anticipazione in radio, a Radio2, per bocca di gente come Alberto Campo, Guido Chiesa, Luca De Gennaro e Gennaro Iannucilli, Stereodrome, Planet Rock, che tempi, per fare qualche nome, o se si aveva un negoziante di fiducia, del tipo che avrebbe in seguito ispirato Nick Hornby per il suo Alta Fedeltà, si poteva provare a ascoltare qualcosa prima di comprarlo, altrimenti ci si affidava alle recensioni dei giornali di settore, dove per altro scrivevano gli stessi nomi, affezionandosi alle firme che più rispondevano ai nostri gusti, andando quindi spesso sul sicuro ma a volte prendendo delle cantonate clamorose.

Io, l’ho detto più volte, ricorrevo spesso agli acquisti di miei amici, più facoltosi, ma in generale credo che un po’ ovunque ci fosse una sorta di giro organizzato, io compro questo e te lo passo, tu compri questo e lo passi a me, a volte anche con amici di amici, un vinile entrava in casa, ci stava il tempo di apprezzarlo e poi partiva per qualche giorno, finendo a casa anche di sconosciuti che ne facevano copia, avendone comunque gran cura, e poi rientravano nel loro porto sicuro.

Nei fatti non avevamo più di tanto la percezioni di star vivendo una età dell’oro, perché eravamo nel mezzo, e come è noto quando si è troppo vicino a un panorama spettacolare è più difficile coglierlo nell’insieme, perché ne coglievamo frutti parziali, appunto, e perché in tanta smania furiosa di innovare spesso chi proponeva album era troppo avanti rispetto al comune sentire, finendo per risultare quasi incomprensibili.

Metteteci comunque che il confronto con la schiuma del decennio precedente, i tanto bistrattati anni Ottanta, perché da lì arriva la new wave, il post-punk, il college rock e tante altre delizie, in molti casi bistrattati a ragione, rendeva il tutto particolarmente luccicante, come l’amica abbastanza figa ma non fighissima che esce con l’amica cessa per sembrare più figa, avremmo detto allora, quando si poteva ancora usare un linguaggio idiota senza per contro passare per un mostro, il patriarcato non era ancora stato codificato, oggi si direbbe come chi per mettere in risalto le luci gioca con le ombre, è la prospettiva baby, o qualcosa del genere.

Ciò ovviamente nulla toglie all’unicità di quel periodo, o quantomeno alla non replicabilità di quel periodo, giunto in effetti dopo altri periodi d’oro, penso alla seconda metà degli anni Sessanta o al periodo che ruota intorno al biennio 1977-1978, che in effetti erano quelli a cui noi, il noi include me e Carlo Bordone, che giustamente a quel periodo fa riferimento nel suo post, guardavamo con l’invidia di chi o proprio non era ancora nato o era troppo piccolo per poterne godere al momento.

Quindi se qualche giovane oggi ci fa notare l’estrema buona sorte di essere vissuti all’epoca, questo credo fosse il senso del post del mio collega, non possiamo che ammettere che sì, abbiamo vissuto un bel periodo, un ottimo periodo addirittura, ma ce ne siamo resi conto parzialmente, all’epoca, più semplice constatarlo ora, con tutti i trentennali che ci ritroviamo a celebrare, praticamente ogni santo giorno, e soprattutto era un bel periodo che arrivava dopo altri bei periodi, fatto che non ha avuto in effetti poi un seguito, dopo di allora il buio, altro che luci che giocano con le ombre.

Questo, ovviamente, parlo del mio aver incluso in un ragionamento non troppo approfondito il pensiero di un collega, non parlo del post del collega, che è stato uno spunto ma non volevo fosse oggetto di una analisi, potrebbe suonare come un classico discorso da boomer, seppur io boomer tecnicamente non sia, il 1969 fa parte della Generazione X, fatto che per altro mi induce a dire che anche in letteratura la faccenda è andata esattamente alla medesima maniera, ho vissuto da lettore onnivoro un momento fantastico, incredibile, il minimalismo americano, il cyberpunk, l’avant-pop, lo sdoganamento dei generi considerati minori, certo con precedenti come la beat generation, Bukowksi e Hubert Selby Jr, il new journalism e il gonzo journalism, per approdare a una contemporaneità decisamente meno interessante, fatta forse la sola frantumazione dei generi letterari stessi, fiction e non fiction, memoir, saggistica, biografie, ma non è certo un discorso malinconico su quel che è stato e che non tornerà più che mi voglio concentrare, fate attenzione, ma il certificare una condivisa visione del mondo, di un mondo diverso da questo, per la modalità di approccio alla musica che vigeva allora, per la giovane età che avevamo allora, e anche perché, qui parlo per me, onestamente di iscrivere quel che ascoltavo in un discorso più ampio, quasi antropologico, comunque da critical studies, a ventuno anni, toh, ventidue, mi fregava poco meno di un cazzo, ero un lettore onnivoro, un ascoltatore onnivoro, anche uno spettatore onnivoro, cinema soprattutto, nella mia città c’erano pochi concerti e ancor meno teatro, ma non avevo ancora messo a fuoco come quel mio mordere furiosamente tutto quel che mi capitasse a tiro avrebbe potuto essere parte di un tutto, come sarebbe per altro diventato proprio il mio lavoro.

Io aggiungerei al ragionamento di Bordone, che comunque concludeva con un pizzico di ironia dicendo che quando si vive nei periodi d’oro si tende a non accorgersene al momento, mentre quando si vivono periodi di orribili la cosa ci è chiara sin da subito, una questione che in qualche modo mi spinge a dire che no, le cose non sono sempre andate alla stessa maniera, riferito a quanti potrebbero accusarci di boomerismo per il nostro sottolineare come quello fosse in effetti un periodo d’oro che non tornerà presumibilmente più, discorso per altro già affrontato in altre occasioni, ma che è quantomeno pertinente al tema affrontato oggi.

Mio nonno Mario, il padre di mio padre, è nato alla fine dell’Ottocento. Parlo di lui perché l’altro nonno, Italo, il padre di mia madre, anche lui nato a fine Ottocento, è morto prima che io nascessi, e non l’ho potuto conoscere.  Non ho idea di che musica ascoltasse da giovane, dubito ne ascoltasse proprio, a diciassette anni era uno degli Arditi repubblicani che difendeva i colori patri a oriente, poi sarebbe andato a lavorare alle ferrovie e sarebbe diventato un padre di famiglia in un’epoca in cui a venticinque anni non eri un ragazzo, ma un uomo.

Mio padre Learco è nato nel 1936, suo nome, l’ho raccontato più volte, è tipico di quegli anni, quando Learco Guerra vinceva il Giro d’Italia diventando un eroe nazionale. Lui so che musica ascoltava da giovane. Me ne ha parlato. E ho memoria di come, da piccolo, io da piccolo, lo sentissi definirsi un fan, lui non usava questa parola, ma il concetto era il medesimo, di Domenico Modugno, che immagino fosse considerato da mio nonno Mario un mezzo rivoluzionario, lì a cantare a squarciagola con le braccia aperte, screanzato, come oggi si definisce fan di Renato Zero e anche un po’ di Elio e le Storie Tese, immagino più per una questione di simpatia che di conoscenza, ma anche lui si è sposato a ventiquattro anni, quando già lavorava da tempo alla azienda filotranviaria di Ancona, la città in cui io sarei nato nove anni dopo le nozze, preceduto da mio fratello Marco, otto anni prima, e mia sorella Caterina, sei anni prima, dubito che la musica e la letteratura fossero poi così centrali nella sua esistenza. Attenzione, non lo dico con spocchia, è mio padre, figuriamoci, più come constatazione amichevole.

A trentasei anni, quando cioè oggi si tende a uscire, o a cominciare a pensare cautamente di uscire, dall’adolescenza, aveva già un lavoro da oltre dieci anni, una moglie, tre figli, aveva perso un figlio, il mio gemello, aveva perso casa in seguito al terremoto, si era rimboccato le maniche e rimesso in piedi, diciamo che la vita si muoveva su altri binari, e non sto parlando di una situazione di disagio, badate bene, ma la vita di un comune uomo appartenente alla media borghesia.

Mio padre a cinquant’anni, per capirsi, era un uomo di mezza età, diventato nonno proprio nel giorno del suo cinquantesimo compleanno, lì lì per diventare diacono, una carriera in radio e nel teatro amatoriale della mia città pronti a essere archiviati, perché a una certa tocca mettere la testa a posto, certo, continuava a piacergli Modugno, ma la musica era un sottofondo, quando per altro c’era, non esattamente il centro della sua vita. E così era per la stragrande maggioranza delle persone, fatte le debite eccezioni di quanti con la musica avevano a che fare per ragioni lavorative o semilavorative.

Io a ventidue anni ero uno studente universitario fuori sede, nel senso che ero iscritto a una università in una città diversa da quella nella quale vivevo, Storia Moderna a Bologna, io di Ancona, che passava le giornate a studiare, con moderazione, oltre che leggere e ascoltare musica, un ragazzo, non un adulto. Dopo che mi sono trasferito a Milano, ventotto anni e una metaforica valigia piena di sogni, caspita, mi sembro Lady Gaga nelle scene iniziali di A star is born, quando cioè ho iniziato a lavorare come sondaggista per una azienda leader del settore, prima, e per la Mondadori, poi, ero sempre un ragazzo che passava il tempo a leggere, e scrivere, e ascoltare musica.

Credo che sono passato dalla fase ragazzo alla fase adulto, non parlo di mie percezioni, intendiamoci, ma del mondo circostante, solo anni dopo, superati i quaranta, un mutuo già avviato, quattro figli, non saprei dire neanche quanti libri e articoli già pubblicati.

Non che io sia speciale, tutt’altro, è che le cose ora funzionavano così a quei tempi, e a occhio anche oggi, forse oggi anche di più. O almeno funzionavano così finché non è arrivata la faccenda dei boomer.

Un attimo prima ero un ragazzo di quarantacinque anni, le t-shirt buffe, i capelli lunghi fino al culo, le felpe, e un attimo dopo mi si dava del boomer, accusandomi di ogni nefandezza (inquinamento, sessismo, razzismo, non inclusività, accuse non rivolte a me in quanto me, ma a me in quanto uomo bianco borghese eterosessuale di cinquant’anni) e sostenendo a gran voce che ero parte di un tappo generazionale che non intendeva lasciar spazio ai più giovani.

Ma come, ci siamo chiesti noi giovani cinquantenni, noi cresciuti con la convinzione che finché ci fosse ancora attivo lo scrittore giovane per antonomasia, Stefano Benni, a noi sarebbe toccato il prossimo turno, noi che avevamo ancora sopra i vari Walter Veltroni e i vari Giorgio Gori, i vari Maximo Ibarra, da un momento all’altro, senza aver trovato quel minimo di spazio su cui stavamo fantasticando da tempo, siamo diventati modernariato, quelli che non vogliono andarsene, quelli che vogliono frenare il progresso e il futuro?

Siamo cioè passati da Al Gore e il buco dell’ozono a Greta Thunberg e il surriscaldamento del pianeta?

Questo è il quadro che in effetti ci si para davanti agli occhi, impietosamente preciso e dettagliato, quando è arrivato il nostro turno eravamo in bagno, sarà per una prossima vita, in questa siamo destinati a un ruolo secondario, per altro senza lasciare traccia alcuna.

Dico questo con disinvolta rassegnazione, oggi qualcuno direbbe resilienza, parola orribile da un punto di vista fonetico che, se possibile, rende perfettamente l’idea di un concetto altrettanto orribile, cioè che di fronte ai turbamenti e tumulti della vita si debba aspettare che passi la buriana per poi rimettersi in piedi, invece che provare a reagire e resistere, nel senso di fare resistenza, essere attivi invece che passivi. Una parola talmente orribile da essere stata sdoganata dalla politica, come il petaloso passato per l’Accademia della Crusca, nello specifico usata da Draghi e dal suo consuntivo per titolare l’ultimo decreto legge, strano destino di una parola dalle origini nobili, nell’Eneide si faceva riferimento al verbo resiliere, essere elastici come la resina che si usa per fare lo scafo delle navi, proprio per sottolineare come gli eroi, gli eroi di allora, fossero capaci di fronte a una tempesta, di risollevarsi come le navi, pronti a combattere, oggi sembra un inno alla paziente rassegnazione, una parola buona da tatuarsi su una chiappa, con tutto il rispetto per i tatuaggi e soprattutto per le chiappe. Per dirla con le parole di uno della mia generazione, uno che da una vita si sbatte per provare a raccontare la realtà e a dire le cose che vanno dette, avrei voluto una rivoluzione, per il momento faccio movimento per il movimento.

Però abbiamo avuto una grande colonna sonora, compresa quella di Militant A, è lui l’artista appena citato qui sopra, Terra di nessuno degli Assalti frontali, album che contiene proprio In movimento, brano nel cui testo si trovano quei versi, è del 1992, trent’anni l’anno prossimo, ottima letteratura, e volendo anche la possibilità, sudata, certo, ma concreta, di fare di quegli ascolti e quelle letture un mestiere. Abbiate un po’ più di benevolenza verso noi, talmente ectoplasmatici da venire ingiustamente confusi come quelli della generazione prima della nostra, i tanto vituperati boomer, la bella musica che ascoltavamo da giovani è ancora lì, pronta per essere ascoltata anche da voi, mentre il futuro che ci hanno rubato ormai è andato, un attimo prima era lì, e poi di colpo è diventato il passato.