Lucia Reggiani: la storia di una donna che da 35 anni non si sa che fine abbia fatto

Lei, anconetana, giocatrice di pallavolo, impegnata nel femminismo locale, latitante, schiacciata da accuse pesantissime e che nessuno ricorda più


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I nomi sono più o meno sempre gli stessi, ma nel gran balletto dei terroristi rifugiati, da riscattare, che non vengono mai riscattati, qualcuno ogni tanto si sfila, esce da dietro e nessuno lo vede più. E questa è la storia di una che da almeno 35 anni non si sa che fine abbia fatto, dove sia e addirittura se sia; il suo nome è nessuno anche per i più accaniti cacciatori di latitanti e invece si tratta di una figura importante nella galassia dell’eversione di sinistra: Lucia Reggiani, classe 1948, anconetana, giocatrice di pallavolo, impegnata nel femminismo locale, si trova nel 1979, a 31 anni, schiacciata da accuse pesantissime: già in carcere a Camerino per banda armata, la sospettano di avere partecipato all’omicidio del giudice Girolamo Tartaglione in combutta con il brigatista Gino Liverani, nonché di essere la talpa in seno al ministero della Giustizia in grado di passare informazioni riservate ai brigatisti. Accuse che, all’epoca, scatenano i gruppi femministi dell’epoca. Ma la Reggiani, quale che sia la fondatezza delle ipotesi, i suoi agganci sicuramente li ha: risulta legata allo psichiatra di Falconara Massimo Gidoni, skipper brigatista titolare del “Papago”, un natante con cui, nel Ferragosto dello stesso 1979, salpa per un isolotto al largo della costa libanese; a bordo ci sono nientemeno che il capo delle BR, Mario Moretti, anche lui marchigiano, della non distante Porto San Giorgio, e un altro terrorista importante, Riccardo Dura, che Moretti ha posto a capo della colonna genovese. Con loro, un oscuro dipendente del Comune di Venezia, tale Sandro Galletta.
La missione è delicata, si tratta di andare a recuperare un arsenale da destinare in minima parte alle esigenze delle BR, ma soprattutto da mettere a disposizione delle fazioni palestinesi, armi occultate in depositi tra la Sicilia e il Veneto. L’operazione riesce: il motoscafo da 10 metri passa per Cipro e guadagna la meta di Nakheel, dove avviene il trasbordo di sei quintali di esplosivo al plastico, detonatori a miccia, elettrici e inneschi al fulmicotone. Materiale destinato al deposito strategico dell’Fronte Popolare di Liberazione della Palestina di George Habbash in Italia. E deve avvenire, se è vero che la notte prima della partenza dal porticciolo di Numana, reparti speciali di polizia, venuti a prendere il superlatitante Moretti, vengono fermati da carabinieri che si incaricano dell’arresto. Invece non se ne fa niente, le manovre di Moretti in quel 1979, a un anno dalla clamorosa azione di via Fani e del sequestro del presidente della Democrazia Cristiana, Aldo Moro, culminato nel ritrovamento del cadavere in via Caetani dopo 55 giorni di prigionia, facevano ancora comodo.
La storia non finisce così. Tre mesi dopo quella torbida escursione, il 13 novembre 1979 viene fermato a Bologna dai carabinieri Abu Anzeh Saleh, a capo dell’FPLP in Italia: risulta coinvolto nel trasporto dei due lanciamissili Sam-7 Strela sequestrati al porto di Ortona (Chieti) una settimana prima. È una operazione cruciale, che di fatto stronca l’articolazione del Fronte popolare di Habbash in Europa e gli sottrae l’arsenale stipato in Italia.
C’è un collegamento col traffico di armi di Moretti e Gidoni di tre mesi prima: diversi brigatisti dissociati riferiranno agli inquirenti di quel viaggio in Libano e del contesto nel quale maturò l’accordo tra BR e OLP che portò all’Operazione “Francis”, a seguito della quale l’esplosivo palestinese trafugato in Italia prese strade tortuose, passando per molte mani e arrivando fino a Bologna, il 2 agosto 1980, giorno della strage più grave della storia nazionale.
L’aspetto curioso, ma dai risvolti inquietanti, è che a cooperare con i resistenti o terroristi palestinesi è proprio quel Moretti che un anno prima aveva eliminato Moro, vale a dire il politico che più di tutti si era speso per una sorta di collaborazione ambigua, denominata “lodo Moro”, in virtù della quale l’Italia chiudeva gli occhi davanti al passaggio di armi e di ricercati in cambio dell’impegno da parte palestinese ad astenersi da attentati sul territorio nazionale. Un patteggiamento troppo spregiudicato, che finì con l’irritare oltre misura gli americani i quali minacciarono Moro più volte; in particolare il segretario di Stato Henry Kissinger fu pesantemente esplicito, al punto da indurre Moro a ritirarsi temporaneamente dalla vita politica; richiamato in servizio dal suo partito, Moro sarebbe uscito di scena tre anni dopo nel modo più violento, secondo profezia americana. E il suo carnefice fu, su tutti, quel Mario Moretti capo delle Brigate Rosse che adesso trescava con i palestinesi (ma che aveva rapporti anche con la controparte israeliana). Moretti finirà catturato solo il 5 aprile 1981, nei pressi della stazione Centrale di Milano, ufficialmente per la soffiata di un tossico; la sua latitanza di terrorista più ricercato dell’occidente è durata 9 anni, nei quali ha potuto spostarsi con ogni mezzo, cambiare covi, dirigere colonne, orchestrare l’azione più eclatante nel terrorismo localizzato in un Paese Nato. Caricato di 7 ergastoli, dopo 12 anni comincia a godere della semilibertà, regime nel quale versa ancora oggi.
Solo una manciata delle infinite contraddizioni, apparenti, nel ginepraio della storia terroristica italiana. Che si arricchisce di altri sospetti: la strage di Bologna, fin qui addebitata a soli esponenti del terrorismo neofascista col concorso di apparati insani dello Stato e della P2 di Licio Gelli, potrebbe, secondo filoni d’indagine paralleli, essere maturata come ritorsione a seguito del mancato rispetto della clausola “non trattenere” (e cioè l’aver trattenuto Saleh in carcere) prevista a suo tempo dall’accordo tra governo italiano e dirigenza palestinese e saltata col mantenimento in prigione di Saleh a seguito del suo coinvolgimento nel trasporto dei lanciamissili nel novembre precedente.
Ritornando a bomba, la figura di Lucia Reggiani, all’epoca compagna di Gidoni, torna per l’ultima volta il 10 febbraio 1987 in occasione del processo per l’assalto alla sede regionale DC delle Marche, nel quale è imputata insieme a brigatisti di spicco quali Bruno Seghetti, Antonio Savasta, Stefano Petrelli, di nuovo Gino Liverani, che tuttavia risulta “presumibilmente morto per malattia in Nicaragua” (dove si trova tuttora un altro latitante di lusso, Alessio Casimirri, protetto da ambienti vaticani e legati ai Servizi), l’ex compagno Massimo Gidoni e Marina Muzi. A quel punto, però, la Reggiani risulta latitante insieme alla Muzi, e di lei non si saprà più niente; né gli apparati di ricerca sembra si siano mai dati gran pena per ritrovarla, se è vero che, ancora nel 2017, l’ultima Commissione di inchiesta sul caso Moro incaricava un generale Scriccia di compiere approfondimenti su di lei insieme al solito Gidoni ed altri. Ad Ancona nessuno la ricorda più, nessuno sembra sapere che fine abbia fatto, nessuno sembra averla neppure conosciuta. Dai vapori della Rete, solo rarissimi trafiletti stinti e la foto in ciclostile di una ragazza forse bionda, forse castana, che sorride. Uscita da un’epoca lontana che non passa. Non passa mai.