Avete presente tutti, immagino, la figura dello zio americano.
Quella figura piuttosto naif di uomo stravagante, di solito di mezza età, se non anziano, che dopo essere andato a far fortuna altrove, solitamente questo altrove è identificato con l’America, non necessariamente gli Stati Uniti d’America, anche se quasi sempre sì, quanto piuttosto un luogo associabile al concetto di sogno che si può fare e quindi realizzare, e che posto più dell’America incarna questo ruolo?, molto spesso nel nostro immaginario di paese satellite l’America, appunto, America non a caso divenuta parte del modo di dire “ha trovato l’America”, mica sarà un caso?
Uno, in sostanza, lo zio d’America, che torna nella terra dalla quale, genericamente, sono partiti i suoi avi, i nonni, più spesso i genitori, in cerca di fortuna e che quella fortuna o lui, o i suoi avi, ha fatto. La figura dello zio d’America, quindi, ha sempre qualcosa che quel fare i soldi attesti, anche visivamente, una macchina particolarmente di lusso, se americano, appunto, una Cadillac sontuosa, una Chevrolet, dalla quale lui, lo zio americano, può entrare a passo d’uomo, come il giovane protagonista di Cosmopolis, una sorta di marcia di quelle che vengono non a caso chiamate marce funebri, perché procedono solennemente me lentissimamente dietro i carri da morto, lentamente, diretti al campo santo, il protagonista di Cosmopolis a un funerale sta andando, ma che nello specifico nulla di luttuoso o di sepolcrale indichi, tutt’altro, durante la quale il nostro si affaccia, sempre che la macchina in questione non sia una decappottabile, il cabriolet è spesso sintomo di ricchezza, anche se certe macchine particolarmente grandi non lo prevedono, si affaccia, quindi, o si sporge, a seconda della tipologia di auto, un per certi versi imbarazzante cappello da cowboy in testa, di quelli che a noi fanno venire in mente però, badate bene, non tanto i cowboy dei film western, che sia John Wayne, lo zio Zeb di Alla conquista del West o il Kevin Costner di Balla coi lupi, qui entra in campo l’anagrafe, non metto bocca, poco conta, quanto piuttosto, e qui l’anagrafe va di default in soffitta, prendere o lasciare, il JR di Dallas, lo sposino sfigato di Strega per amore, sulle prime avevo scritto Vita da strega, confondendomi, Larry Hagman, che lo ostenta non per il suo appartenere alla genia dei cowboy, Dallas è una storia di petrolieri e di estremo capitalismo, seppur condito in chiave soap opera, quanto piuttosto per il suo essere un Texano divenuto ricco proprio col petrolio, come un attore divenuto famoso per un ruolo simpatico e carino si possa rovinare finendo per stare sul cazzo a tutti in due mosse, ecco, lo zio americano è lì che si affaccia dal suo macchinone di lusso, in testa un cappello da cowboy che indica il suo aver avuto successo, come il suo aver successo è indicato dagli occhiali da sole che indossa, un paio di rayban, quindi di successo e anche un po’ fascio, a meno che non sia Venditti, uno che ha fatto i soldi magari proprio col petrolio, dollari su dollari gettati a chi lo incrocia, come fossero coriandoli in una festa malese. Ora, quest’ultimo dettagli, i coriandoli alle feste malesi, immagino vi avrà spiazzato, confesso che ha spiazzato anche me l’associare lo zio americano che lancia soldi dalla macchina che procede a passo d’uomo con il largo, larghissimo uso di coriandoli che in genere i malesi fanno nelle loro feste, specie le feste nazionali.
Il fatto è che in Malesia, è un fatto, hanno una grande passione per i coriandoli, al punto che ne fanno un uso smodato, come magari da noi si fa con i fuochi d’artificio al termine di certe feste patronali. L’ho scoperto quando sono stato per un mese in Malesia, sulle orme di Salgari, curioso di scoprire usi e tradizioni locali e in qualche modo scottato, deluso, dall’apprendere che quelli che fino a quel momento associavo, come credo tutti gli italiani, o almeno tutti gli italiani che erano vivi negli anni Settanta, a Kabir Bedi che trancia la pancia di una tigre del Bengala compiendo un salto mortale, il suo amico Tremal Naik a fare da spettatore, e poco conta che Kabir Bedi, come la Tigre del Bengala e lo stesso Tremal Naik siano tutti indiani, quella era la deriva salgariana di matrice indiana, i thug, la Dea Kali e compagnia bella, del resto anche Yanez de Gomena non era malese, ma portoghese, e Marianna la perla di Labuan, a dispetto del nome, era inglese, come suo zio Adolfo Celi, inteso come Lord Brooke, insomma un casino, che però non prevedeva coriandoli, in nessun dove, coriandoli che invece sono una costante delle feste malesi, ho assistito a feste a Kuala Lumpur e Langkawi che ne erano letteralmente piene, coriandoli a pioggia, come i dollaroni lanciati generosamente dalla macchina dello zio americano in ogni iconografica ricostruzione del ritorno del suddetto zio al paese natale.
Perché questo è lo zio americano, uno che è andato in cerca di fortuna e l’ha trovata e che invece di godersela là dove la fortuna ha trovato, sudandosela pure, immagino, come in precedenza avevano sudato i suoi avi, partiti con la famosa valigia di cartone, i lunghi viaggi in terza classe in nave, quelli del Titanic di Leonardo Di Caprio e Kate Winslet come quelli di Francesco De Gregori, invece di godersela in America, quindi, se no che zio americano sarebbe, se ne torna nella terra degli avi, per condividere il proprio benessere con quelli che in qualche modo hanno un legame di sangue con lui, seppur diluito nel tempo. A sentirlo parlare, stiamo sempre nel campo di calcio dell’iconografia, lo zio americano parla quindi un misto di slang americano, le parole slabbrate, sguaiate degli americani che non hanno molto studiato, con parole estratte anche un po’ a cazzo di cane estratte dal vocabolario dialettale locale, parole spesso incomprensibili anche alle orecchie degli autoctoni, quelle che i suoi avi hanno continuato a parlare in casa, come a voler ricreare un pezzo di casa anche in terra straniera, per sconfiggere la malinconia e la lontananza, che sarà pure come il vento, capace di spegnere le fiamme o di attizzarle, ma nei fatti, specie in decenni passati, parliamo del Novecento, erano condanne definitive, chi partiva sapeva che quasi sicuramente non sarebbe mai più tornato, finendo per idealizzare una terra dalla quale, diciamolo, era partito per mancanza totale di prospettive e possibilità, vedi tu a volte la lontananza come ti fa distorcere la memoria, cara terra mia stocazzo.
Ok, avete quindi presente tutti la figura dello zio americano. E se non ce l’avevate ora ce l’avete, questi lunghi spiegoni infarciti di citazioni e riferimento di varia natura mica si trovano lì così, perché non sapevo come passare il tempo, no?
Bene, partiamo da qui.
Mi capita spesso di sentirmi come lo zio americano. Lo dico a scopo meramente cronachistico, e anche perché è un passaggio fondamentale in questo mio raccontare, prendetelo per buono e appoggiatelo da qualche parte dove non corra il rischio di perdersi tra le cianfrusaglie. Mi capita spesso non perché io abbia dollaroni da gettare dai finestrini, generosamente, certo, ma anche con ostentata spavalderia, supponenza, quasi, la scusa del trovarsi sotto un cappellone di cowboy con un paio di occhiali rayban a bordo di un macchinone che procede lento non regge, non nascondiamoci dietro un dito, lo zio americano è generoso ma la sua generosità prevede l’obolo spirituale del riconoscere uno stato di subalternità nei suoi confronti, è lui quello che ha fatto successo, quello i cui avi sono dovuti partire, quindi avi che si trovavano in una condizione di indigenza, e che ora torna sbattendo i propri successi in faccia a tutti, il riscatto sociale è parte integrante del personaggio, non quindi perché io abbia dollaroni o successi da esibire, ma perché, e qui fa già ridere parecchio, sono uno che ha lasciato la propria terra natia, il primo della mia famiglia a farlo a distanza di secoli, credo, quando anni fa un mio lontano zio aveva fatto una ricerca sull’araldica dei Monina ha scoperto che erano stanziali in Ancona sin dal Millecinquecento, e in qualche modo ho quindi incarnato un ruolo, niente valigia di cartone, certo, ma pur sempre uno che andava in esilio sono stato, un migrante, e quando torno mi posso bullare di avere conoscenze, anche piuttosto intime, in un ambiente che non è sinonimo di dollaroni, almeno non per me, ma che è invece sinonimo di fama e successo. Intendiamoci, frequentare, o conoscere, le due cose non coincidono necessariamente, ma nel mio caso van bene entrambi i verbi, conosco e frequento, celebrità di varia natura, soprattutto in ambito musicale, non equivale a essere a mia volta una celebrità, mica son fesso, lo so bene.
Ma so anche che è già quel conoscere, forse anche più dei dollaroni, la mia moneta desiderata da chi mi guarda rientrare a passo d’uomo a bordo della mia auto. Non solo, metteteci pure che la mia faccia, ne parlavo giorni fa, piuttosto riconoscibile, anche lì, mica un caso, appia abbastanza spesso dentro i media tradizionali, spesso proprio a fianco di volti noti e amati, e che quindi a quel mondo venga continuamente ricondotta, e il gioco è fatto. Sono a mio modo uno zio americano.
Lo so, ne prendo atto, e ne sorrido. Amaramente, aggiungo. Perché essere in qualche modo invidiato, seppur in assenza dei privilegi che una invidia anche non sana dovrebbe scatenare, lascia davvero l’amaro in bocca.
Mi spiego, essere invidiati perché ricchi, immagino, non è piacevole.
Ma uno è ricco, quel dispiacere, seppur persistente, se lo potrà pur far passare.
Ricordo che tanti, tantissimi anni fa, una nostra amica di nome Catia, con la c, sorella di un’altra nostra amica di nome Daniela, mi lesse le carte, il dettaglio dei nomi delle due sorelle non è casuale, poi arriva la spiegazione, state tranquilli. Mi lesse le carte in maniera credo piuttosto fantasiosa, anche se sul momento la faccenda sembrava credibile, quasi professionale. Una roba che era partita dalla data di nascita, l’orario, tutto il resto, ma era finita con lei, Catia, che mi leggeva semplici carte da briscola, piacentine, non i tarocchi o roba seria.
Nel leggermi le carte, comunque, Catia mi predisse una vita di grandi ricchezze, qualcosa di quasi imbarazzante, sosteneva, sempre però, aveva aggiunto, immagino per fare un po’ di scena, con un sottofondo di malinconia nell’animo. Immaginatemi, non è difficile. Ci sono io, buttato da qualche parte su una villa spaziale, magari seduto in una di quelle poltrone gonfiabili che hanno anche il posto per infilarci il bicchierone da cocktail. La piscina e semi olimpionica, ca va sans dire. A bordo piscina c’è Marina, perché lei c’era già allora, quando Catia mi ha letto le carte, con delle amiche, tipo Gwynet Paltrow, Charlize Theron, così, un paio di alani si aggirano sornioni nel prato all’inglese, i bambini che fanno capriole su uno scivolo che li porta fin dentro l’acqua, a debita distanza da me.
Da qualche parte, dico questo forse influenzato dal video di Imitation of Life, anzi, sicuramente, c’è una band che suona, senza fare baccano, magari sono proprio i riformatisi R.E.M., quando si è sfacciatamente ricchi ci si può permettere di tutto, credo.
Sulla mia poltroncina in acqua ci sono io, un Negroni sbagliato in mano, la cannuccia usata per far ruotare il ghiaccio mossa stancamente con l’altra. Tutto perfetto, direste, anche perché a un certo punto Charlize Theron, e questa invece è una citazione che solo io e Marina possiamo cogliere, ma ve la spiego, sono ricco sfondato ma resto umile, Charlize Theron chiede se ci dà in qualche modo fastidio se fa il bagno nuda, e a nostro svogliato senso di assenso si toglie il bikini e entra in acqua. Veloce spiegazione, che ovviamente interrompe il flusso narrativo, quindi da un punto di vista dello storytelling potrebbe risultare sbagliato, ma che aiuta a fornire l’idea di me come lo zio americano di cui sopra, quindi nei fatti aiuta proprio la narrazione, non è che uno pubblica ottanta libri così, per grazia ricevuta.
Tanti, tantissimi anni fa, credo intorno al 2003, 2004, io e Marina, con Lucia, nostra figlia, piccolissima, è di agosto 2001, siamo andati a Acquapendente, in provincia di Viterbo. Così, in giornata, partendo da Ancona, perché eravamo giovani e quando si è giovani le cose si fanno senza pensarci troppo, ci si butta e via, contro ogni logica. Siamo andati a Acquapendente perché lì abitava Enzo Siciliano con sua moglie.
Enzo Siciliano era uno scrittore piuttosto noto tra quelli che leggono tanti libri, conosciuto anche per essere stato il Presidente della Rai per un certo periodo. La sua fama, in ambito letterario, era sì dovuta alla sua scrittura, e ci mancherebbe pure altro, ma anche al fatto che era stato molto amico sia di Alberto Moravia, primo a arrivare al suo capezzale il giorno della sua morte, sia di Pier Paolo Pasolini, idem, insomma, uno che aveva frequentato la storia della letteratura italiana del Novecento, e che in qualche modo ne faceva parte. Eravamo lì, io e lei, Marina, perché avevo da poco pubblicato un libro per la Mondadori, il mio secondo libro per la Mondadori, God Less America, firmato a quattro mani con Cristina Donà, e perché lui, Siciliano, era all’epoca il direttore di Nuovi Argomenti, rivista storicissima della letteratura italiana, fondata appunto da Moravia e Pasolini, ma per cui dalla Maraini a Parise avevano scritto davvero tutti i grandi.
Voi direte, e che c’entra questo con te e soprattutto con lo zio d’America? Un attimo, cazzo, non fatemi perdere il filo del discorso.
Eravamo lì perché lui, Enzo Siciliano, voleva conoscermi, perché aveva letto quel libro, perché stava anche lavorando con mio fratello Marco, fatto che immagino lo avesse indotto a leggere il mio libro, e perché voleva propormi di collaborare con Nuovi Argomenti.
Ovviamente questo era il motivo per cui lui ci aveva invitati, non quello per cui noi eravamo lì.
Il motivo per cui noi eravamo lì era che io ero curiosissimo di conoscerlo e di vedere la famosa villa, famosa perché lì ci erano passati appunto Moravia e Pasolini, tra gli altri, e perché la sindrome dell’impostore non ha mai fatto parte del mio profilo psicologico, quindi a vestire i panni di quello che va a trovare Enzo Siciliano per parlare di letteratura mi ci trovavo anche a mio agio. Marina, ovviamente, era mossa da tutte le curiosità del caso, e fosse per lei sarebbe sempre in giro, figuriamoci se si perdeva l’occasione di andare a fare una gita, anche così lontana da casa. Andiamo lì, è estate, e ci mettiamo a chiacchierare.
Siamo seduti su delle sedie da giardino, all’aperto, dentro c’è sua moglie e uno dei suoi figli, attore in alcuni sceneggiati tv, che sta dipingendo qualcosa su una tela.
Sembra di essere in un film di Bertolucci, tipo Io ballo da sola, potrei dire se volessi essere estremamente disonesto intellettualmente, a breve capirete perché.
Si chiacchiera di libri, lui elogia il mio modo di scrivere, dicendo che gli ricordo Jonathan Raban, che in Italia è pubblicato da Einaudi, uno dei pochi editori per cui non ho mai pubblicato, libri quali Badlands e Passaggio in Alasha, bellissimi, ma che a parte il trattare viaggi, God Less America era il mio diario del viaggio fatto con Cristina Donà sulle orme del Bruce Springsteen di The River, un coast to coast più figlio di David Foster Wallace che di William Least Heat-Moon, per capirsi.
Mentre mi parla ho la costante percezione che non abbia esattamente capito cosa scrivo e che quindi il mio essere lì sia fuoriluogo, e comunque sono costantemente distratto dall’idea che il mio culo, dentro un paio di pantaloni corti, dei bermuda si diceva allora, ricavati da un costume da surf cui avevo scucito dentro le mutande, il mio culo, dicevo, sia appoggiato dove un tempo era stato appoggiato il culo di Pasolini o Moravia, pensiero che non può che farmi perdere in continuazione il filo del discorso. Sarà questo il punto di partenza del pezzo che scriverò per Nuovi Argomenti, un pezzo unico, perché ovviamente Siciliano non me ne chiederà altri, democratico nel pubblicarlo comunque, ma non abbastanza da andare oltre il mio essere sconcertantemente scandaloso, sarà il fatto che io sia finito per trovarmi incredibilmente seduto di fronte a Siciliano, dove un tempo sedevano cotanti scrittori, nonostante io fossi uno che scriveva tutt’altro genere di letteratura, nonostante io fossi un inverecondo cazzone, non a caso il pezzo lo avrei intitolato La grande truffa del rock’n’roll Parte II, la Parte I era stato il film di Julian Temple dedicato alla storia di come Malcolm McLaren si era inventato i Sex Pistols, figuriamoci se Siciliano poteva cogliere la citazione.
Comunque, si parlava di Charlize Theron che si sfilava il bikini prima di immergersi nelle acque limpide e sature di cloro della mia piscina olimpica, a un certo punto, mentre io e Enzo Siciliano si parlava di libri, e Marina parlava con la moglie, giocando con Lucia seduta sulle sue gambe, lui, Siciliano, si è lasciato sfuggire una frase del tipo “Marina, se volete fare il bagno la piscina sta lì per voi, anche senza costume, non c’è problema,” salvo poi ricordare, così, en passant, che nella villa di fianco viveva Bernardo Bertolucci, anche lui solito sedere sempre nella solita sedia, sotto il mio culo.
Ecco lo zio americano, ancora.
Per la cronaca noi, piccolo borghesi, il bagno nudo non lo abbiamo fatto, sbagliando.
Charlize Theron, invece, nel racconto immaginario che vi sto facendo, partendo dalle carte che mi ha letto un tempo la nostra amica Catia, sì, magari anche insieme a Liv Tyler, come omaggio a Bertolucci. Io sto lì, in mezzo alla piscina, a giocare col ghiaccio di un Negroni sbagliato seduto su una poltrona gonfiabile, con lo sguardo velato di malinconia, Charlize e Liv che nuotano a due metri da me, Marina che parla con Gwynet sulle sdraie, immagino di un qualche nuovo profumo che la ex signora Martin ha intenzione di tirare fuori, i bambini che fanno le capriole sullo scivolo.
Ricco ma malinconico, ha detto Catia, sticazzi, ho aggiunto io.
Ma credo di aver detto “Sticazzi, Daniela”, perché va detto che un problema con Catia e Daniela era che chiamavamo sempre Catia col nome di sua sorella, e Daniela Daniela. Cioè, nessuna delle due veniva chiamata Catia, neanche Catia. Al punto che una volta successe che Catia monopolizzò una mezzora passata in auto mentre si andava a una qualche sagra dell’entroterra marchigiano lamentandosi di come per tutti lei fosse sempre e soltanto la “sorella di Daniela”, qualcosa che voleva essere un grido di dolore, la rivendicazione del suo essere se stessa, Catia, appunto, grido di dolore cui Marina ha risposto con un “Hai ragione, Daniela” che nulla aveva di ironico, a dimostrazione che a volte è inutile lamentarsi di quel che la vita ci pone di fronte, tanto ha sempre ragione lei.
Tornando allo zio americano, mi capita molto spesso di essere trattato come se lo fossi davvero.
Quei “beato te” detti più con malmostoso malumore che con compiaciuta volontà di condividere una qualche piacevolezza, piacevolezza del tutto supposta, ripeto, non ho motivo di essere invidiato, non sono un cazzo di zio americano, quei “quanto ti invidio, bonariamente, si intende” che hanno nella seconda parte del periodo una chiara e manifesta falsità, solo chi ti invidia malevolamente sente il bisogno di specificare, e in generale l’invidia è invidia, nulla di buono da quelle parti, quei “in un’altra vita voglio fare il tuo lavoro”, magari detto da gente che porta a casa mensilmente cifre che io guadagno in un anno, sempre e comunque da gente che ha un posto fisso, e che quindi del mio mestiere vorrebbe solo la schiuma, non certo la sostanza.
Intendiamoci, non ritengo di non aver fatto cose degne di nota, ritengo anzi che la mia terra natale dovrebbe tributarmi tutte le celebrazioni del caso, non fosse altro che per mancanza di competitor, ho più volte raccontato di come io ciclicamente richieda all’amministrazione locale che mi venga regalata la pregevole Torre di Portonovo, ahinoi di proprietà di un privato, affinché io possa volendo tornare da quelle parti, come scrittore residente, la gente che passa lì sotto guarda la torre e sa che dentro ci sono io, gli basta questo, ma non è certo perché sono lo scrittore che sono o l’agitatore culturale che sono che vengo considerato lo zio americano, lo so bene, più per i nomi e i numeri contenuti nella mia rubrica, e per altro tanti basterebbero appunto a far sì che la amministrazione locale mi celebrasse, anche lì, senza competitor, amministrazione che però, esattamente come tutte le amministrazioni è mossa più dal far fare le cose agli amici e agli amici degli amici, figuriamoci se si fa ingannare da una sciocchezza come la storiella dello zio americano, meglio quella del provincialissimo atteggiamento del tenersi tutto per sé.
Ma non sono lo zio americano. Non torno lanciando metaforici o reali dollaroni dalla mia auto di lusso, che non ho, anzi, ormai quasi non torno, otto mesi che non esco da Milano a causa della pandemia.
Mettiamola così, non soffro della sindrome dell’impostore, e magari a tratti dovrei, ma non sono lo zio americano, mentre quasi sempre mi capita di essere identificato con lui.
Come se ne esce? Semplice, non se ne esce. Lo si racconta, magari, come sto facendo io, e lo si racconta anche scherzandoci su perché, tanto, le cose continuano sempre a procedere sui binari più comodi, quelli che non prevedono alcuno sforzo per chi si vuole muovere, stanno lì già belli pronti, basta appoggiarci sopra le ruote e andare.
Solo una domanda mi si è appiccicata alle pareti del cervello, e so che non mi si scrosterà finché non l’avrò fatta a voce e alta e, vana speranza, qualcuno non mi avrà risposto: è sensato che, incassato l’ennesima porta presa in faccia con la bocciatura al ruolo di Capitale italiana della Cultura 2022, a muovere le fila in città, quella dove a volte ritorno, appunto, siano sempre quelle cinque o sei persone, le medesime che le muovevano per altro quando ventiquattro anni fa sono partito, per l’America/Milano? Non so se sia ancora valida la faccenda del nessuno è profeta in patria, almeno non so se è applicabile ovunque, mi sembra invece evidente che almeno in alcune patrie è profeta solo chi si imbullona agli scranni di potere, convintamente intenzionato a mandare ogni giorno in onda il remake del cult di Marco Ferreri, la grande abbuffata.