Mimosa e Chiarablue, la scoperta dell’acqua fredda

Spero conosciate già queste due artiste, ma nel caso contrario vi consiglio di andarvi ad ascoltare i loro album


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Oggi voglio spingervi a ascoltare un album uscito qualche tempo fa e un album uscito poche ore fa, due album che spero e immagino già conosciate, ma che, nel caso contrario, non potete che andare a incontrare.

Per farlo parto da lontano, poi mi avvicino, giuro.

Non so se vi è mai capitato di andare al mare in un paese del nord Europa. Sì, in un paese del nord Europa tipo in quelli della Scandinavia, dove già dire “vado al mare” per uno nato dalle nostre parti, suona strano, perché anche in estate il mare ha una gradazione che da noi assoceremmo a un referto post-mortem. Qualcosa a metà strada tra il surgelato e l’ibernato, sempre che esista una qualche differenza tra i due stadi, ma non sono esperto di queste faccende.

Comunque, se vi è capitato, e a me è capitato, avrete notato come l’idea che abbiamo noi di “andiamo al mare” sia vissuta con molta meno organizzazione. O meglio, con forse più naturalezza e agilità, ma certo lesinando non poco nelle comodità e negli optional.

Per farla breve, siete lì che cercate di capire come e dove potete trovare il coraggio per immergervi almeno per qualche secondo nel Mare del Nord, tanto per farvi fare una foto come prova e potervi poi vantare coi nostri amici una volta tornati a casa, stendete il vostro asciugamano, preso in albergo tra quelli atti, in realtà, a coprirvi quando uscite dalla doccia, cercate di capire come fare per cambiarvi, perché in un paese della Scandinavia andare in giro con un costume come fareste in una qualsiasi località balneare italiana vi sembra fuori discussione, quando vi accorgete che lì intorno non c’è nessun capanno dove cambiarvi, nessuna cabina preposta a questo, neanche un bagno pubblico, un cazzo di niente.

Il mare è mare e la gente ci va come da noi si andrebbe al fiume, sempre che noi si andasse al fiume e non lo si schifasse come la merda essendo noi nati in una località di mare e considerando l’acqua dolce buona giusto per farci la doccia. Iniziamo a interrogarci come fa la gente di qui a cambiarsi, dal momento che tutti, suppergiù, quelli che intorno a voi sono ancora vestiti portano indumenti ingombranti, pantaloni lunghi, felpe, non certo shorts o t-shirt, quando la signora che si trova a due metri da voi vi risponde senza neanche saperlo, nel senso, risponde alla domanda che vi state ponendo. Infatti, la signora che si trova a due metri da voi, con la naturalezza che in effetti il gesto in sé, privo di malizia e sovrastrutture dovrebbe comportare, si toglie i pantaloni, si toglie la felpa, si toglie la t-shirt, si toglie le mutande, non si toglie il reggiseno per il semplice motivo che non ce l’ha e che voi vi ostinate a chiamarla signora nonostante avrà si e no venti anni solo per non far incazzare vostra moglie nel caso stesse leggendo queste parole, e ringraziate la buona stella dell’ispirazione per aver evitato di scrivere che sì, in effetti la signora in questione conferma quanto vi è capitato di leggere in un articolo di un giornale che avete trovato in giro per casa, e di cui non ricordate il nome, articolo che sosteneva che nei paesi del nord stesse dilagando la moda della depilazione “brasiliana”, così era scritto, “brasiliana”, cosa che sul momento vi ha fatto ridere, perché paesi del nord e Brasile, nella vostra immaginazione, poco hanno in comune, e quando siete andati a cercare su Google cosa si intenda per depilazione “alla brasiliana” avete scoperto che si intende integrale, andando così a scoprire in un solo colpo come funziona da quelle parti in Brasile e, a questo punto, pure in Scandinavia, cosa che oggi trova conferma nel, chiamiamolo così, look intimo della signora di cui sopra, sempre che il look intino di una sola persona, una ragazza sui venti anni che si trova al momento a un paio di metri da te e dalla tua famiglia, possa in qualche modo dimostrare qualcosa, fare statistica, comunque, la signora in questione si spoglia, così, in scioltezza, assolutamente senza malizia e poi, con la stessa naturalezza che in effetti il gesto in sé, privo di malizia e sovrastrutture, dovrebbe comportare si china, sì, avete letto bene, si china e raccoglie da dentro una busta un bikini, questo sì dotato anche di reggiseno, per ragioni che a occhio vi sfuggono e poi si stende sul suo asciugamano, sorridendovi sempre senza malizia e sovrastrutture.

Una scena tipo film porno anni Settanta, lo dice uno nato nel 1969 e che quindi degli anni Settanta al massimo conosceva Gulp Fumetti in Tv e Goldrake, ma fate finta che io parli con competenza di ciò, un film porno anni Settanta, quello con protagoniste, appunto, belle valchirie scandinave, non fosse che i paesi della Scandinavia, duro colpo per il nostro immaginario, non hanno una grande passione per il porno, anche in virtù di un atteggiamento che ha portato la signora, fatemi continuare in questa pantomima, a spogliarsi e rivestirsi a due metri da me (per la cronaca, visto che non sarà la sola nelle circa due ore passate qui, in Scandinavia impazza lo la depilazione cosiddetta alla brasiliana).

In Scandinavia, come in buona parte dei paesi del nord, infatti, il corpo, maschile e femminile, anche se è di quello femminile che stiamo parlando, è un corpo. Non qualcosa che ha a che fare con il pudico, e neanche qualcosa che ha a che fare con l’idea di tabù.

Di peccato, figurati, neanche a parlarne, perché qui sono tendenzialmente laici, e un corpo è un corpo.

Come dire, che problema c’è se ti faccio vedere come sono fatta?

Non facendolo per sedurti, peggio, per farti cadere in tentazione, mostrarlo diventa quello che in natura dovrebbe essere, un gesto semplice e innocuo. Come del resto è qualcosa di semplice, naturale, il sesso.

Non esiste pornografia, ma stiamo davvero andando fuori tema, quindi mi fermo qui, perché il sesso non è qualcosa di proibito, di peccaminoso, da guardare di nascosto o dal buco della serratura. Ben lo ha capito, per dire, una Tove Lo, che poi è andata a conquistare il mondo a suon di tette esibite in ogni concerto, e che usa per logo una vagina stilizzata usata al posto della O del suo nome. Lì, in effetti, di malizia ce n’è parecchia, ma a beneficio di chi è pudico, al mercato americano, prevalentemente, oltre che a quello Europeo extra-scandinavo. E fosse solo quella la provocazione messa in atto da Tove Lo, tra i video quali Fairy Dust, mediometraggio sull’iniziazione sessuale uscito nel 2016 come accompagnamento al lancio dell’album Lady Wood, o Fire Fade, uscito l’anno successivo e sua naturale prosecuzione, per non dire di singoli quali Lady Wood, con chiari riferimenti al “bagnarsi”, Disco Tits, è noto come Tove Lo sia una delle testimonial della campagna “Freethenipple”, che chiede a gran voce una equiparazione tra i capezzoli maschili e femminili, contro una censura del seno femminile, non a caso in Fairy Dust al suo fianco c’è Lina Esco, attrice e attivista americana che di quel movimento è promotrice, lei, Tove Lo, in tutti i concerti non manca di mostrare le tette, a più riprese, alzando le t-shirt e scandalizzando la parte più bigotta del proprio pubblico, o i singoli Bitches, Sadder Badder Cooler o Bikini Porn, arte che trova giusta risposta nelle dichiarazioni sulla sessualità che Tove Lo non manca di fare in ogni intervista, lei che preferisce non essere identificata binariamente, seppur nata e cresciuta in un contesto etero.

Artista di primo livello, il suo pop fortemente elettronico, sulla falsa riga di una Charlie XCX, come di SIA, la pone al riparo da qualsiasi accusa di voler sfruttare gli scandali per attirare attenzione, riuscendo semmai nell’operazione inversa, spostare l’attenzione su tematiche altrimenti considerate spinose a partire da brani di grande successo e popolarità presso un pubblico giovane.

Torniamo però a noi.

Perché vi ho raccontato di quando sono andato al mare in un paese Scandinavo, la Svezia nello specifico?

E perché mi sono soffermato in questa scenetta, in realtà da queste parti piuttosto comune?

Perché volevo provare a introdurvi in un luogo che a noi può sembrare esotico, esotico mica è solo ciò che comprenda anche palme e mosquitos, in cui il corpo esibito, svelato, mostrato nei dettagli senza nessuna vergogna è qualcosa di normale, di naturale. Niente provocazioni, niente scandali, e quindi niente malizia, niente ambiguità.

Vi volevo introdurre in quel mondo e al tempo stesso volevo provare a farvi pensare a che tipo di reazione genererebbe in voi l’essere di colpo catapultati in questo mondo.

Così, su due piedi, e senza niente addosso, sotto lo sguardo disattento e distratto degli altri, vero, ma pur sempre senza niente addosso.

Come, in sostanza, vi trovereste a dovervi spogliare in una spiaggia cittadina di Stoccolma, circondato da famiglie e da single, da gente comune, che a loro volta si spogliano.

Ma non in un campo nudista, figuriamoci, tutti poi a rimettersi il costume, perché il sole fa male al corpo, anche in queste lande. Pensatevi a rimanere nudi davanti a degli sconosciuti, e pensate che ci siano sconosciuti che fanno altrettanto con voi.

Senza essere in una sauna di Merano, dove il dress code per accedere alle varie stanze o piscine della zona SPA prevede il “niente costume”, o in una spiaggia a Mykonos, dove non c’è dress code, ma comunque ci si attiene a una certa tipologia di comportamento sociale, ci si adegua al “lo fanno tutti”.

E pensate a quello strano senso iniziale di spaesamento, quasi di alienazione, seguito poi da un senso di appagamento, come se di colpo qualcuno vi avesse spiegato come si fa a andare in bicicletta, o come in effetti si mettono le lenti a contatto. Di colpo una cosa che mai avreste creduto possibile diventa normale. Starsene nudi di fianco a qualcuno senza per questo dover tirare in ballo il sesso e la seduzione.

Chiaro, il discorso sarebbe in sé più complesso, perché come dicevo anche tirando in ballo il sesso non è che in certe lande ci sarebbero chissà quali problemi, ma facciamo un passo alla volta.

Siete nudi. E di fianco a voi c’è una signora nuda.

La signora nuda è Mimosa Campironi.

E per spogliarsi con naturalezza di fianco a voi, Mimosa, perché quando canta è solo Mimosa, ha usato un trucchetto mica male, ha scritto e interpretato una manciata di canzoni davvero belle, leggere, e si legga questo aggettivo col massimo della stima possibile, inteso come tutto ciò che non sia pesante e pedante, leggero in quanto naturale, disinibito perché l’inibizione è una sovrastruttura e le sovrastrutture, appunto, pesano.

Canzoni scritte col piano, che è il suo strumento, ma che poi sono diventate altro, canzoni electropop nel senso più internazionale possibile (quindi non pensate a Canova, se no vi cascano le unghie e vi inizia a sanguinare il naso). Canzoni che parlano di lei, di Mimosa, ma parlano anche di noi.

Canzoni che parlano di sentimenti, e non potrebbe essere diverso, di rapporti interpersonali, ma anche di sesso, e lo fanno così, senza starci troppo a speculare sopra, che tra una scopata attaccati alla porta (come la prima volta) e uno sguardo non è che ci sia poi tutta questa differenza. Canzoni che suonano potenti, e la parola potente in bocca a Mimosa va presa sul serio, chi ha visto la copertina di questo gioiello, a sua volta gioiello, può ben capirlo, perché Mimosa è una donna compiuta, e essere donna compiuta oggi significa aver allineato non solo i pianeti che compongono il sistema solare dell’anima, ma anche essere riuscita a risolvere una volta per tutti, questo è l’augurio, il rapporto col proprio corpo.

Corpo, e torniamo indietro, non a caso esibito con orgoglio e con glamourness, la vernice argentata che lo colora non si trova lì per caso. Sentite Attentato al cuore, un pezzo che, lo avesse cantato Amy Winehouse, qui lo dico e qui lo sottoscrivo, sarebbe una hit internazionale, sentitevi quella danza di anime che è Angeli, col featuring di Davide Toffolo, sentitevi l’elettronica spinta di Evoluzione, e capirete che il women empowerment trova in Mimosa una sua fiera rappresentante.

Di colpo, senza averci lasciato il tempo di prepararci, Mimosa è lì, di fianco a noi, nuda. E di colpo, qui sta il trucco, siamo nudi anche noi, a tenere il tempo e quindi troppi impegnati per coprirci, provateci voi a battere le mani e coprirvi contemporaneamente.

Siamo sempre lì, signori miei, quando il corpo è qualcosa di diverso da quello che qualcuno ha stereotipato per noi, trovarselo di fronte diventa al tempo stesso uno spettacolo e qualcosa di naturale, come una aurora boreale o un raggio verde.

Hurrah, il brano come il disco, è tutto questo, Attentato al cuore il picco più alto, dove l’essere disinibiti e spudorati, per tre minuti e poco più si gioca anche il jolly della sensualità, due capezzoli che si inturgidiscono nell’acqua gelata, vedi tu che differenze fa l’acqua fredda a una donna e un uomo.

Una aurora boreale di canzoni. Un raggio verde di piano e macchine. Una signora di venti anni che si china per prendere il costume da dentro la borsa, mentre ancora state pensando a quanto cazzo farà freddo lì, dentro il Mare del Nord.

Il secondo album di cui voglio parlarvi, e solo in apparenza i due discorsi potrebbero sembrare scollegati, il passaggio dall’uno all’altro sembrare posticcio, è Indifesi, album d’esordio della cantautrice reatina Chiarablue.

Avessi voluto giocarmi la chiave della sintesi, ma sapete bene come la sintesi non sia esattamente il mio punto di forza, avrei potuto fermarmi qui, al titolo, tirare in ballo il concetto che una parola come indifesi rappresenta con chirurgica precisione, oggi, farlo scivolare sul declino scosceso dell’imperfezione. Avrei potuto, mi piace giocare scorretto e correre a perdifiato lasciando che l’affanno vi obnubili la mente, a volte, tirare in ballo l’imperfezione di Lady Gaga, quel voler tirare giù il castello dello stereotipo, la forza, la bellezza, la giovinezza, la perfezione, appunto, a suon di cadute, di crepe esibite, di cicatrici, l’imperfezione elevata a attitudine.

Nei fatti Chiarablue, all’anagrafe Chiara Mariantoni, quarant’anni fra qualche giorno, decide di esordire con un lavoro che è una sorta di monolito di Kubrick, dieci canzoni che sono dieci facce di un dado, tipo quelli che si usano nei giochi da nerd, capace di scardinare molte delle nostre convinzioni riguardo la contemporaneità, un tirare il freno a mano mentre siamo lanciati a duecento all’ora in autostrada, i testa coda, il segno di copertoni sull’asfalto bollente, i battiti che aumentano e ci fanno sentire vivi.

Chiarablue sa raccontare storie e lo sa fare con la voce, calda, precisa, mediterranea, e con la penna, intinta nel passato, lo sguardo rivolto al sud del mondo, circondata da strumenti che pretendono un ascolto non distratto, imperfetti in un mondo di plug-in, e per questo perfetta sintesi di quello che la perfezione in realtà è.

Perché diciamolo apertamente, lo smalto e le levigature, il tentativo ossessivo di cancellare i segni del tempo e del vissuto, l’omologazione, non fanno che togliere tridimensionalità alle immagini, come ai suoni, decidere oggi, nel 2021, a esordire con canzoni che ruotino intorno a strumenti caldi, il legno, le corde, gli ottoni, la voce, è scelta coraggiosa, come lo è inseguire suoni che arrivino da altre lande, ma che non siano reggaeton a uso estivo, ma un continuo flirtare con altre culture, farle proprie, usarle per essere per chi si è, come di chi non ha paura di mostrare i segni che il tempo lascia sulla pelle, l’assenza di perfezione che potrebbe renderci indifesi, ma che nei fatti ci mostra lucidi, vivi, senzienti. Il provare dolore, non scansarlo a prescindere, magari non per scelta ma per necessità, il mostrarsi feriti, rotti, lividi laddove tutto dovrebbe essere vincente, perfetto, arrogantemente splendido è come scegliere di non ingerire la pillola blu dalla mano di Morpheus, la rassicurante plasticosità della Matrice accantonata a vantaggio di un viaggio all inclusive nella vita vera.

Chiarablue a quarant’anni, so che potrei risultare poco carino a continuare a sottolineare il suo essere in apparenza fuori dai canoni, sforna uno dei più begli esordi ascoltati negli ultimi anni, come già ci aveva fatto intuire presentando Dueagostomillenovecentoottanta e Dinosauri al Premio Bianca D’Aponte. Canzoni che come una scheggia di legno che ci si infila nella carne mentre stiamo spostando un tavolo, immagine atta a evocare qualcosa di conviviale, mai come oggi idea vintage, non può che indurci a fermare, lì a fissare quel dito che batte, la bocca che nel mordere la carne nel tentativo di tirare fuori il minuscolo corpo estraneo ci si inonda del sapore antico del sangue, evocando ricordi di infanzia, quando si cadeva in terra e ci si disinfettava così, leccando le ferite. Ricordo antico, come antiche, e modernissime, sono le storie che Chiarablue racconta, da Cecilia, in un dialetto atavico, storia che si rincorre da secoli, a Solo un se, eterea e solida al tempo stesso, fumosa ma corporea, impreziosita dai suoni della tromba di Fabrizio Bosso, passando per gioielli come Amore tossico e Il male condiviso, tutte e dieci le tracce andrebbero citate, nessun brano sotto l’8, fosse questa una pagella.

Ma una pagella non è, piuttosto un racconto.

Racconto che è iniziato in un fiordo affacciato sul Mare del Nord, e su quel fiordo va a finire. Perché fossimo di nuovo in quel mare lì, l’acqua gelida che asciuga la pelle, increspandola, anche Chiarablue, come Mimosa, apparirebbe nuda, senza esitazioni. O meglio, col pudore di chi sa che mostrando la propria pelle, capitemi, le proprie imperfezioni, sta mostrando il proprio cuore, cuore che non appare come nei disegni dei bambini, spoiler, dentro non siamo fatti in quel modo lì, ma anche con la consapevolezza che non è vero che la migliore difesa è l’attacco, come sostiene un detto popolare spesso usato per difendere il nostro voler prevaricare gli altri, la migliore difesa è prendere coscienza di sé, lì, capaci noi di sopravvivere anche ai meteoriti, mica siamo come i dinosauri.