La nascita della SuperLeague e perché il calcio non è la musica, ma a volte ci somiglia

Tanto il calcio moderno nulla ha a che vedere con lo sport, tanto la filiera della musica rappresentata da certi marchi, nulla ha a che vedere con l’arte


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Mio padre è una gran brava persona. Una persona estremamente corretta. Quando suo cugino, tecnicamente un mio zio di secondo grado, è stato sindaco di Ancona, la nostra città, ha evitato anche solo di frequentarlo per tutto il suo mandato, per evitare che qualcuno potesse pensare che la cosa in qualche modo ci avrebbe portato vantaggi. Quando io ho fatto il servizio civile presso la Caritas, ente di cui in precedenza era stato presidente, lui che è diacono ed è stato il primo diacono delle Marche, in ordine cronologico, ha evitato di mettere una parola buona perché io potessi in qualche modo passare un anno in scioltezza, al punto che sono finito in un dormitorio per senza fissa dimora dal quale sono uscito nel momento in cui uno degli ex ospiti ha provato ad accoltellarmi. Insomma, mio padre è una persona retta, mai visto litigare con qualcuno, mai sentito una parola di troppo uscire dalla sua bocca. Tranne che quando si parla di calcio, in quel momento, nel momento in cui cioè è il pallone al centro della sua attenzione, diventa un altro.

Mi capita spesso di sfottere mio figlio piccolo, Francesco, per questa sua fissazione per la Junventus. Non tanto per la squadra per cui tifa, anche, ma nipote di uno juventino come mio padre aveva poche chance di tifare per altri, figuriamoci se avrebbe mai scelto il mio Genoa, e metteteci pure che da che è nato questo sarà il primo anno in cui la Juventus non vincerà lo scudetto, fatto non irrilevante. No, lo sfotto perché, ha nove anni, quando parla di calcio perde del tutto l’obiettività. Ogni partita è persa perché gli altri hanno rubato, lui usa la parola “baroni”, oppure perché l’arbitro era venduto, il che per uno che tifa Juve farebbe abbastanza ridere di suo. Annullano un goal per evidente fuorigioco? No, era goal e basta. Un qualsiasi fallo subito da un giocatore juventino meriterebbe l’espulsione, a vita, dal calcio. Roba così. Sembra di sentire mio padre. E infatti, quando si sentono al telefono, viviamo a quattrocento e passa chilometri da Ancona, sembra di sentire uno che parla da solo. Si danno ragione in tutto, disegnando un mondo nel quale la Juventus è una squadra vessata da tutto e tutti.

Normale che mio figlio volesse andare a giocare a calcio, cosa che, nonostante la pandemia, ha fatto.

Io ho cominciato a giocare a calcio abbastanza tardi, verso la fine delle elementari. Prima non potevo. Me lo impediva il mio maestro di violoncello, che sosteneva il calcio mi avrebbe non solo distratto dallo studio, ma anche, in via ipotetica, e anche un po’ jettatoria, potuto far male ai polsi. In effetti, una volta cominciato, mi sono fottuto le cartilagini di entrambi i polsi, ma credo sia stato un modo del mio subconscio di rimpossessarsi del mio fisico, troppo tempo tenuto lontano dai campi di calcio, al buio. Sì, perché il mio maestro di violoncello, ai tempi studiavo all’Istituto Pergolesi di Ancona col professor Moscardelli, mi faceva provare al buio, le serrande di Via Vittorio Veneto 2, al secondo piano, perennemente tirate giù e l’odore della pece, quella pece che si passava sull’archetto prima di suonare, a mischiarsi di un odore antico, tipo rosolio o cipria, oggi non saprei dire.

Nei fatti i miei si fidavano di quel che diceva il maestro Moscardelli, non che avessi alternative, e nonostante venissi da una famiglia di grandi appassionati di calcio, anche mio fratello Marco, otto anni più di me, tifa Juventus, e fosse stato per mio padre si sarebbe chiamato Omar, come Sivori, ho iniziato a calcare i campi solo verso la fine delle elementari, quando già giocavo, anche piuttosto bene, a Subbuteo. Il calcio, non credo sia necessario dirlo, avrebbe presto sostituito la musica nel mio immaginario e nella mia poetica, per altro inficiando in maniera definitiva la possibilità che nel resto della mia vita la musica classica trovasse un posticino nel mio cuore.

Funziona sempre così, con me.

I miei mi hanno portato per i miei primi diciott’anni di vita tutte le estati in Montagna, prevalentemente a Vigo di Fassa o a Ziano di Fiemme. E compiuta la maggiore età non sono più andato di mia volontà in montagna, manco fosse pura merda. Solo di recente ho fatto pace con la montagna, ma ormai sto scendendo la parabola della mia vita, il più è fatto.

Idem per il violoncello.

Ho dovuto passare ore e ore, giorni e giorni, settimane e settimane, insomma, ci siamo capiti, della mia infanzia a studiare violoncello, e ovviamente quando ho potuto scegliere ho abbandonato gli studi classici e non ho più ascoltato quella musica neanche sotto tortura. Salvo poi riprendere, neanche un paio di anni dopo, la chitarra in mano, da autodidatta, forte di quegli anni passati a studiare violoncello e anche pianoforte, perché in fondo la musica è sempre stata nel mio DNA.

Ma anche il calcio c’era, solo che non potevo praticarlo.

Eppure il calcio, quel calcio lì, degli anni Settanta, e anche dei primi anni Ottanta, è quello che più di ogni altro mi ha formato, non tanto come sportivo, oggi lo sono molto distrattamente, ma come uomo.

Siccome ho sempre avuto questo carattere di merda che mi spinge a andare controcorrente, a fare qualcosa che mi distingua dagli altri, fottendomene delle mode e della massa, sin da subito ho deciso che anche come calciatore avrei avuto qualcosa di diverso dagli altri.

Fatte le prime esperienze come mezzala destra, allora indicata con il numero otto, perché non avevo particolare predisposizione al goal ma avevo un buon destro, ero piuttosto veloce, ma anche troppo gracile per poter ricoprire ruoli difensivi o di contrasto, ho presto cominciato a muovermi come ala sinistra, convinto che il destro, mio unico piede all’epoca, mi avrebbe aiutato a contrastare i difensori, e convinto anche che il non poter crossare di sinistro avrebbe dato vita a fuoriprogramma che avrebbero spiazzato la difesa. E così per un po’ è stato, nelle squadre di quartiere nelle quali ho militato, nelle giovanili, prima, e in quelle delle categorie più basse, poi.

A inizio anni Ottanta, un giorno, mi sono rotto il malleolo del piede destro, fatto che mi ha costretto a portare il gesso per qualche settimana, compresa quella in cui si è sposata mia sorella Caterina, per altro. Come è normale a quella età ciò non mi ha tenuto lontano dai campetti parrocchiali, all’epoca frequentavo quotidianamente quello di San Domenico e di San Francesco, entrambi in cemento armato, o in quelli comunali, La Lunetta o il Pincio, in sabbia. Lì, non potendo calciare di destro, ho cominciato a calciare di sinistro, piede che fino a quel momento mi era sempre sembrato inutile. La caparbietà, l’ostinazione, chiamatela come meglio preferite, mi hanno fatto diventare in poco tempo ambidestro, con una certa propensione all’uso del sinistro. A quel punto il mio aver imparato a giocare a sinistra è diventato quasi profetico, perché un’ala sinistra ambidestra, con un buon mancino ma con un destro naturale, è cosa rara anche oggi.

Col tempo, diciamo pure con gli anni, mi sono spostato verso il centro, diventando una buona punta, volendo anche un’ottima punta, sempre in quei contesti lì. Amante del calcio inglese e di quello uruguaiano, ho sempre amato un calcio duro, fatto di entrate ruvide, senza tante storie. Così mi sono ritrovato a essere un attaccante che menava, quasi sempre spalle alla porta, piuttosto abile coi piedi, molto veloce negli scatti e quasi totalmente incapace di testa. Più facile che segnassi di rovesciata o di tacco, piuttosto che di testa. Questo anche grazie alle giornate intere passate a giocare coi miei amici alla tedesca in Piazzetta. Passaggi al volo e goal al volo solo di prima. Un punto di piede, due di testa, tre di tacco e quattro di rovesciata. Punti da scalare al portiere a ogni goal. Vinceva chi rimaneva in campo.

Proprio in quel periodo, eravamo negli anni Ottanta, sempre, mi sono fissato con la coppia Bortolo Mutti/ Marino Magrin, in forza all’Atalanta. Un po’ perché Magrin era in effetti piuttosto spettacolare da vedere, un po’ perché dietro casa mia, in Piazza Malatesta, un tempo Campo della mostra dove il boia esibiva le sue vittime, abitava la famiglia di Agostinelli, capitano della squadra di Bergamo negli anni subito precedenti.

Di fatto passavo le giornate a provare i cross millimetrici con cui Magrin faceva segnare Mutti di testa. In pratica costringevo i miei amici a stare fermi davanti alla porta, mi spostavo a qualche metro di distanza, il più lontano possibile, e tiravo queste sassate di sinistro che finivano in testa dei miei amici, e di conseguenza in porta. Come se loro fossero la sponda che usavo per segnare su punizione.

Questo era il calcio per me, qualcosa di fisico e spettacolare, poetico, certo, perché vedere giocare gente come Neeskens o Kempes, per dire, o la Danimarca di Elkjaer era uno spettacolo in un periodo preglobalizzazione. Qualcosa anche di esotico.

Niente a che vedere con le lezioni di violoncello del maestro Moscardelli, o di quelle di solfeggio della maestra Rosignoli, una tipa secca secca e dalla carnagione vagamente verdastra, si pensava perché vegetariana in epoca in cui il vegetarianesimo era ancora più esotico dei fratelli Morten e Jesper Olsen, che poi fratelli non erano.

Il calcio era anche un modo per rivendicare il mio posto nel mondo, figlio di piccoli borghesi sputato in un quartiere benestante. L’arroganza di chiedere al portiere, prima di battere un rigore, se voleva che lo tirassi di destro o di sinistro, lasciando a lui la scelta delle armi, era sì un modo per spaventarlo, ma anche, più pragmaticamente, per gridare a tutti che io ero diverso, certo, l’unico che a quattordici anni non ha avuto un motorino, o il solo a avere un campo di Subbuteo tarocco, un po’ più largo e corto dell’originale, ma la mia diversità, guardandola bene, poteva anche essere un punto di forza, non necessariamente un punto debole.

La musica sarebbe poi tornata sulla mia strada, è ovvio. E non ne sarebbe più uscita. Come critico musicale ho cercato di portare in un ambiente di fighette una modalità alla Tony Adams, o a volerla dire con un po’ più di poesia alla Roy Keane o Ryan Giggs. Entrate dure, ma poi ci si rialza subito e si riprende a giocare. Niente rigori inventati. Niente infortuni fittizzi atti a prendere tempo.

Quando mai vi venisse la tentazione di atterrarmi sappiate che non mi sono mai sognato di ritirare la gamba in un contrasto, e che piuttosto ho sempre amato la finta all’ultimo secondo, alla George Best, perché un numero spettacolare val pure un calcione.

Vi racconto questo oggi, sapendo di aver raccontato queste vicende già altre volte, come fanno gli anziani che hanno vissuto la guerra, lì a ripetere in continuazione i medesimi aneddoti, non perché volessi riaccendere nei miei coetanei il ricordo di Magrin, poi approdato proprio alla Juventus, per altro, quanto perché è di queste ore la notizia che il calcio, questa bruttura che è il calcio moderno, nella notte ha subito uno strappo, sembra addirittura uno strappo definitivo.

Era da tempo che se ne sentiva parlare, al punto che anche io, che ormai sono disilluso e presto al mondo del pallone poca attenzione ne ero a conoscenza, alcune delle squadre più forti o comunque con più seguito al mondo, tutte ovviamente europee, hanno deciso di unirsi in una SuperLega, il nome tecnico è SuperLeague, allo scopo di dar vita a un campionato collaterale ai campionati nazionali, e credo anche alle coppe internazionali in capo all’Uefa. Una sorta di Campionato dei Campioni, anche se a tale scopo ci sarebbe già la Champions League, dove però l’accesso è esclusivamente rivolto a chi ne è già parte, salvo qualche misero spazio, ci hanno fatto sapere, alle squadre che nei rispettivi campionati si sono messe in evidenza. Pensateci, una cosa quasi ovvia. Ci sono squadre che hanno un seguito di milioni di tifosi in tutto il mondo, insieme muovono letteralmente miliardi di euro, perché mai non dovrebbero sfruttare questa loro potenza per farne economia? Perché il calcio è anche altro, potrebbe sollevare come obiezione qualcuno, un filo ingenuo. Perché il calcio è inclusività. Perché il calcio è quello sport che ha così tanti tifosi e anche così tanti praticanti, proprio perché democratico, da Maradona a Cristiano Ronaldo quanti sono i campioni cresciuti in ambienti estremamente poveri? Basta avere due maglie per fare i pali, un pallone anche di stracci e si può giocare una partita ovunque, anche in strada. Tutto vero, ci mancherebbe, mica è un caso che da Soriano a Galeano, arrivando ai giorni nostri, il calcio è uscito dalle gabbie dello sport per diventare altro, sorta di volano per metafore e idealizzazioni. Il calcio, lo dicevo sopra, è riscatto sociale, sogno, magia. Sentire fior di intellettuali parlare di calcio come arte, o vedere fior di intellettuali perdere la lucidità e mandarsi a cagare per questioni legate al calcio è cosa comune, naturale, perché se la musica è l’arte più diretta, quella più immediata, motivo per cui se ne parla anche senza averne necessariamente le competenze, il calcio è la medesima cosa, una forma di sport che in mano (o nei piedi) di qualcuno diventa arte, comunicazione, proietta aspettative e le realizza pure.

Solo che il calcio, questo calcio qui, non esiste più da tempo. Da che, cioè, è diventato solo un business. Intendiamoci, non prendetemi per un tipo naif che se ne lamenta, è una cosa orribile, ma non più del fatto che chi scopre vaccini capaci di salvare il mondo poi li metta sul mercato, per intendersi, ormai le cose funzionano così, ovunque. Il calcio è un business, non è uno sport. Già quarant’anni fa, nelle scuole calcio, ti insegnavano come tuffarti in area per ottenere un rigore, figuriamoci se credo ancora nella magia. Sapere quindi che Milan, Arsenal, Atletico Madrid, Chelsea, Barcellona, Inter, Juventus, Liverpool, Manchester City e Manchester United, Real Madrid e Tottenham hanno dato vita a una sorta di Justice League dei supersquadroni di calcio non mi sorprende affatto. Come non mi sorprende affatto che a gridare al furto sia l’Uefa, con a seguire tutte le leghe calcio delle nazioni interessate, per ora Premier League, Serie A e Liga, ma a breve si attende l’ingresso tra i fondatori della SuperLeague anche di altre squadre, suppongo o tedesche o francesi. Non mi sorprende il fatto che si siano espressi a riguardo Borsi Johnson, Macron, Enrico Letta, tutti contro questa iniziativa. Era ovvio accadesse, succede sempre così quando chi ha di più degli altri decide di tenerselo per sé.

Certo, sentire l’Uefa che parla di avidità non riferendosi a sé stessa fa molto ridere, il calcio è morto come sport proprio per l’avidità dell’Uefa, anche per l’avidità dell’Uefa, toh. Sentir parlare di squalifica da tutte le leghe nazionali, la revoca quindi degli scudetti e delle coppe in corso, sentire di esclusioni di tutti i giocatori delle squadre coinvolte dalle proprie nazionali è qualcosa che sconcerta, perché è vero che di fronte a una presa di posizione netta si deve reagire con pari forza, ma dubito che l’anno prossimo la Serie A avrebbe un gran seguito se le partite di punta fossero Sassuolo-Spal, come dubito che Atalanta-Goteborg attirerebbe grandi numeri davanti alla tv, in Champions League. Per non dire degli Europei o i Mondiali, togliete i campioni di quelle squadre e cosa rimane?

Certo, con questo non voglio certo giustificare l’avidità degli avidi, ci mancherebbe, fa tutto schifo, e sicuramente la SuperLeague vedrà vita e col tempo renderà il calcio una cosa o per superricchi o per tutti gli altri, come succedeva un tempo in altri ambiti, lo spettacolo o la cultura, a corte ci andava Mozart, in piazza il suonatore di organetto.

Ovvio che sapere che tutte le settimane ci saranno scontri tra quelle squadre, cui magari si aggiungeranno PSG o Bayern, non può che attirare un grande pubblico, togliendolo al resto, che di colpo sarà un diversivo, ma è anche ovvio che quel che è successo nel basket difficilmente è applicabile al calcio, dove piuttosto mi viene da ipotizzare paragoni con la box, divenuta col tempo soggetta a più ambiti, con conseguente perdita di interesse e di nomi.

Non ho la palla di vetro, quindi non so dire se il braccio di ferro, nel mentre, per dire Andrea Agnelli è uscito dall’ECA, la lega che associa le squadre europee, porterà a un rientro di questa decisione, ne dubito fortemente, come non so dire se in effetti le minacce di Uefa e Leghe varie avranno un seguito, anche lì, dubito, quel che so e torno a occuparmi di quello che è il mio ambito, ogni volta che qualcuno pensa che calcio e musica siano ambiti in qualche modo paragonabili mi viene squassantemente da ridere. È successo anche giorni fa, quando Draghi ha chinato il coppino di fronte alle pressioni riguardo le partite degli Europei in presenza, accettando un 25% di tifosi sugli spalti, a giugno, fatto che ha scatenato una ridda di polemiche, con pure Franceschini a dire: se succede per il calcio allora anche per la musica, salvo poi apprendere che per la musica si parla di mille spettatori in presenza in spazi aperti, alla faccia dei diciottomila presenti allo stadio. Oggi tutti i quotidiani aprono non parlando di notizie legate alla pandemia, e magari sarebbe anche il caso, né parlando di politica interna o internazionale. Toh, neanche parlando del processo a Salvini. No, si parla ovunque e con tanti articoli di SuperLega, perché il calcio muove numeri che spostano il pil, altro che gli artisti che ci fanno divertire e emozionare. Prova ne è che lo scontro, lì, è tra l’Uefa, che ha appunto ricattato bellamente Draghi costringendolo a mettersi a quattro zampe, e un nucleo potentissimo di club, mentre dall’altra parte abbiamo Franceschini, ministro, che blatera. Certo, abbiamo anche le proteste dignitose dei Bauli in piazza, ma visti i risultati portati a casa, direi che non siano proprio incisivi (e lungi da me parlare di come la presenza di alcuni vip della canzone abbia in tutti i casi monopolizzato la già scarsa comunicazione a riguardo).

Da noi hanno alzato la voce Live Nation, Friends and Partners e Vivo Concerti, per dire che se apre il calcio aprono anche i concerti, per altro tutte aziende che col cazzo che hanno provveduto a restituire i soldi incassati nel 2019 per concerti che, se va bene, si terranno nel 2022, senza nel mentre pagare ovviamente le maestranze, anzi, incassando parte dei ristori destinati alla filiera, ma sentire loro che alzano la voce, lo confesso, fa ridere esattamente come sentire l’Uefa che accusa di avidità i club che hanno dato vita alla SuperLeague.

Ecco, mettiamola così, tanto il calcio moderno nulla ha a che vedere con lo sport, lo si tratti per quel che è, un mercato, e ci si metta il cuore in pace, tanto la filiera della musica, rappresentata da quei marchi lì, nulla ha a che vedere con l’arte, vedi sopra, con la piccola differenza che essendo un mercato che vale meno è ovvio che meno attenzione riceva da parte di chi muove le fila, il Governo. Smettetela di pensarla in maniera più poetica, ci passate per coglioni.

Fortunatamente il calcio è ancora lo sport che dei ragazzini possono praticare al parco, mettendo due cartelle come porte e usando un pallone comprato in edicola per pochi euro, come la musica è quella che si suona in ogni dove, imbracciando una chitarra, magari quella di uno zio, trovata in casa, e ritrovandosi con gli amici in cantina.