Napoli Negra, storie di migranti nella città informale

Abbiamo incontrato il giornalista Vincenzo Sbrizzi che ci ha raccontato il suo libro-reportage, che raccoglie dalla voce dei protagonisti le vicende di 25 donne e uomini che hanno scelto, o sono stati scelti, da Napoli

Napoli Negra

Fotografia di Alessandra Finelli, progetto creativo di Gix Musella


INTERAZIONI: 639

Napoli Negra di Vincenzo Sbrizzi, appena pubblicato per Edizioni Iod (182 pp., 15 euro, prefazione di Isaia Sales) è un viaggio attraverso le storie di 25 migranti che, dopo un complicato itinerario, sono alla fine arrivati a Napoli. L’autore, cronista di giudiziaria e vincitore del Premio Giancarlo Siani 2020, ripercorre i vissuti di persone che spesso condividono gli stessi elementi drammatici – la durezza del viaggio, le violenze subite, l’epopea della burocrazia –, e compone un affresco in cui è sempre al centro il profilo dei singoli, la loro identità di esseri umani. Senza che mai il libro assuma però un tono sensazionalistico, sempre sorretto da un punto di vista rispettoso, partecipe e senza enfasi posticce, in cui emerge l’asciuttezza del cronista che punta all’essenziale e alla ricerca della verità.

Ed è al cronista, e al narratore, che abbiamo chiesto di raccontarci il percorso che lo ha condotto a comporre questo libro. Nel quale ai 25 protagonisti se ne aggiunge un altro, che è ovviamente Napoli. Città caleidoscopio, contraddittoria e accogliente, precaria e materna, flessibile e inventiva: una destinazione quasi mai cercata dai migranti, che per una serie di fortuite circostanze finisce però per diventare il luogo in cui decidono di costruirsi la loro seconda vita.

Vincenzo, come è nato Napoli Negra?
Ho deciso di fare delle interviste ai migranti perché ho sempre avuto la sensazione che quando parliamo di questo fenomeno lo affrontiamo come una questione meramente numerica, e spersonalizzante. Quindi volevo raccontare le vicende dei singoli che stanno dietro e prima dei numeri. Ero intenzionato a scrivere un articolo, poi dopo i primi incontri ho capito che ci voleva un progetto più ampio che accogliesse più storie. Lì è scattato un passaparola tra i migranti intervistati, che mi hanno presentato alcuni loro amici con vicissitudini simili. Perché il dato che emerge è anche il loro bisogno di dare voce alle esperienze molto forti che hanno vissuto.

Dimitri, originario della Repubblica Centro Africana, uno dei 25 protagonisti di Napoli Negra

Elemento che accomuna vari racconti è la Libia. Prima della guerra civile del 2011 la Libia di Gheddafi rappresentava la destinazione in cui bene o male costruirsi una vita. Dopo di allora invece lo scenario cambia, e il paese diventa per i migranti il ponte, pieno di insidie, verso l’Europa.
Per i migranti la Libia rappresenta in primo luogo l’attraversamento del deserto. Un’esperienza difficilissima, col rischio di essere rapiti e subire richieste di riscatto alla famiglia per il rilascio. Queste sono persone che già spendono tutto quello che hanno per il viaggio, il che comporta la necessità di ricorrere ai familiari o altri espedienti per trovare altri soldi, magari essendo costretti a lavorare persino due anni per riscattare la propria libertà.
Il regime di Gheddafi certo non era democratico, ma aveva una sua disponibilità economica, rapporti commerciali e aiuti dall’Europa che lo rendevano agli occhi dei migranti una terra in cui stabilirsi e lavorare, pur con tutte le sue restrizioni in termini di libertà civili. Oggi la Libia è diventata una trappola. Con l’aggravante che l’Europa è consapevole della situazione, ma ha scelto di affidarsi a questi governi locali – molto frastagliati – al fine di contenere il fenomeno della migrazione verso il nostro continente. È un atteggiamento ipocrita, ci sono campi di prigionia vicinissimi a insediamenti della Comunità Europea, per cui non possiamo fingere di non sapere cosa accade lì dentro. Questa politica ha accomunato diversi governi e l’operato di più ministri dell’interno, da Minniti a Salvini. Fino alle recentissime dichiarazioni del presidente del consiglio Draghi, che si è detto soddisfatto dell’operato della Libia in tema di immigrazione.

Il luogo in cui arrivano i migranti è Napoli. È una città scelta, che li sceglie o è una destinazione casuale?
I migranti in generale vogliono andare nel Nord Europa, l’Italia è un punto di passaggio. Napoli è un posto in cui sono trovati per caso, rendendosi conto che, dal punto di vista dei controlli e legislativo, offriva più occasioni per mimetizzarsi. Qui c’è un sistema di accoglienza che va oltre la rigidità burocratica, per loro è stato più semplice inserirsi nelle maglie della città.
L’atavica fragilità economica della città paradossalmente la porta a essere più accogliente con persone che versano in condizioni di povertà, senza far troppe differenze tra napoletani e migranti. Napoli offre più o meno lo stesso tipo di opportunità e comporta gli stessi rischi per tutti i poveri del mondo.
Poi a Napoli c’è un mercato del lavoro “informale”, che permette ai migranti di trovare alloggio e un impiego, ovviamente in nero, anche senza documenti. È una condizione di illegalità, di irregolarità, certo, che però offre a chi arriva l’occasione per cominciare a far qualcosa, per affrontare quella delicata fase di transizione di cui il migrante ha bisogno per imparare la lingua, per integrarsi e aspirare così a condizioni di vita più stabili. È più difficile farlo in altre parti d’Italia, dove la burocrazia è più rigida, e pone i migranti in situazioni insostenibili, costringendoli ad attendere documenti anche per due, tre anni. Poi Napoli possiede anche caratteristiche climatiche e umane che molti ragazzi, soprattutto africani, riconoscono più vicine alla loro indole.

Justina, nigeriana, oggi lavora nel progetto della sartoria sociale Nakupenda, promosso dall’associazione Inclusione Alternativa

In Napoli Negra parli di imprese sociali e associazioni come Less, Dedalus, il Castagno che si occupano dell’accoglienza dei migranti. Come funziona questa rete a Napoli?
Anche qui vige il principio dell’informalità, perché se gli operatori dovessero basarsi solo sui percorsi istituzionali sarebbe impossibile accogliere tutti. Per far fronte al problema dei centri di accoglienza farlocchi, il decreto Salvini ha applicato dei tagli lineari che hanno portato alla chiusura anche di luoghi che invece lavoravano bene, con persone specializzate che hanno perduto l’impiego. Le quali, va detto, hanno continuato a impegnarsi senza retribuzione, perché ormai sono diventati punti di riferimento per i migranti e si sentono personalmente coinvolti. Se l’accoglienza funziona, è per merito loro. Realtà più grandi come Less riescono poi ad applicare un “metodo napoletano” flessibile, facendo il possibile anche oltre gli stretti confini dettati dalla burocrazia e dai finanziamenti pubblici, coi quali pure lavorano molto bene.

Che ruolo ha la criminalità organizzata nella tratta dei migranti?
Rispetto alle ragazze nigeriane, con cui ho avuto modo di parlare, il ruolo della criminalità è praticamente istituzionalizzato. Non c’è modo di uscire dal paese senza entrare in quel circuito, sono loro a cercarle. La magistratura italiana sta conducendo delle inchieste sul tema, perché è indubbia l’esistenza di un ponte tra Nigeria e Italia rispetto alla tratta di esseri umani, in cui si incrociano gli interessi delle organizzazioni criminali africane e nostrane, che si suddividono mercati e guadagni. A questo si aggiunge il tasso di corruzione endemico dei governi africani, dove non si muove nulla se non paghi.

Che peso hanno avuto I decreti Salvini e la propaganda anti-immigrazione della Lega nell’intensificarsi dell’intolleranza? In Napoli Negra citi casi di razzismo plateale e violento anche nella Napoli cosiddetta accogliente.
Tutte le persone che ho intervistato considerano i decreti Salvini e la sua propaganda uno spartiacque. Il clima è cambiato, c’è più intolleranza. Questo ha come effetto una ghettizzazione degli immigrati, che si chiudono difensivamente nelle loro comunità, il che rende molto più laborioso il processo di integrazione. Poi è vero che alla fine del 2020 i decreti Salvini sono stati in parte superati dal nuovo decreto immigrazione. Però il cambiamento legislativo viene vissuto sempre come un trauma dai migranti, perché toglie la certezza del percorso da seguire e genera ulteriori problemi burocratici. Aggravati dalla pandemia, che ha rallentato il lavoro delle amministrazioni, con una inevitabile e sfiancante dilatazione dei tempi.

Adam, nativo del Mali, mediatore culturale, a Napoli ha conseguito il diploma di maturità

Come hai affrontato da scrittore la questione del punto di vista? Te lo chiedo perché credo sia un aspetto essenziale per evitare il rischio della strumentalizzazione del dolore.
La prima scelta è stata quella di non partire mai dal racconto diretto del dramma. Ho sempre cominciato chiedendo come si fossero trovati a vivere a Napoli. Ho fatto così anche per metterli a loro agio, perché è difficile ripercorrere con uno sconosciuto la propria storia personale. I loro trascorsi drammatici poi sono affiorati molto naturalmente. Ed è impossibile da cronista restare indifferenti. Per questo ho rinunciato subito all’idea di cercare un tono “oggettivo”, neutrale. Sono vicende che ti investono, non puoi mantenere alcun distacco. Comunque ho cercato di essere sempre snello nello stile, senza aggiungere fronzoli o considerazioni personali. A un certo punto mi sono dovuto fermare, per evitare il rischio dell’assuefazione. Si tratta di vicende che hanno molti elementi in comune, e assuefarsi avrebbe significato incorrere nell’errore che volevo combattere, cioè quello di presentare queste storie come una massa indistinta di vicende sì terribili, ma in fondo molto simili. Così li avrei di nuovo ridotti a numeri.

Cosa ti ha lasciato Napoli Negra?
Sicuramente mi ha lasciato una ferita aperta. Le persone che ho intervistato mi hanno insegnato a stare al livello dell’interlocutore. Hillary Sedu, avvocato di origini nigeriane ormai perfettamente integrato a Napoli, anche recentemente al centro delle cronache, mi ha fatto un bel complimento: “Ho notato che nelle tue interviste resti sempre al livello dell’intervistato”. Spesso i cronisti raccontano le cose dall’alto in basso, con un tono che rischia il pietismo. Grazie ai migranti ho imparato a rapportarmi all’interlocutore senza supponenza, da pari a pari. Oltretutto posseggono una dignità, una forza, un vissuto che non può permetterti in alcun modo di sentirti superiore a loro. E poi le loro storie spingono a ridimensionare i nostri problemi. Noi tendiamo a vedere un cambio di lavoro, di città, un trasloco come questioni insormontabili. Il paragone con la loro vita ci restituisce il senso della realtà.