Judas And The Black Messiah, l’America delle Pantere Nere nel film candidato agli Oscar 2021

Dal 9 aprile sulle piattaforme il film di Shaka King su Fred Hampton, leader del Black Panther Party. Una ricostruzione febbrile di una pagina scomoda degli anni Sessanta, un racconto insieme popolare e militante. Ottimi interpreti e 6 nomination

Judas And The Black Messiah

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Dal 9 aprile disponibile su molte piattaforme, Judas And The Black Messiah è riuscito a farsi spazio nella corsa agli inusuali Oscar 2021 postpandemici. Sono ben sei le nomination ottenute dal film di Shaka King, distribuito dalla Warner ma prodotto (anche da Ryan Coogler, il regista di Black Panther), diretto e interpretato da afroamericani: due per i migliori attori non protagonisti LaKeith Stanfield e Daniel Kaluuya (questo favoritissimo, sta facendo incetta di premi), e poi miglior film, sceneggiatura originale (al regista e William Benson), fotografia e canzone.

Il film, a partire dal titolo dalle risonanze bibliche, ha il pregio della ricostruzione di una pagina di storia americana meno conosciuta. Al centro del racconto, che utilizza secondo un modello ormai canonico anche spezzoni d’epoca, c’è la figura di Fred Hampton (Kaluuya), che sul finire degli anni Sessanta fu a Chicago il leader delle Pantere Nere dell’Illinois. Un giovane di soli vent’anni, capace di infiammare l’uditorio con la sua eloquenza irruenta e ispirata (studia e manda giù a memoria interi discorsi di Malcom X per affinare il suo bagaglio retorico).

È particolarmente inviso all’FBI che, guidata da un paranoico J. Edgar Hoover (Martin Sheen con mascherone: le rappresentazioni del famigerato Hoover al cinema tendono spesso alla deformazione grottesca, così anche l’Eastwood del biopic con DiCaprio), ha messo in piedi una strategia di controspionaggio per reprimere le organizzazioni antagoniste, puntando su campagne che screditino i movimenti diffondendo false notizie, e infiltrando spie all’interno dei gruppi. Così quando l’agente Mitchell (Jesse Plemons) arresta un delinquente di colore che si è finto un federale, William O’Neil (Stanfield), con la minaccia di sette anni di reclusione lo convince a diventare un informatore dell’FBI ed entrare nelle Pantere Nere. Dove a poco a poco, diventa uno dei più fidati uomini di Hampton.

Fred Hampton, leader del Black Panther Party dell’Illinois, in una foto del 1969

Al contrario di lui, Stanfield non sembra avere alcuna coscienza politica. Però, una volta nell’organizzazione, comprende la statura di un leader che possiede una visione marxista e anticapitalista, che riannoda la questione razziale alla coscienza di classe e che coniuga la spinta rivoluzionaria a iniziative solidaristiche – “Non combatteremo il razzismo con il razzismo, ma con la solidarietà” dice, di qui la mensa che dà da mangiare a tremila bambini alla settimana. Hampton vuole ricomporre i conflitti tra i gruppi, e punta alla creazione di un fronte comune degli sfruttati, siano essi neri o proletari bianchi, la Rainbow Coalition, multirazziale e multiculturale. E va nella stessa direzione il patto di non belligeranza che riesce a negoziare tra le gang di strada della città.

L’attenzione al profilo storico e alla strategia politica di Hampton è l’aspetto più interessante di Judas And The Black Messiah. Il quale si aggiunge a un significativo numero di film recenti, diversi dei quali firmati da artisti neri, dal Selma su Martin Luther King a One Night In Miami di Regina King –  nel gruppo metterei anche il controverso Detroit di Kathryn Bigelow –, che cercano una chiave né semplicistica né troppo spettacolare (come invece Il Processo Ai Chicago 7 di Sorkin) per raccontare la stagione degli anni Sessanta dei movimenti antirazzisti e per i diritti civili, la quale suscita immediatamente interrogativi rilanciati su di una contemporaneità non esattamente pacificata.

Da sinistra, LaKeith Stanfield e il vero William O’Neil

Judas And The Black Messiah ricostruisce la breve, concitata parabola della vita di Fred Hampton mettendone in luce il magnetismo carismatico (che Kaluuya rende con una interpretazione vibrante, di compressa energia) e la tensione ideologica però non settaria. King lo racconta come un leader, un rivoluzionario, anche un uomo con un privato (la storia d’amore con l’attivista con cui avrà un figlio). E soprattutto un martire, perseguitato dai federali – che si muovono in stanze buie, scavati nell’ombra della loro dubbia moralità –, prima arrestato e infine barbaramente ucciso in un raid delle forze dell’ordine che ha le fattezze inequivocabili di un’esecuzione.

Judas And The Black Messiah patisce qualche incoerenza, anche per il suo tentativo di innestare una storia militante in una confezione “popolare” da cinema mainstream, con qualche lungaggine e mescolamenti di generi non sempre ben bilanciati tra loro – thriller, dramma intimista, squarci da vecchio cinema blaxploitation (O’Neil che guida un macchinone ripreso col grandangolo e musica funky in sottofondo). La messinscena però è febbrile, e l’affastellamento di fatti volti eventi è l’altra faccia dell’urgenza che King ha di raccontare una storia.

Un film di parte ma non manicheo, segnato da un finale doppiamente tragico e problematico. Perché, all’esecuzione di Hampton nel 1969, a soli 21 anni, fa seguito la scomparsa del “Giuda” O’Neil, suicidatosi a quarant’anni nel 1990, nello stesso giorno in cui venne presentato Eyes on the Prize II, un documentario in più parti sulla stagione dei diritti civili cui aveva rilasciato la sua unica intervista – di cui Judas And The Black Messiah mostra alcuni spezzoni che lasciano impressionati –, nella quale ripercorreva i suoi anni nelle Pantere Nere da informatore dell’FBI.