Enzo Jannacci, otto anni fa, lasciava un posto vuoto in un venerdì di Passione

Voglio ricordare Enzo: era un pazzo scatenato, un vero genio, un direttore e burattinaio e tutti gli devono qualcosa e molto più

15/03/2008 VZ PROGRAMMA TELEVISIVO CHE TEMPO CHE FA NELLA FOTO ENZO JANNACCI


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Otto anni senza Enzo Jannacci che però se n’era già andato prima, lo avevano messo da parte perché questo non è un Paese per geni e Enzo, essendo pazzo scatenato, genio lo era sul serio: Sandro Paté coi suoi fantastici libri sta tracciando l’epopea del Derby, di quella Milano là, a cavallo tra cabaret e malavita, e allora Cochi e Renato, Abatantuono, il Dogui Guido Nicheli e tutti gli altri e in platea magari i Turatello, i Vallanzasca, notti così, vita così e di quella vita lì Jannacci era direttore e burattinaio, tutti gli devono qualcosa e molto più di qualcosa. Ma Enzo essendo pazzo cosa ti fa? Muore a Pasqua, un giorno di festa ed è un dispetto da carogne, da artisti, da disadattati, roba che sembra uscita fuori da una sua canzone insensata ma dai fin troppi sensi: dov’è l’Enzo? Non c’è, è morto, ma come morto, ma è Pasqua?!, eh sì, è proprio morto. Così, un Venerdì Santo di otto anni fa, ultimo sberleffo da santo giullare lui che in chiesa non ci andava ma dentro ci aveva “un seme, qualcosa che cresce piano piano”. Andato, sparito nella pioggia di lacrime insieme a un mondo di visioni, di angoli, di spigoli catturati nei solchi dei dischi e dei giorni. Milanese, nevrastenico, come quella “J” del cognome, bizzarra, segaligna e poi si scopriva che veniva su dal sud, l’origine era pugliese, come gli altri folli del Derby e dintorni, Celentano, Teocoli, gente che nel dopoguerra aveva ridipinto Milano di poesia demenziale, di bella e mala vita, di sogni venuti male.
Pugliese di stirpe macedone il nonno, i balcanici son sempre venuti di qua italianizzando il nome. Forse per questo l’Enzo di Milano aveva sempre così dentro la gente del mare, che affogava in mare, ce l’aveva dentro come un seme di dolore, di passione, che cresceva pian piano e arrivava fin nell’ambulatorio: allampanato, matto sulla scena, serio e rigoroso in camicie da medico, non aveva mai smesso quell’umanità stralunata, palco o sala operatoria che fosse. Una manciata di parole sparpagliate, cucite dal filo di una fisarmonica ed eccolo lì il blues milanese, fatto di case di ringhiera e di borgate, di ombrelli e fiori nel fango, di cardinali e disperati, di fabbriche spietate per chi ci lavorava e la finta pietà di chi ti scarica, “Se me lo dicevi prima”, “Ma io sto male adesso”. Una armonica a bocca, una storia di parole sgangherate e desolate ed eccolo lì quel blues bianco, di quartiere, di lampioni gialli sullo sporco della città, che fa star male, che mette l’angoscia peggio dei vortici dei filosofi, perché è più facile specchiarcisi, riconoscerla, cascarci dentro a quella malinconia da due soldi che è democratica e fotte tutti, poveri e ricchissimi, barboni e padreterni.
Parole biascicate urlate farfugliate incomprensibili ma chiarissime come tutto ciò che si capisce senza bisogno di tradurlo, passa, arriva dritto nell’anima,“Io non sono un cantante, c’ho quella vociaccia lì”, a volte masticate dal vernacolo dei Navigli o di un altro pezzo di periferia, ma italiane. Parole sincopate, che inzeppavano versi che riempivano frasi che farcivano discorsi che gonfiavano canzoni che non erano canzoni, erano frammenti distonici di storie, pezzi di vita e alla vita – alla vita, non alle sue proiezioni, non alle sue elucubrazioni – va resa tutta la dignità della vita, e la dignità della vita è fatta di sconfitta, di sincerità, di verità nel dolore, in quell’angoscia che chiunque può riconoscere perché è anche la sua.
E così questo pianeta con gli occhiali cantava il blues dell’Ortica, struggente e crudo, senza speranza, senza lieto fine, e metteva un brivido perché aveva il coraggio della poesia, di guardare in faccia la realtà e cantarla per quella che era. La realtà. Che non è fatta di gesti eroici e di cadute tragiche, ma di matti non capiti, di sbandati che crepano per una cicca, di derelitti che si vendono la radio, di donne che non capiscono e di vita che non si capisce. Solo vita, piena di vuoto, piena di poesia da buttare, piena di ingiustizia senza redenzione come può esserla quella di chi vuole andare allo zoo e non ce lo lasciano andare.
L’altro lato della poesia è il jazz e Jannacci lo conosceva bene: i concerti con Stan Getz, Gerry Mulligan, Chet Baker e Franco Cerri, l’apprendistato con Bud Powell che gli insegna la tecnica della mano sinistra al piano, quella era una metropoli distopica ma una metropoli della Madonna, tutti ci passavano, lasciavano una scia ribollente d’occasioni, di rielaborazioni, il rock and roll alla milanese con Gaber, i due Corsari di fine anni ’50, e ancora Jannacci e Fo, Cochi e Renato “e lo sputtanamento, olè”, l’Ornella Vanoni e il Ricky Gianco e tutti gli altri e sono tanti in quella Milano là ad agitarsi dovunque ci son 4 assi a forma di palco. “Ho visto un re” e sprazzi di disperazione tirata via, beffarda, “Vincenzina e la fabbrica”, perché c’era pure quella cosa lì degli operai dalla vita di merda, che la metti poetica come ti pare ma sempre di merda rimane; ma se uno cerca un’eredità da Jannacci gli viene in mente la punturina di “L’importante è esagerare”. In Italia esagerano tutti, sempre, comunque, quella canzone potrebbe, dovrebbe essere il nostro vero inno nazionale. Si esagera, ci si taglia le balle da soli, poi si piange un po’, poi si ricomincia a esagerare.
Anche Jannacci esagerava. In follia: una volta sull’aeroplano tirò matta una hostess, che lui voleva un caffè fatto così e così, eh no signorina, non ci siamo non va bene, e quella poverina andava e veniva e non ne usciva viva e l’avrebbe ammazzato. Finché lui le fece una carezza, era tutto uno scherzo. Diceva il giullare folle in camicie dal cuore umano: “Ho visto guarire più gente per la compagnia di un gatto che per le medicine”. Una parola buona e matta per tutti la trovava sempre. A Sanremo nel ’91, quando Renato Zero porta “Spalle al muro” e vuole arrendersi, vuole chiudere lì: “Renato si sente vecchio ma non è vecchio, è giovane, è giovane, capito?”. Aveva ragione lui.
Pazzo incontrollabile, prima di tutti gli altri, capostipite di un filone che non era demenziale, andava oltre, forse era uno schizoide Jannacci perché poi dietro al Derby e a tutti gli altri c’era lui e lì veniva fuori tutta la lucidità del capocompagnia però capace di fare un motivetto terribile che per quasi tutto il tempo faceva così: piripiripirì pirippippi piripiripirì… Dico, era il 1968, e l’aveva preso come lato B del 45 giri di “Vengo anch’io” che era una metafora di mille faccende ed è diventata patrimonio nazionale.
E Jannacci lascia il posto vuoto un venerdì di passione, come in una della sue assurde storie in musica, portando con sé gli ultimi graffiti di una Milano che i giovani non sospettano e che sopravvive, quando sopravvive, se sopravvive, sempre più lontana, sempre più perduta nel rimpianto dei pazzi e dei savi, la cartolina di un Duomo ancora solenne, puro marmo di Candoglia e preghiere e vecchi sotto che si berciano, treni addormentati su binari morti, fantasmi deragliati di quella Milano agra, alla Bianciardi ma anche alla Jannacci, una domenica pomeriggio che il buio già la schiaccia, finisce una partita squallida, la gente si vomita fuori da San Siro, s’inscatola nei tram, si prende a gomitate, si disperde nei rivoli delle vie, entra nei bar di luce sporca a farsi l’ultimo bicchiere della domenica pensando che domani è un altro infame lunedì di un’altra settimana di ringhiera e Milàn sarà anche un gran Milàn ma a quest’ora seppiata, con le strade che si vuotano e la nebbia che le lucida, non pare proprio.